Ancora una volta si sta sbagliando diagnosi e prognosi
rispetto a ciò che è avvenuto domenica con le elezioni in Abruzzo. Sembra che
il tema sia quello della competizione in atto tra Lega e 5 Stelle, e che tutta
la domanda riguardi il futuro, su come continuerà la gara, se i 5 Stelle
riusciranno a rimontare lo svantaggio in vista delle elezioni europee, o
saranno le opposizioni a trarne vantaggio.
Invece l’Abruzzo ha dimostrato ciò che è già successo e ciò
che certamente avverrà se non sarà interrotto il corso delle cose.
Ciò che sta per accadere è quanto segue:
1)
Le autonomie differenziate che si stanno per
concedere alle regioni del Nord esacerberanno lo squilibrio tra Regioni e Stato,
divideranno il Paese rompendo l’eguaglianza in base al censo, renderanno più
povero ed emarginato il Sud, creeranno disparità di diritti e di tutele tra chi
abita in un luogo o in un altro del nostro Stato unitario;
2)
Le riforme costituzionali in corso trivialmente
motivate dal rapporto costi-benefici, come se fossero la TAV, e dalla lotta
contro “la casta”, revocheranno la centralità del Parlamento, svuoteranno la
rappresentanza, guasteranno il processo legislativo e se approvate con la
probabile maggioranza dei due terzi, saranno sottratte al vaglio del referendum
popolare;
3)
La riforma del Codice penale trasformando da
eccezione a regola la violenza esercitata per “legittima difesa” armerà i
cittadini, potenzierà le lobby dei fabbricanti d’armi e indurrà una sempre più
diffusa cultura da Far West;
4)
Il passaggio alla fase esecutiva del “decreto
sicurezza”creerà folle di stranieri vaganti per l’Italia senza controlli,
negherà loro il nome all’anagrafe e il diritto a un’esistenza legittima e renderà
precaria la stessa cittadinanza, che ai non meritevoli potrà essere revocata a
discrezione del governo;
5)
La perdita di credibilità sul piano
internazionale finirà per paralizzare la politica estera dell’Italia e la
speranza stessa di un suo ruolo nel mondo. Sta già accadendo con la rinunzia
alla neutralità nella crisi venezuelana, che avrebbe dovuto indurre le parti al
dialogo, non a qualunque dialogo ma a quello, come ha scritto il papa a Maduro,
“che si intavola quando le diverse parti in conflitto mettono il bene comune al
di sopra di qualsiasi altro interesse e lavorano per l’unità e la pace”. Invece
l’Italia si è rapidamente riallineata all’ideologia occidentalistica sempre pronta a interventi violenti nelle
sovranità altrui, con le conseguenze ben note dal Cile di Pinochet al Brasile
dei generali, da Saddam Hussein a Gheddafi, dall’Afghanistan alla Siria, per
ricordare le recenti grandi devastazioni della politica mondiale.
Ciò che è già successo domenica in Abruzzo, non parla
dell’Abruzzo, ma parla dell’Italia. E proprio perché Salvini non c’entra niente
con l’Abruzzo, dovrebbe essere chiaro
che la questione è l’Italia.
Ciò che è successo è che si sta compiendo il processo per
cui una minoranza prende il potere, ma non per virtù propria, bensì perché il
sovrano glielo consegna, e si fa sgabello di tale alienato potere.
È accaduto quando il sovrano consegnò il potere a Mussolini,
venuto in vagone letto da Milano mentre le sue comparse facevano la marcia su
Roma; era a capo di una minoranza residuale, reduce dall’interventismo, e con
le idee confuse, ma il sovrano lo mise sul piedistallo e gli lasciò la scena, senza
avvedersi di segnare così la sua fine, il suicidio del regno.
La Lega era una minoranza in declino, il più vecchio partito
tra quelli esistenti, come è stato ricordato in questi giorni, e mai era stata
capace di egemonia e di dominio: fino a quando il sovrano, ossia il popolo
sovrano, mediante le due forze uscite vittoriose dalle elezioni del 4 marzo, 5
Stelle e Partito democratico, l’ha messa al potere, le ha consegnato l’interno,
e non solo l’interno, del Paese, le ha dato lo sgabello di una base
parlamentare e di massa e ha portato tutta l’informazione a farsene eco.
Le elezioni in Abruzzo (non c’è bisogno di aspettare le
europee) sono forse l’ultimo avviso per fermare in tempo la resistibile ascesa.
Prima che le cose più gravi, già annunziate, accadano. Non c’è nessuna rivoluzione
da fare: della mente, certamente sì, ma dal punto di vista istituzionale basta
una crisi di governo. Per molto meno nella precedente fase della Repubblica la
forza di maggioranza, la DC, faceva le crisi di governo, e fu così che quel
partito non si suicidò anzitempo, e governò per quarant’anni, e fece sì che
reggesse l’impianto democratico e costituzionale, con vantaggio di tutti. Così dovrebbe fare, oggi non domani, la forza di maggioranza; se è movimento si
muova, faccia politica, rivendichi grandi valori democratici e nazionali,
acquisendo il merito storico di interdire la restaurazione impietosa della
nuova destra.
Il Paese è solido, i sindacati sono di nuovo uniti. Basta
togliere lo sgabello, e comincerà una transizione in vista di costruire poi,
finalmente, il nuovo.
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