Una
delegazione salvadoregna venuta per partecipare alla canonizzazione di mons.
Romero in san Pietro ci ha informato della lunga battaglia in corso in Salvador
per far luce sul suo assassinio, ancora coperto dalle nebbie dell’omertà, e
ottenere giustizia per le migliaia di vittime di quella lunga guerra di
repressione dopo che una legge sull’amnistia voluta dal governo di destra ha
inteso cancellarne tutti i delitti e assicurare l’impunità ai colpevoli.
Anche in Salvador va affermato
il valore della memoria, la sua potenzialità redentiva e riparatrice; tuttavia
la giustizia rivendicata dalle vittime che, come dice l’Apocalisse, hanno
lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello, non consiste, com’è nella logica
mondana, nel punire i colpevoli e nell’infliggere loro un pari dolore, ma
nel far sì che la causa per cui esse hanno donato la vita sia vinta e i valori
che hanno testimoniato col loro sacrificio siano ripristinati e salvaguardati
per il bene di tutti e soprattutto dei poveri.
Questo è anche il senso del riscatto
ottenuto nella gloria di san Pietro dalla memoria, così a lungo osteggiata e
offesa nella stessa Chiesa, del vescovo Romero. Nella sua canonizzazione è
avvenuta una cosa straordinaria, che non era mai accaduta prima: un ottavo
santo è stato proclamato, accanto agli altri sette, accanto al papa, al
vescovo, ai due preti, alle due suore e al giovane precario, e questo santo non
è una persona, è un popolo, il popolo del Salvador, anch’esso martirizzato in odio
alla fede: non solo infatti esso è stato perseguitato e ucciso per la sua
resistenza al potere militare e politico, ma perché a rinsaldare questa sua
resistenza era sopraggiunto il suo ascolto del Vangelo, predicato ai poveri dai
poveri, tanto che a cadere per primi sono stati catechisti e gesuiti, lettori
della Parola e militanti dei diritti umani, e lo slogan corrente in quegli anni
da parte degli oppressori omicidi era “haga Patria, mata a un cura”,
che vuol dire: sii patriota, ammazza un prete.
Non si possono separare perciò la
santità del vescovo e la santità del popolo. Del resto lo aveva detto mons.
Romero: se mi uccidono risorgerò nel mio popolo. Il popolo del Salvador è stato
vittima di un genocidio, perpetrato da “una tirannia evidente e prolungata”, di
quelle che a detta di Paolo Vi, l’altro cristiano dichiarato santo il 14
ottobre, giustificano perfino il male del ricorso all’insurrezione
rivoluzionaria (n. 31 della “Populorum progressio”). Non è stata infatti solo
una repressione, è stato un genocidio quello del popolo della piccola
repubblica del Centro America, secondo la definizione di genocidio data
dalla Convenzione internazionale del ’48 e secondo la sentenza del Tribunale
permanente dei popoli che nel 1981 ha giudicato, a Città del Messico, il caso
del Salvador; è stato questo il prezzo sacrificale pagato a un sistema
malvagio e oppressivo posto a difesa della ricchezza di alcuni, in pratica
dell’oligarchia spagnola di 14 famiglie. Da questo è stata colpita e
convertita la Chiesa: perché, aveva detto il vescovo Romero, quando il popolo è
perseguitato è la Chiesa che è perseguitata. Era questa la ragione per cui la
Chiesa non poteva venire a patti col governo, come voleva papa Woytjla; non si
può, non si può se si segue il Vangelo, passare dal campo dei
perseguitati a quello dei persecutori.
Dunque c’era un’identificazione tra
Chiesa e popolo, Romero e popolo sono stati uccisi insieme, e perciò oggi sono
santi insieme, san Romero d’America e il popolo santo del Salvador.
Ma può essere santo un popolo, che
certo comprende atei e peccatori? Papa Francesco nella sua “Gaudete et
exsultate” ha spiegato bene che cosa sono i santi, i santi della vita
quotidiana, i santi della porta accanto: “Non tutto quello che dice un santo è
pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto.
Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita”, ha scritto Francesco.
Così è anche di un popolo, tanto più in questo caso quando il popolo innocente
del Salvador ha resistito e svelato al mondo il meccanismo sacrificale nel
quale era chiamato a fare la parte della vittima: un meccanismo che nella sua
versione moderna era giunto fino a rovesciare la sentenza di Caifa: “È
bene che un popolo intero muoia per il vantaggio solo di pochi”. È per questo
svelamento – perché altri popoli comprendano e resistano – che il vescovo
Romero è stato chiamato santo ben prima che la sua effige fosse innalzata sulla
facciata di san Pietro, e insieme a lui santi sono Marianella Garcia Villas, che
instancabilmente quel meccanismo genocida aveva denunciato al mondo mentre era
in atto, e Rutilio Grande, ucciso per primo con i contadini di Aguilares, e i
gesuiti dell’Università cattolica, e i decapitati e gli spariti e le donne
stuprate e lacerate nel ventre ancora palpitante del figlio.
giovedì 18 ottobre 2018
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