Ricorre oggi
il trentesimo anniversario dell’apertura del muro di Berlino, e i giornali ne
sono pieni. Quello che non viene detto è che l’Occidente sbagliò del tutto la
lettura di quell’evento e perse un’occasione storica straordinaria per
richiamare in servizio i suoi ideali perduti e dar mano a una nuova costruzione
del mondo.
Invece che
come inizio del nuovo, l’Occidente visse infatti l’evento come conferma del
vecchio, come convalida e premio della sua condotta passata. “La guerra fredda
è finita, e noi l’abbiamo vinta”, andò a dire alla Camera il ministro degli
esteri De Michelis. C’era, in quel giudizio, l’ultima vittoria dell’ideologia
del conflitto, l’ultimo grido della vecchia dialettica non più intesa come
strumento della ragione ma identificata con la realtà stessa, una realtà nella
quale la differenza è pensata come antitesi, i diversi sono considerati
opposti, le polarità come alternative, e perciò non ci può essere quiete, conciliazione,
ma contraddizione, tensioni, alienazione e guerra. Coerenti a questa visione
furono le conseguenze che se ne trassero: che la riunificazione tedesca
avvenisse non per integrazione ma per annessione, e per quelli dell’Est fu un
disincanto; che, venuta meno la deterrenza atomica, la guerra fosse
ripristinata, e fu subito la guerra del Golfo; che, con la fine dell’URSS, il
capitalismo non avesse più bisogno di essere mitigato con welfare e simili per poter sostenere il confronto col socialismo;
che ormai, privo di competitori, il vangelo neoliberista del mercato potesse
giungere fino agli estremi confini della Terra, e divenirne la Costituzione
materiale, e via via anche formale, e che la globalizzazione selvaggia ne fosse
il regime, avente le merci e il denaro come sovrani e la gran
parte degli esseri umani come esuberi, come residui e come scarti.
Ciò che non
si volle vedere fu che l’apertura o la caduta e rimozione del muro, fu un
grande evento politico; certo vi sfociava la crisi del comunismo, ma esso fu
effetto di una decisione politica presa da Gorbaciov contro la riluttanza dei
dirigenti tedeschi dell’Est. Soprattutto però era il frutto di un nuovo
pensiero politico, il primo vero, nuovo pensiero politico che si affacciava
alla storia dopo la grande stagione costituente che aveva prodotto la Carta
dell’ONU, le Convenzioni sui diritti e le Costituzioni postbelliche. Non
importa che si chiamasse glasnost o perestrojka; era il pensiero dell’unità
umana, il pensiero della fatuità di continuare ad ammassare armi nucleari per
guerre che non si potevano vincere e che quindi non potevano essere combattute;
era un pensiero per il mondo, un mondo ricomposto, oltre la dialettica
signore-servo, amico-nemico che aveva fin lì dominato la filosofia e la storia.
Quando il 9
novembre dell’89, “cadde” il muro di Berlino, era passato un anno dal discorso di
Gorbaciov all’ONU che aveva invitato tutti a cambiare le cose, a smantellare le armi, a rimettere i debiti al
Terzo mondo, a tutelare l’ambiente, a rilanciare l’ONU , a fare un mondo solidale e
interdipendente, unito e diverso, in un sistema di relazioni non settarie; e
per convincerli che faceva sul serio aveva annunziato di cominciare da se
stesso, di cominciare dall’URSS a ridurre le armi, a togliere mezzo milione di
soldati, diecimila carri armati, ottomila artiglierie e 800 aerei da
combattimento dall’Europa, a concedere una moratoria di cento anni per gli
interessi sul debito ai Paesi poveri o a cancellarlo del tutto, a cessare il
fuoco in Afghanistan, a instaurare uno Stato di diritto, a ristabilire il
primato dei diritti umani. Ed erano
passati tre anni da quel 27 novembre 1986 in cui a Nuova Delhi Gorbaciov
e Rajiv Gandhi, a nome di un miliardo di esseri umani e un quinto dell’umanità,
avevano lanciato un appello per un totale rovesciamento della politica di
dominio e di guerra e avevano proposto di costruire “un mondo libero dalle armi nucleari e non violento” in cui la vita
umana fosse considerata il valore supremo, i popoli fossero rispettati, “Est e
Ovest, Nord e Sud, indipendentemente dai sistemi sociali, dalle ideologie,
dalle religioni e dalle razze” fossero uniti nella fedeltà al disarmo e allo
sviluppo; e la catastrofe ecologica fosse scongiurata. Ma l’Occidente ignorò o
non volle credere a questa rivoluzione di pensiero e di comportamenti, il
sistema di guerra non se ne fece scalfire, e neanche l’apertura del Muro accese
la scintilla di un ripensamento, di un’autocritica; la reazione fu quella
suggerita dai riflessi condizionati e dagli stereotipi di sempre, dall’idea che
questo, dei vincitori, è il modo di stare al mondo.
Per una singolare
coincidenza il giorno prima della caduta del Muro, l’8 novembre, noi eravamo a
Washington, al Pentagono e al Congresso, con una delegazione della Commissione
Difesa della Camera in viaggio negli Stati Uniti per una missione conoscitiva.
C’era tra l’altro da discutere il trasferimento dalla Spagna in Italia, da
Torrejon a Crotone, di una base e uno stormo americano di F 16, cosa per nulla
gradita ai calabresi. Gli interlocutori del Pentagono e della Camera, pur
esprimendo speranze nella distensione, si mostrarono del tutto inconsapevoli e
scettici sul reale mutamento della politica sovietica, ci sommersero di dati e
tabelle sulla perdurante minaccia militare russa, ci dissero che non si sapeva
come sarebbe andata a finire. Non sospettavano quello che sarebbe accaduto
l’indomani, e sostenevano che comunque Stati Uniti e NATO dovevano persistere nel
potenziamento della loro forza militare. Nei giorni successivi, ormai caduto il
Muro, andammo ad Omaha, nel Nebraska, al Comando Aereo Strategico titolare
della potenza nucleare degli Stati Uniti, che aveva come motto “la guerra è il
nostro lavoro, la pace il nostro prodotto”, e poi al Comando del NORAD, che è
quello della difesa spaziale, scavato all’interno dei monti Cheyenne nel
Colorado; in ambedue i luoghi i discorsi e il viso dell’armi furono gli
stessi. Andammo pure alla base di
Nellis, nel Nevada, da cui attraverso un maxischermo fu possibile seguire la
manovra militare interalleata “Red flag” che in quei giorni si stava svolgendo.
Potemmo anche parlare con gli aerei in
volo. Ce n’era uno che volava sempre, non atterrava mai, perché a bordo c’era
un signore, un generale, che lontano da terra, girando sopra l’America, doveva
garantire che in caso di un attacco nucleare che distruggesse i comandi dei
missili al suolo, ci fosse sempre qualcuno lassù che potesse lanciare la
ritorsione atomica e fare l’Armageddon. Collegati con lui, gli dicemmo:
“generale, scenda giù che la guerra è finita” e lui rispose no no, non si può
essere sicuri, dobbiamo restare sul piede di guerra. Scoprimmo anche una buona
dose di religiosità in quella fede nelle armi: nelle tre Accademie militari che
abbiano visitato alla fine, dell’Esercito, dell’Aereonautica e della Marina, la
prima cosa che ci fu mostrata fu la rispettiva cattedrale: una con l’organo più
grande del mondo, l’altra con la croce fatta di pale d’elica, l’altra con un
Gesù frangiflutti che cammina sulle acque, e l’urna dell’eroe portata al cielo
sul dorso di delfini.
La morale è che ci
vuole un pensiero per far cadere i muri, ma se pur cadono i muri e non cambia
il pensiero tutto continua come prima e anche peggio. Quel 9 novembre di
Berlino fu un momento unico, irripetibile, un tempo favorevole, un “kairόs”,
come lo chiamavano i Greci, che corre fuggendo con le ali ai piedi, e se non
l’afferri al passaggio non torna più. Ma ora c’è da fare un miracolo: quel kairόs
della caduta dei Muri dobbiamo farlo ripassare e non lasciarlo fuggire più.
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