Nel
dolore del mondo
La
cultura della diseguaglianza ha radici antiche, viene dalla filosofia classica
e dalla conquista dell’America, solo nel Novecento è stata ripudiata, ed ora
ritorna. La costruzione dell’unità umana è la principale tra le attuali urgenze
messianiche
Raniero La Valle
Pubblichiamo
il discorso tenuto a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane
nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.
Cari Amici,
vi
potrà stupire che ci sia una citazione biblica (Gal. 3, 28) come titolo di questo mio intervento , quando né le
citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si
sta cercando di dare una spallata per abbatterli.
Però a ben vedere anche
il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è
addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni
vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il
pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non
c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche
di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo
barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche
un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.
Questa è la tesi del
nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e
Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo.
È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a
parte i negazionisti e gli accecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene
partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra
altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è
Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente
contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli
Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra
sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in
quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima
gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a
quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il
decreto sicurezza del ministro Salvini.
Allora qui bisogna
sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la
storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della
diseguaglianza.
La storia della diseguaglianza
Dire
non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente,
era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una
differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche
entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché
il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma
tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione
del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che
dominava era infatti l’antropologia di
Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per
natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza
non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una
diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza
ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa
che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà
passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei
brahamani: l’unica possibilità di
cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei
dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le
caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi
devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle
case delle caste alte.
In
Occidente Aristotele spiegava che come
per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci
“chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione”
(“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una
diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e
femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra
è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di
classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal
lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i
meticci, gli immigrati).
Fu
perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di
Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e
Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli
esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco,
ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e
libero, e non c’è più circoncisione e in
circoncisione (Col. 3, 11): e questo
voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le
Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per
sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la
circoncisione.
Ora
questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha
affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse
messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di
tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia (Is. 2, 4) che annunciava che dalle loro spade
fabbricheranno vomeri, dalle loro lance
falci, nessuna nazione alzerà più la
spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (perché la
guerra non è in natura, non si nasce “imparati” alla guerra, è un artificio, un
prodotto della cultura, bisogna impararla) o la profezia di Michea che
annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto
il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli
avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute,
mentre tutte le identità sarebbero state
salvate. La novità del Cristo, che poi significa
Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio
dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse
messianiche.
Purtroppo
però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva,
e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che,
come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni
come un giorno al cospetto di Dio (2Pt
3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a
dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha
fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme
storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e
classiste.
La conquista dell’America
Per
venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della
diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità
discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista
dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda
della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di
Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per
limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e
padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella
sua famosa Relectio de Indis: ma
intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza
arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento
europeo.
È
proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella
filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per
natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario
Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul
ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”.
L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori,
i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios
“scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini
e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non
riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non
riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo
spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di
sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su
un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca,
nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che
aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò
aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle
lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non
uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato
facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa
indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre
conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati.
Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda
a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione
della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad
essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera
di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta
inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in
America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività
europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così:
“Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico
e nel Perù... sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva
quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo
spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli
indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto
ogni aspetto, perfino quanto a statura”.
Nel
rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto
scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti
il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli
dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono
alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò
incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non
storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si
cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si
può, si lascia che vivano ai margini... lasciando che di essa si estingua la
stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano
(secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].
E che la
soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da
eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry
Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto
umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è
feroce e crudele... Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per
coloro che vi provvederanno”.
Ma
purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per
loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke,
all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari:
“un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il
promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e
alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di
filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di
Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che
vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che
muoiano”.
Il
punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della
società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”:
questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche
mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a
me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono
diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di
decadenza" (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le
conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia:
tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa
porta a un “guazzabuglio sociale”, a
una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha
pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che
Salvini!
La svolta
Ma
a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del
Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella
tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale.
L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina:
sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e
piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di
eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel
costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra
fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti
e il comunismo è finito, il capitalismo,
che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche,
keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto
prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto
la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e
si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società
dello scarto.
La società dello scarto
La
nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati,
gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società
dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha
ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno
conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio
fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui
apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli
scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere,
bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma
completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto
fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata
uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non
è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo
al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di
scarti”.
E noi possiamo aggiungere che mentre
gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono
nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.
Il popolo dei migranti
Allo
stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
Lo
scarto dei migranti rivela tutto il suo orrore in agghiaccianti statistiche. Nel
2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è
la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3771, mentre nel 2017 le
vittime sono state 3081.
Nel
2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette
alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa
di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila.
La maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi
sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Entro
il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali
ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.
Però
un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono
numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e
giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia
morale e politica più grave rispetto ai 3000 naufraghi scomparsi in mare senza
che nessuno potesse dar loro soccorso.
Tuttavia
i numeri che riguardano i migranti sono
importanti perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e e nello stesso
tempo produce un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che
stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una
discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra
è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come
si reagì alla scoperta dell’America.
Il
rischio è che noi vi rispondiamo con un naufragio: ma non solo il naufragio dei
profughi, ma il nostro naufragio. E il vero naufragio consiste nel ricadere in
quella notte oscura da cui l’Europa e il mondo erano usciti alla fine della
seconda guerra mondiale, quando decisero che mai più avrebbe dovuto esserci un
genocidio. Per questo il primo atto delle Nazioni che si erano unite nella
guerra antifascista e che come Nazioni Unite si incontrarono a San Francisco per dare inizio a un mondo
nuovo, fu la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di
genocidio. Ma siccome non c’era stato solo il genocidio degli Ebrei, nella
Convenzione si ebbe cura di affermare che si intendeva per genocidio non solo
lo sterminio di un popolo intero, ma ogni atto volto “a distruggere, in tutto o
in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”; dunque
il popolo che la Convenzione intende tutelare è ogni gruppo umano accomunato da
fattori e circostanze che fortemente lo identificano; e tra gli atti sanzionati per tale crimine
vengono esplicitati le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri
del gruppo, la sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocare
la sua distruzione fisica, totale o parziale, le misure miranti a impedire
nascite all’interno del gruppo.
Se
ora applichiamo tali criteri alla specifica condizione umana dei migranti,
vediamo come anch’essi siano un popolo, un popolo in cammino, di uomini e donne che in gruppi ed
aggregazioni le più diverse, insieme affrontano il mare o le rotte terrestri
per andare da un Paese all’altro, tutti muovendosi con le stesse motivazioni e
condividendo lo stesso destino; ed è questo popolo come tale, nelle sue diverse
espressioni, che l’Occidente e molti Paesi d’arrivo respingono e perseguono per la sola e comune
ragione che si tratta di un popolo di migranti; si tratta cioè di aggregati
umani che le politiche e gli ordinamenti di questi Stati negano nel loro stesso
diritto di esistere, di avere una cittadinanza, di essere ricompresi nelle
regole del diritto; e proprio come è vietato nella Convenzione dell’ONU, i
membri di questi gruppi sono esposti a lesioni gravi della loro integrità
fisica e mentale, e i gruppi stessi sono sottoposti a condizioni che di fatto
li distruggono in modo totale o parziale, le donne sono messe in condizioni per
cui sono impedite le nascite, e spesso i fanciulli sono separati dal gruppo e
forzatamente inclusi in un altro.
Ora
possiamo dire che riguardo al popolo dei migranti l’illusione di difendersi,
come fanno l’Europa e l’Italia di Minniti e di Salvini, scartando pezzi di
mondo è particolarmente infelice, perché il rifiuto di accogliere migranti e
profughi li rende clandestini, li trasforma in rei non di un fare, ma di un
esistere. La conseguenza è che gli stessi Stati di diritto e di democrazia
costituzionale tradiscono se stessi perché accanto ai cittadini soggetti di
diritto concentrano masse di persone illegali, giuridicamente invisibili e
perciò esposte a qualunque vessazione e sfruttamento, pur avendo tutti non solo
lo stesso suolo che li accoglie ma lo stesso sangue umano che li nutre.
Gli altri problemi critici
E
non ci sono solo gli scarti e i migranti, ci sono altri problemi critici, da
cui veramente dipende il futuro del mondo: il ripristino della sovranità della
guerra, la manipolazione genetica dell’uomo, la precarietà eretta a sistema, la
crisi ecologica, tutte cose di cui non possiamo parlare ora.
Per tutte queste
ragioni noi siamo in uno stato di sofferenza. E io penso che questa
sofferenza abbia una qualità nuova. Per
definirla potremmo chiamarla sofferenza
messianica, perché tale è la sofferenza che si fa carico della sofferenza del mondo e perché sa che c’è in
gioco l’avverarsi o il fallire di quella
promessa di salvezza che dai tempi antichi fino ad oggi ha accompagnato e
lenito l’arduo cammino dell’umanità: quella promessa messianica che è poi
diventata l’annunzio cristiano, dato che Cristo e messia non sono che lo stesso
nome pronunziato in due lingue diverse.
Perciò
è lecito chiedersi se il cristianesimo c’entri quando noi ci domandiamo quale
esito potrà avere l’attuale crisi epocale
e che cosa noi possiamo sperare: sapendo che si può sperare solo ciò che si
contribuisce a far accadere agendo.
E
dobbiamo cominciare col chiederci, come fece il Concilio, quali sono “i
problemi più urgenti”, tanto urgenti che potremmo prenderli come delle vere e
proprie “urgenze messianiche”. Si tratta di problemi che mai nella storia si
sono presentati con eguale gravità. Essi possono essere affrontati non da
ciascuno da solo, ma dall’umanità tutta intera, uomini e donne, purché essa si
riconosca nell’eguaglianza come una sola famiglia umana. Le risposte che si
devono dare a queste situazioni di emergenza non sono infatti delle piccole
risposte riformiste o populiste, oggi del tutto insufficienti, ma sono risposte che realizzino il passaggio da
una fase infantile a una fase nuova, non “postmoderna” ma semplicemente adulta,
della storia dell’umanità.
Io
individuerei per ora sei di queste urgenze, sei grandi novità che ci sfidano a
cui dobbiamo dare risposta.
Le
novità sono le seguenti:
1) Non
era mai successo che i banchieri di tutto il mondo fossero uniti e i poveri
invece divisi.
2)
Non era mai successo che si
progettassero guerre in cui si muore da una parte sola. La tecnologia lo fa
credere possibile, arma i droni, rende asimmetriche tutte le guerre, ne
sopprime l’ultima razionalità.
3)
Non
era mai successo che il naufrago potesse erompere nel grido: “Terra! Terra!”, ma
le terre gli fossero negate e gli si chiudessero i porti in faccia.
4)
Non era mai successo che dire “uomini”
non fosse la stessa cosa che dire: “nati da donna”. Non è più veramente
necessario che siano due in una carne sola, non solo gli sposi, ma i due generi
umani. Il sistema non si cura che siano maschio e femmina, gli interessa che siano eguali nel comprare e nel
vendere. “Non c’è più né uomo né donna” doveva essere un’addizione, un elevare
1 al quadrato, non una sottrazione dell’altra, non che si perdesse la “loro differenza
benedetta” (papa Francesco). Le donne l’hanno rivendicata, ma l’uomo globale è
più maschilista di quello tribale, la donna neanche la distingue. Si può
generare senza la donna, forse anche senza il suo utero. Allora non si potrà
più dire: “Nel ventre tuo si riaccese l’amore” (Dante). Cessa la simbologia di
Dio che “ha viscere di misericordia” (Salmo 103, 13). L’intelligenza
artificiale è asessuata. Nemmeno il padre di Pinocchio voleva fare il suo
burattino né maschio né femmina.
5)
Non era mai successo che ai giovani
fosse perfino impossibile immaginare un futuro.
6)
Non era mai successo, se non nei Paesi
bassi, che col caldo saltasse il chiavistello delle acque e il mare venisse su
più alto delle città e della terra.
Si può fare solo un
sommario delle risposte che si dovrebbero cercare
1) Che
sovrano non sia il denaro ma tornino o giungano ad esserlo le persone ed i
popoli.
2) Che
la guerra esca da tutte le ragioni, anche dalla ragion di Stato, e perciò dalla
storia.
3) Che
la libertà rinasca dal mare e non ci siano più porti chiusi muri e frontiere
sulla terra.
4) Che
l’uomo gioisca di essere maschio e femmina con un’intelligenza di carne in una
sola umanità di ogni lingua e colore, un solo Padre e molte fedi.
5) Che
le Repubbliche governino il provvisorio
togliendo gli ostacoli che impediscono la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, e costruiscano ponti, lavori e
condizioni di vita che reggano agli insulti del tempo.
6) Che si sostituiscano le energie e le pompe di
calore che inquinano l’aria e surriscaldano la terra.
7) Ma
soprattutto che nessuno cerchi la felicità se non soffre del dolore degli
altri.
Raniero
La Valle
Nessun commento:
Posta un commento