I testi che qui pubblichiamo sono
le risposte che la scuola di ricerca e critica delle antropologie, “Vasti”, che
è stata attiva a Roma nell’ultimo decennio, ha inviato in data 29 dicembre 2013
alla segreteria del Sinodo dei Vescovi, in riscontro al questionario sulla
famiglia inviato dallo stesso Sinodo a tutta la Chiesa. Le risposte vertono su
due temi cruciali che saranno oggetto della discussione del prossimo Sinodo
straordinario, previsto per l’ottobre prossimo. Il primo tema riguarda il
rapporto tra legge naturale, legge positiva e Vangelo, e il secondo affronta la
questione dei sacramenti ai divorziati risposati. Le risposte sono state
elaborate con la collaborazione del prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo
del diritto, e del prof. don Giovanni Cereti, teologo e studioso della Chiesa
primitiva, in seguito alla consultazione che su questi temi è stata promossa da
papa Francesco sia tra i cattolici che tra i non credenti.
A - DIRITTO
NATURALE, DIRITTO COSTITUZIONALE E FAMIGLIA
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei
vescovi:
2 - Sul matrimonio secondo la legge
naturale
a) Quale posto occupa il concetto di legge naturale
nella cultura civile, sia a livello istituzionale, educativo e accademico, sia
a livello popolare? Quali visioni dell’antropologia sono sottese a questo
dibattito sul fondamento naturale della famiglia?
b) Il concetto di legge naturale in relazione
all’unione tra l’uomo e la donna è comunemente accettato in quanto tale da
parte dei battezzati in generale?
c) Come viene contestata nella prassi e nella
teoria la legge naturale sull’unione tra l’uomo e la donna in vista della
formazione di una famiglia? Come viene proposta e approfondita negli organismi
civili ed ecclesiali?
d) Se richiedono la celebrazione del matrimonio
battezzati non praticanti o che si dichiarino non credenti, come affrontare le
sfide pastorali che ne conseguono?
Risposta
alle domande 2a 2b 2c 2d.
La
questione della legge naturale - o diritto naturale – è una delle questioni più
gravi e decisive che la Chiesa si trova davanti se vuole rispondere alla
necessità, affermata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio
Vaticano II e dal Concilio stesso, di enunciare i contenuti perenni della fede
nei modi che la nostra età esige (ea
ratione quam tempora postulant nostra), cioè secondo “le forme della
indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.
Riguardo
alla questione cruciale del diritto e del rapporto tra legge e Vangelo, questa
esigenza non può risolversi in un “aggiornamento” di pura cosmesi.
Ora
la formula “legge naturale” (o diritto naturale) ha presso gli uomini e la
cultura di oggi un significato diverso da quello che essa aveva presso gli
antichi, e quindi un dialogo della Chiesa con l’età moderna che utilizzi questa
formula è destinato alla più radicale incomprensione reciproca.
I limiti del
giusnaturalismo
Il
diritto naturale appartiene a una
prima fase della storia del diritto quando, mancando una legislazione fornita
di autorità e comunemente riconosciuta, il criterio di riconoscimento di ciò
che fosse diritto stava in ciò che gli uomini stessi sentissero come giusto e
corrispondesse a una verità o razionalità derivanti da un ordine di natura. È
questa l’esperienza del nomos greco,
del diritto romano e poi del diritto comune.
In
questa esperienza millenaria diritto e morale finivano per coincidere, e le
norme erano dedotte da un ordine esterno al diritto, supposto come oggettivo e
come vero (“naturale”, appunto) e quindi, come tale, acquisibile alla
conoscenza.
Di
fatto però questa fase del diritto era aperta alle più gravi ingiustizie per
l’arbitrarietà e il relativismo con cui la presunta giustizia era interpretata
e nei più diversi modi applicata.
Inoltre,
in un contesto culturale in cui la diseguaglianza, il diritto del più forte, la
superiorità dell’uomo sulla donna erano considerati normali e secondo natura,
la legge naturale ha potuto essere usata come fonte di legittimazione e
consacrazione di un diritto positivo che si andava costruendo in modo da
riprodurre e perpetuare rapporti di diseguaglianza, di discriminazione tra le
persone e di sottomissione della donna; nei confronti di questa, in
particolare, per secoli il diritto positivo ha assunto una posizione di netto
sfavore, non senza il supporto di riferimenti culturali, morali e biblici,
trasfusi in una legge naturale oggettivizzata e assolutizzata; pericolo che non
è venuto meno neanche oggi.
I limiti del
giuspositivismo
La
seconda fase è quella del diritto
positivo, per il quale è diritto non ciò che di volta in volta è
considerato giusto (secondo l’opinione di Gaio piuttosto che secondo quella di
Ulpiano e così via), ma ciò che è sancito da un’autorità legittima ed ha
certezza e validità per tutti. Qui a prevalere in ciò che istituisce la legge
non è un principio astratto e inafferrabile di “verità” o di giustizia, ma
l’autorità del legislatore (“Auctoritas
non veritas facit legem”, secondo la massima di Hobbes). È questa
l’esperienza di tutti gli Stati moderni di diritto.
Continua...