«Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e di morte». Così il papa ad Hiroshima. Ma lui è l’unico che resta ancorato a quel buco nero e che mette in gioco la sua autorità di leader per parlare da quel buco nero a un mondo che sembra volere sprofondarvi di nuovo. Chi ha colto fin dal suo sorgere l’inaudita novità del pontificato di Francesco, non si stupirà delle sue fermissime parole da Hiroshima e Nagasaki.
DA «queste terre che hanno sperimentato come poche altre la capacità distruttiva cui può giungere l’essere umano» per condannare le armi nucleari come «un crimine» e il pensiero stesso che le ha concepite. Un papa che ha cominciato a Lampedusa («Vergogna!» salvare le banche e non i naufraghi), che nel memoriale della Shoà in Israele ha rinominato il peccato originale come il peccato non dell’Adam, ma di Caino, che ha aperto l’Anno santo non a Roma ma a Bangui, che ha convocato la Chiesa intera al capezzale dell’Amazzonia morente per il fuoco appiccato dagli uomini, non poteva non salire a quel buco nero.
Vi è salito come al vero nuovo altare su cui l’umano, e insieme anche il divino, sono bruciati per il sacrificio. E ha detto queste parole: «Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo… Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?».
Come sono lontani i vescovi americani che al Concilio, per assolvere la strategia della deterrenza e l’equilibrio del terrore, impedirono che si condannasse anche il solo possesso delle armi nucleari! Ora la Chiesa, finché il papa è il papa, ne condanna oltre al possesso anche la fabbricazione e il commercio, perché la corsa agli armamenti, egli ha detto appena è arrivato a Nagasaki, «spreca risorse preziose che potrebbero invece essere utilizzate a vantaggio dello sviluppo integrale dei popoli e per la protezione dell’ambiente naturale. Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo».
Ed ha aggiunto una nuova definizione alla pace, dopo quella di Giovanni XXIII («la pace è fuori della ragione») dicendo che «la vera pace è disarmata»: o è disarmata o non è, ossia non può esserci: «Le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. La vera pace può essere solo una pace disarmata». Essa non sta solo in un non fare (non fare la guerra) ma in un costruire continuo nella giustizia il bene di tutti.
Giustamente noi ci siamo scandalizzati al sapere che pochi ricchi hanno tanta ricchezza quanto la metà più povera della terra, ma ancora di più dovremmo indignarci al sapere che la grottesca enormità della spesa per gli armamenti (giunta, dicono gli analisti, a 1800 miliardi di dollari l’anno scorso) non solo toglie ogni speranza ai poveri, ma impedisce di porre mano alla vera emergenza che minaccia un altro buco nero per il mondo intero: la devastazione degli ecosistemi e la fine stessa della storia. Perché tutto si tiene. «È un grave errore pensare che oggi i problemi possano essere affrontati in maniera isolata senza considerarli come parte di una rete più ampia», ha detto papa Francesco a Tokyo. E non a caso parlando al recente Congresso mondiale del diritto penale, ci ha tenuto a dire che sta per mettere nel Catechismo della Chiesa cattolica un nuovo peccato, quello ecologico, che grida anch’esso, come la guerra, contro Dio e gli uomini.
Perché se il sistema politico non giunge a metterlo tra i crimini, lui intanto lo ascrive al peccato; e si sa come nella storia i due termini si siano, anche fortunosamente, intrecciati.
La verità è che siamo arrivati a quella svolta epocale per la quale la salvezza dell’umanità e del mondo non è più solo l’argomento delle religioni e delle Chiese, ma è l’urgenza stessa della politica e del diritto. Le due salvezze si incontrano, diventano una sola, fede e storia, grazia e libertà, sono portate dai fatti a incontrarsi in una sintesi nuova, escono dalla dialettica degli opposti. Eppure proprio ora l’irrompere dei particolarismi, dei nazionalismi, dei sovranismi sta distruggendo quel tanto di ordine internazionale che con tanta fatica si era cominciato a costruire dopo la prova della seconda guerra mondiale.
Nel messaggio di Nagasaki sulle armi nucleari il papa ha denunciato proprio questo rovesciamento che è in corso, che si manifesta nello «smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader».
Ormai gli appelli, le denunce, e anche milioni di voci che si levano dalle piazze non bastano più.
Va ripresa con coraggio la strada gloriosa dell’internazionalismo, la costruzione del multilateralismo. Questo, oggi, è il vero «stato d’eccezione» su cui ieri si insediavano i vecchi sovrani. Ma per fare questo occorre tornare alla politica per promuovere una politica per la Terra; occorre fondare un diritto capace di dettare regole impegnative per tutti, un costituzionalismo mondiale e un sistema di garanzie che lo renda efficace, occorre una Costituzione per la Terra.
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