sabato 14 giugno 2014

La dignità umana: dal Concilio a Papa Francesco

Pubblichiamo il testo della relazione tenuta il 7 giugno scorso da Raniero La Valle a Borgomanero, a conclusione del “Festival della dignità umana” tenutosi sotto la direzione di Giannino Piana.

Nelle sue tesi di filosofia della storia Walter Benjamin[1] racconta di un fantoccio che giocava a scacchi, che era la filosofia, e c’era un nano piccolo e brutto che era nascosto sotto il tavolo e che con dei fili gli muoveva la mano, e questo nano era la teologia. Era dunque la teologia a guidare il gioco; la filosofia – che in questo caso era il materialismo storico – la prendeva al suo servizio e così poteva vincere.
Questa tesi del nesso tra teologia e filosofia, dov’è la teologia a guidare il gioco senza peraltro che debba nascondersi, è una tesi classica della Chiesa cattolica; l’ex papa Ratzinger è tornato più volte sul rapporto tra fede e ragione, dove a prevalere deve essere la  fede; la fede infatti reca la verità, e la ragione è legittimata ad esercitarsi nei limiti in cui le è consentito dalla verità, o da quella che si afferma essere la verità.
Ma Dio non ha messo la camicia alla ragione, l’ha donata all’uomo perché ne faccia buon uso, e tuttavia non è un dono condizionato al retto uso. Tutta la modernità si è fondata sul principio dell’autonomia della ragione; la filosofia, la scienza, l’astronomia, l’anatomia, la biologia, la ricerca sono libere.
Dunque secondo l’uomo della modernità la filosofia può cavarsela da sola.
Dove invece il nesso è indissolubile, a mio parere, è tra la teologia e l’antropologia, ovvero tra la fede e la comprensione dell’uomo.
La domanda sull’uomo è una domanda teologica. Chi sono io? La domanda divenuta celebre da quando papa Francesco l’ha applicata a se stesso (“Chi sono io per giudicare i gay?”), è una domanda rivolta a Dio. Non a caso “chi è l’uomo?” è la prima domanda che l’uomo rivolge a Dio. La Bibbia è piena di domande che Dio rivolge all’uomo, a partire dalla prima: “Adamo, dove sei? Uomo dove sei?”. Ma quando è l’uomo a domandare, la prima domanda è: “chi è l’uomo?”. Dice il Salmo 8: “chi è l’uomo perché te ne ricordi, e il figlio dell’uomo perché te ne curi?”.
E c’è pure la risposta:
“eppure l’hai fatto poco meno degli angeli
di gloria e d’onore lo hai coronato
gli hai dato potere sulle opere delle tue mani
tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Salmo 8, 5-7).
La domanda sull’uomo è una domanda teologica perché tra Dio e l’uomo intercorre un rapporto di immagine e somiglianza, come sta scritto nella prima pagina della Bibbia. Naturalmente ci si può non credere e non tenerne conto. Ma se si ammette questo è chiaro che non si può raggiungere il nucleo dell’identità dell’uomo se non si sa nulla di Dio, e d’altra parte non si può conoscere Dio se non a partire dall’uomo, anzi dalla carne dell’uomo, come dice il grande teologo di Bisanzio, Nicola Cabasilas.
Ed è allora qui, in questo nucleo, che si trova la dignità della donna e dell’uomo. La più profonda identità dell’uomo è la sua dignità, e la dignità dell’uomo è la sua divinità: l’immagine del divino nell’uomo è la sua dignità.  Divinitas e dignitas, dignus e divinus vanno insieme.
Ma in che consiste questo nucleo del divino nell’uomo, in che consiste l’immagine di Dio nell’uomo?
Secondo la tradizione più diffusa l’immagine di Dio nell’uomo consisterebbe nella ragione.
Però c’è tutto un filone che parte da Bernardo di Chiaravalle (XII secolo), che continua nella teologia monastica e che giunge fino a noi, che individua l’impronta di Dio nell’uomo nella libertà. Ciò per cui l’uomo è fatto a immagine di Dio non è la ragione, ma è la libertà.
La libertà è il divino nell’uomo

 Secondo Bernardo questa libertà dell’uomo in cui è impressa l’immagine di Dio, è una libertà originaria, di natura, congenita, è – dice Bernardo – “qualcosa di divino che rifulge nell’anima come la gemma nell’oro”. E’ una libertà di natura che è preliminare alla libertà della grazia e non si perde neanche per il peccato, né essa è maggiore nel giusto che nel peccatore, non è maggiore in Gandhi che in Hitler.
E’ la libertà della decisione: il libero arbitrio, e questa è appunto la dignità umana, di cui stiamo celebrando il festival.
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martedì 10 giugno 2014

Ci vuole più fede per la pace che per la guerra

LA PREGHIERA NEI GIARDINI VATICANI
di Raniero La Valle 

Era il giorno di Pentecoste, che certo aveva rappresentato una sorpresa per gli apostoli riuniti nel Cenacolo. Ricordando quell’evento papa Francesco a mezzogiorno, alla recita del “Regina Coeli”, aveva detto che una Chiesa che non avesse questa stessa capacità di sorprendere, sarebbe una Chiesa ammalata, morente, dovrebbe al più presto essere ricoverata in sala di rianimazione.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, l’8 giugno, la Chiesa di Francesco sorprendeva il mondo con la preghiera comune, rivolta al Dio a tutti comune, dal più inedito e improbabile “quartetto” che si sia mai occupato della pace in Medio Oriente. Il quartetto, visto in diretta da tutto il pianeta, era formato dal papa di Roma, dal patriarca di Costantinopoli, dal Presidente dello Stato di Israele e dal Presidente dello Stato futuro di Palestina. Un’azione sacra compiuta non nella città santa di Gerusalemme, dove non si era trovato un posto dove tutti potessero pregare insieme, ma nell’angolo più poetico e mondano possibile dello Stato pontificio, i giardini vaticani, dove mai si era parlato né ebreo né arabo, e forse nemmeno si era mai pregato se non per qualche peripatetico rosario privato.
Ancora più sorprendente era che la preghiera, che vive in regime di gratuità, fosse mirata questa volta a ottenere un bene urgente e concreto, la pace, ma non solo una pace generica, come sempre e a buon mercato invoca la preghiera, bensì quella pace specifica che è massimamente difficile, se non addirittura impossibile ottenere in questo nostro tempo, ossia la pace tra Israele e il popolo dei territori occupati della Palestina.
Si parla dunque di una pace non solo spirituale ma politica e storica, una pace come il mondo la può dare, e la può dare attraverso le risorse della politica e del diritto, nella forma da tutti a parole avallata di due popoli in due Stati sovrani dalle frontiere sicure e riconosciute.
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