venerdì 23 marzo 2018

CREDITI DI GUERRA

Esclusa qualsiasi cosa in contrario (compresa la difficile fase italiana), la madre di tutte le notizie è oggi che l’ex Presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy, dopo 48 ore di interrogatorio nel commissariato di polizia di Nanterre, è stato incriminato dalla Giustizia francese e messo in libertà condizionata per il delitto di essersi fatto corrompere da Gheddafi con 5 milioni di euro mediante i quali carpire il voto dei francesi e farsi eleggere Presidente della Repubblica nel 2007 (se no avrebbero vinto i socialisti). Se questa è formalmente la materia dell’accusa, dietro si staglia lo spettro dell’ipotesi che quattro anni dopo il Capo dello Stato francese abbia fatto la guerra alla Libia e procurato l’uccisione di Gheddafi per coprire quel primo delitto, per distruggerne la prova, sopprimerne il coautore e, per inciso, per estinguere il debito. E dunque la notizia è questa: non che la politica possa essere corrotta e farsi finanziare illecitamente, questo già lo sappiamo. La notizia riguarda il motivo per cui si è fatta quella guerra, riguarda la qualità dei motivi per cui si fanno le guerre, riguarda la guerra come delitto per occultare altri delitti, come alibi per scagionarne gli autori, come foresta in cui nascondere una foglia, come tempesta in cui confondere un colpo di vento.
Però la guerra alla Libia non è stata solo della Francia. È stata di tutto l’Occidente. È stata la guerra degli Stati Uniti, ed è stata la guerra anche nostra. L’hanno fatta Cameron come Obama e Hillary Clinton, Sarkozy come Berlusconi e Napolitano, il Belgio come la Spagna, il Canada, la Danimarca e perfino il Qatar (non però la Germania), l’ha fatta la NATO ed è stata condotta da Napoli. E poiché nessuna guerra si improvvisa, ma deve essere preparata nei cuori, chi scrive ricorda che già negli anni 80 in una visita della Commissione Difesa della Camera alla base aerea di Trapani-Birgi, si trovò che gli uomini del 37° Stormo dell’Aeronautica militare lì dislocato, venivano eccitati all’odio contro Gheddafi che per di più, secondo gli americani, aveva sparato due missili (fantasma) verso il mare di Lampedusa.
Continua...

martedì 20 marzo 2018

IL PAPATO SI RINNOVA ED È DI NUOVO PROTESTA


Per gli arruolati al partito antipapista la testimonianza dell’ex papa Benedetto XVI a sostegno di papa Francesco, a conferma della sua sapienza teologica e della continuità del suo pontificato con quello precedente, è arrivata come una sciagura. Così hanno cercato di azzerarla, svelando che nella lettera dell’ex papa c’era anche una riserva per uno dei teologi che aveva collaborato alla collana pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per i primi cinque anni di pontificato. Ma per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto del precedente pontefice di prendere le parti  o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio. La quale, dalla casamatta del blog dell’Espresso, annuncia ora per il 7 aprile a Roma una specie di Convenzione antagonista per pubblicare le Tesi di una nuova Protesta.
Tornando alla Chiesa, c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di posizione dell’ex papa Benedetto, ha avuto il merito di portare alla ribalta, come oggetto di riflessione, la natura stessa del papato, anche al di là del giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato, condizione e volano della riforma della Chiesa.
L’ostacolo era  che nel corso del secondo millennio cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di Dio. La manifestazione più vistosa nel Novecento se ne ebbe nella figura ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni XXIII, la mitizzazione giunse ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Continua...

venerdì 16 marzo 2018

UN ATOMO DI VERITÀ



di Raniero La Valle

Oggi, 16 marzo, è il quarantesimo anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione degli uomini della sua scorta. Per ricordarlo si è fatto largo ricorso sui giornali e in TV a interviste ai brigatisti che compirono il crimine, i quali hanno rievocato fatti e ideologie del tempo, con abbondanza di particolari e con un certo distacco più da storici che da criminali.  Così nelle due puntate di Atlantide di Andrea Purgatori si sono potuti ascoltare Mario Moretti, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e, in un filmato fatto prima che morisse, il carceriere di Moro, Prospero Gallinari.  
Quello che ne risulta è il tragico infantilismo e l’incultura del modo in cui essi “pensarono” la rivoluzione. Sapevano dai cinesi, e lo dicono, che “la rivoluzione non è un pranzo di gala”, ma allora ne fanno un gioco; un gioco con la vita degli altri di un cinismo e di un’ingenuità senza pari, un gioco assurdo giocato come se fosse serio: la rivoluzione come navicella che galleggia su un lago di sangue, la vita del giudice ucciso che è solo un granello irrilevante nel turbine, la folle idea che la rivoluzione non debba essere processata dallo Stato e  ciò prima ancora che abbia vinto, nel momento stesso in cui cerca di abbatterlo, la presunzione che tutto si decida qui, che loro sono liberi da ogni controllo, che il mondo di cui l’Italia è parte non esiste, il delirio di pensare che nessuno li stesse usando, Moro che deve essere ucciso perché se no chi glielo dice ai compagni che non si è ottenuto niente?  
Continua...

sabato 10 marzo 2018

UN PAPATO MESSIANICO

Lo scarto è finito, non c’è nessuno che non sia eletto da Dio. Contrappasso non è giustizia, la divina commedia è finita. Il Signore ritorna, la parola cammina, la sua voce risuona in molte voci, voce dei poveri voce di tutti, voce della Chiesa, le nostre voci
Raniero La Valle
Dopo cinque anni di papa Francesco, che si compiono il 13 marzo, certamente si può confermare ciò che già apparve all’inizio del pontificato, e cioè che egli fosse venuto per riaprire, a una modernità che l’aveva chiusa, la questione di Dio . E infatti il ministero di papa Francesco è un ininterrotto annuncio del Dio del vangelo, un Dio inedito, un Dio che sorprende, un Dio non più “tremendum” ma solo “fascinans”. Però oggi dire questo non basta più. Ci vuole una sorta di “relectio de papa Francisco”, una rilettura che vada al di là dei due stereotipi in base a cui oggi si parla di lui: quello dell’esaltazione e quello della denigrazione: apologetica contro riprovazione. Mi pare invece che l’approccio giusto sia quello di una interpretazione: il pontificato di Francesco va interpretato perché nasconde un mistero. Come si parlò di un “mistero Roncalli”, “ le mystère Roncalli”, alludendo al mistero o carisma del papa che aveva convocato il Concilio, così c’è un segreto di questo pontificato che va interrogato, che va svelato. E forse da questa interpretazione, anche dopo che esso sarà concluso, dipenderà il futuro della Chiesa. 
C’è un’interpretazione diffusa di questo pontificato come di un pontificato profetico. E certamente è verissima, né è smentita dal fatto che esso sia contrastato, perché anzi è proprio della profezia essere combattuta. Però se fosse solo profetico, non ci sarebbe niente di veramente straordinario, perché la storia della Chiesa, sia sul versante della successione apostolica che sul versante della tradizione dei discepoli, è piena di profeti, papi compresi: basta pensare a Leone Magno che con la sua lettera a Flaviano dona alla Chiesa la fede di Calcedonia, o a Gregorio Magno che attraverso la figura di san Benedetto è il vero padre dell’Europa. 
Io però penso che si possa dare un’interpretazione ulteriore, come non solo di un pontificato profetico, ma di un pontificato messianico.
Messianico cioè, semplicemente, cristiano
Neanche questo di per sé sarebbe straordinario; perché messianico non è che l’altro nome del cristiano, Cristo non è che il greco di Messia, quindi “un papa messianico” è come dire “un cristiano sul trono di Pietro”, come si disse di papa Giovanni; ma siccome ci siamo dimenticati di questa identità messianica e il popolo cristiano ignora il greco, non è così ovvio, e un pontificato messianico appare effettivamente straordinario. 
Continua...

mercoledì 7 marzo 2018

UNA FELICE DISCONTINUITÀ



Dopo il 4 marzo


Il voto del 4 marzo, raffigurato nella cartina colorata trasmessa quella sera in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del Nord, identificata dalla maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e l’Italia del Sud, identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e rappresentata anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le Italie, come un’Italia sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di speranza, e che nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo di dare ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso, da nessuno sondato e immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato dolore, sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi da ogni giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto male.  
Però si possono cogliere alcune positività non indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un crescente astensionismo. Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la politica. Qui i poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia continua, la Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati decisivi. Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la prima volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi, ansiosi di futuro.

Una feconda, netta discontinuità

In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo propizio, può giungere l’occasione che va colta, può passare quello che gli antichi chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare prima che scompaia. È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin  nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto"; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità, perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto, non solo era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava arrivando a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male. Ora dunque si tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e volgerla al meglio.
Continua...