Con la “Giornata della pace” comincia martedì prossimo un
anno di guerra. Quella che oggi ci funesta è la guerra che, andando oltre gli stessi conflitti già
combattuti ed in corso quando il mondo era diviso in blocchi, ha avuto inizio nel 1989 con la caduta del
Muro e si è posta come obiettivo il dominio finale sulla terra, questa volta da
parte del capitale sovrano. Guerra mondiale, dice il papa, ma a pezzi. E i
pezzi sono le singole guerre e sopraffazioni e violenze e muri e false
sicurezze e chiusure, che tutti insieme fanno una guerra sola. Nel messaggio
del giorno di Natale papa Francesco le ha enumerate una per una, a cominciare
da quella di Israele in Palestina, che è la guerra più antica e di cui portiamo
il peso maggiore, perché è la guerra provocata dalle nostre religioni non
convertite. Ma poi c’è la Siria, sempre al primo posto nell’assillo del papa, e
lo Yemen, e i Paesi dell’Africa, e la Corea, e il Venezuela, l’Ucraina, il
Nicaragua, tutti chiamati per nome, e i popoli ancora e sempre colonizzati, e
le minoranze oppresse.
Ma le guerre non sono tutte qui. C’è l’Afghanistan, che non
cessa di pagare per l’11 settembre, il Myanmar, per il genocidio dei Rohingya,
le Filippine, il Pakistan, la Thailandia, la Cecenia, il Daghestan, il Nagorno
Karabakh, l’Azerbajan, e c’è la Turchia contro i curdi e contro la Siria,
l’Iraq devastato, e ancora la Colombia e poi il Messico stretto tra il muro di
Trump e l’aggressione del narcotraffico. Di queste guerre non mancherebbero
notizie, ma ben pochi se ne occupano, tanto meno i giornali e le TV delle
nostre informazioni quotidiane.
Quello che allora proponiamo è che nell’anno che viene,
ciascuno si scelga una guerra da adottare, una guerra di cui informarsi, da
seguire, di cui pensare e amare in
particolar modo le vittime, e di cui magari accogliere qualche profugo nel proprio
paese o nella propria casa. Sono cose che già succedono, perché il potere, per
quanto ottuso, non può proscrivere l’amore e la solidarietà, ma se esse fossero
più diffuse, forse queste guerre non
sarebbero dimenticate e lasciate incancrenire, e più presto potrebbero finire.
E magari se ne potrebbe parlare in rete, e nei siti e nelle mail, ciascuno a
dire la sua esperienza del suo incontro con l’Altro, fosse anche solo a livello
di informazione, per saperne e farne sapere di più; qualcuno può dire perché ha
scelto quella guerra lì e quel “prossimo” da seguire, e darne a tutti ragione e
notizia; e lo potrebbero fare anche le parrocchie.
Il motivo di tutto ciò è che dobbiamo cominciare ad
inventarci, non solo nella politica e nel diritto, ma nella nostra stessa esistenza
quotidiana, i modi per andare verso quel grande traguardo che il papa ha
indicato nel suo messaggio di Natale, in quel discorso dalla Loggia di san
Pietro che non a caso, secondo una ridondante tradizione, è indirizzato “urbi
et orbi” (e invece mai lo stile ne fu più umile ed evangelico come in questo
Natale di papa Francesco).
Il
traguardo è l’unità dell’intera famiglia umana: “riscoprire
i legami di fraternità che ci uniscono come esseri umani e legano tutti i
popoli. Fraternità tra persone di ogni nazione e cultura. Fraternità tra
persone di idee diverse, ma capaci di rispettarsi e di ascoltare l’altro.
Fraternità tra persone di diverse religioni”, tutto congiurando all’amore,
all’accoglienza, al rispetto “per questa nostra povera umanità che tutti
condividiamo in una grande varietà di etnie, di lingue, di culture …, ma tutti fratelli
in umanità!”. La competizione tra le fedi, l’annessionismo religioso per la
Chiesa di Roma sono veramente finiti. Il terreno dove si gioca la partita della
salvezza, la vera Chiesa, è l’umanità
tutta intera.
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