Dopo il 4 marzo
Il voto del 4 marzo, raffigurato nella cartina
colorata trasmessa quella sera in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del
Nord, identificata dalla maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e
l’Italia del Sud, identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e
rappresentata anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le
Italie, come un’Italia sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di
speranza, e che nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo
di dare ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso,
da nessuno sondato e immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato
dolore, sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di
questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi da ogni
giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto male.
Però si possono cogliere alcune positività non
indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un
crescente astensionismo. Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la
politica. Qui i poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia
continua, la Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati
decisivi. Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la
prima volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi, ansiosi
di futuro.
Una feconda, netta discontinuità
In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno
introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente
non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del
prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo
non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui
può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo propizio, può
giungere l’occasione che va colta, può passare quello che gli antichi
chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare prima che scompaia. È
la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il
tempo “omogeneo e vuoto"; e la politica italiana aveva bisogno di questa
discontinuità, perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto,
non solo era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della
critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava arrivando
a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male. Ora dunque si
tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e volgerla al meglio.
Continua...