Per gli
arruolati al partito antipapista la testimonianza dell’ex papa Benedetto XVI a
sostegno di papa Francesco, a conferma della sua sapienza teologica e della
continuità del suo pontificato con quello precedente, è arrivata come una sciagura.
Così hanno cercato di azzerarla, svelando che nella lettera dell’ex papa c’era
anche una riserva per uno dei teologi che aveva collaborato alla collana
pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana per i primi cinque anni di
pontificato. Ma per quanto la critica a uno degli autori della collana potesse
essere fondata, ciò nulla toglie alla notizia principale, che sta nel rifiuto
del precedente pontefice di prendere le parti
o addirittura la guida della fazione anti-Bergoglio. La quale, dalla
casamatta del blog dell’Espresso,
annuncia ora per il 7 aprile a Roma una specie di Convenzione antagonista per
pubblicare le Tesi di una nuova Protesta.
Tornando alla
Chiesa, c’è da dire che questo strascico polemico seguito alla limpida presa di
posizione dell’ex papa Benedetto, ha avuto il merito di portare alla ribalta,
come oggetto di riflessione, la natura stessa del papato, anche al di là del
giudizio sull’oggi. E ciò proprio perché è stato papa Benedetto a far cadere
l’ostacolo che impediva un ripensamento della natura e del modo di esercizio
del primato petrino, e perciò impediva la riforma del papato, condizione e
volano della riforma della Chiesa.
L’ostacolo
era che nel corso del secondo millennio
cristiano il papato era stato fortemente mitizzato, quasi messo al posto di
Dio. La manifestazione più vistosa nel Novecento se ne ebbe nella figura
ieratica di Pio XII, il “Pastor Angelicus”; poi, dopo la parentesi di Giovanni
XXIII, la mitizzazione giunse ai fasti di papa Wojtyla, che si disse avesse sconfitto
da solo il comunismo e che le folle plaudenti volevano “santo subito!”.
Ma è in Paolo
VI che il mito giunse alla sua massima crisi. Egli se ne era fatto custode,
quando al Vaticano II aveva imposto (e aggiunto in via “previa”) una sua
interpretazione restrittiva al documento conciliare sulla collegialità episcopale, per toglierne
qualsiasi ombra che potesse offuscare la dottrina del primato e scolorire la
figura del papa; e il 1 settembre 1966 in una sosta ad Anagni dove Bonifacio
VIII aveva ricevuto il mitico schiaffo francese, rivendicò i meriti di quel ruvido
papa “che più degli altri aveva affermato la più piena e solenne autorità
pontificia” nel quadro concettuale “dei due poteri, uno spirituale l’altro
temporale” disposti però su una “scala dei valori” per cui lo spirituale doveva
prevalere sugli altri, e infiammò i fedeli così: “Questa comunità (la Chiesa) è
organizzata e non può vivere senza l’innervazione di una organizzazione precisa
e potente che si chiama la Gerarchia. Figlioli miei, è la Gerarchia che vi sta
parlando, è il Vicario di Cristo che oggi è davanti a voi… Posso domandarvi,
figlioli carissimi, questa grazia che voi certamente non mi rifiutate: amate il
Papa, amate il Papa, perché senza alcun suo merito e senza certamente alcuna
sua ricerca gli è capitata questa strana singolare vocazione di rappresentare
Nostro Signore. Non guardate a noi, guardate il Signore di cui rappresentiamo…”,
e la frase non finì per gli applausi. Ed è certamente per la forte coscienza di
questa rappresentanza ricapitolata in lui che papa Montini compì i suoi gesti
più estremi, come la Humanae Vitae,
disattesa dalla Chiesa, o la decapitazione e riduzione al silenzio della Chiesa
di Bologna.
Ma il mito si rovescia in tragedia quando Aldo Moro, nonostante la
supplica montiniana alle Brigate Rosse che lo hanno rapito, viene ucciso. E nella
preghiera agli agghiaccianti funerali di Stato che Moro aveva detto di non
volere, Paolo VI si mostra sgomento perché lo scambio con Dio non ha
funzionato, e lo interpella con un lamento che assomiglia più al “Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?” di Gesù, che alle rimostranze di Giona a Dio che
si era pentito di voler distruggere NInive e non l’aveva distrutta. In tale
lamento Paolo VI rompe nel grido e nel
pianto la sua voce e si duole, quasi incredulo, con Dio: “Tu, o Dio della vita
e della morte, Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo
Moro, quest’uomo
buono, mite, saggio, innocente ed amico”; e tanto ne fu il dolore, che dopo
pochi mesi Paolo VI morì.
E infine
giunge Benedetto XVI, “il papa teologo”, che pone soavemente l’atto più
eversivo del mito, con le sue dimissioni da papa, demitizzando in tal modo il papato.
E proprio da lì comincia la riforma della Chiesa.
Ma in quale
direzione? La disputa intorno alla lettera di Ratzinger su Bergoglio è stata su
chi fosse il papa più teologo, o sul
negare che Francesco fosse teologo. L’errore
di questa disputa stava nel presupposto secondo cui il necessario
predicato del papa è “professione teologo”. Certo deve saperne di teologia, però
la professione di Pietro non era teologo, ma pescatore. Così lo prese Gesù, e
con lui anche gli altri. Del resto anche come pescatori lasciavano a
desiderare, e se non era per Gesù che faceva gettare le reti e distribuire i
pesci, le folle restavano digiune.
Il papa non è
lo scienziato di Dio, ma ne è il messaggero. Il termine stesso “teologia” del
resto è esagerato. Non c’è una “scienza” di Dio, Dio non si può racchiudere
nella nostra conoscenza, non sta lì, sta “in una brezza leggera”. Dice il
vangelo di Giovanni: Dio nessuno l’ha mai visto, è il Figlio che lo svela, che
lo racconta, che ne fa “l’esegesi”. Dunque a rigore c’è un solo teologo, che è
Gesù, come un solo maestro, che è lui.
Perciò papa Francesco non deve
passare al vaglio di un’accademia, e non sono su questo piano la continuità e
le differenze col suo predecessore. Per questo è così affascinante la domanda
su chi è veramente Francesco, e per quale forza sta cambiando, presso l’uomo
moderno, l’idea stessa di religione e l’immaginario di Dio.
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