Giorgio Pilastro: Lei, Raniero La Valle, è uno dei promotori del movimento di “sinistra cristiana”. Da dove nasce l’esigenza di fondare un nuovo soggetto politico?
Nasce dalla disperazione. Il punto di degrado e di pericolo a cui è arrivata la situazione politica italiana, per il comportamento di tutti i protagonisti e di tutti i soggetti che concorrono a formare la società politica, è tale che oscura ogni speranza. Fa vedere solamente un futuro di involuzione e, probabilmente, anche la perdita delle più grandi conquiste del Novecento: la Costituzione, i diritti fondamentali, le libertà politiche, la solidarietà sociale, il diritto al lavoro. Tutto questo è in pericolo in Italia. Non solo è in pericolo, ma è sotto attacco. È, gravemente, sotto attacco. Abbiamo al potere una destra alla quale abbiamo preparato un’autostrada perché potesse andare al potere anche da sola, ed un sistema in cui è difficilissimo si possa creare un’alternativa.
Quando dice “abbiamo”, a chi si riferisce?
Mi riferisco a tutti gli operatori politici che dall’’89 in poi sembra abbiano congiurato per demolire l’edificio della repubblica costituzionale e per creare un sistema, che dicono di tipo anglosassone, bipolare, bipartitico, maggioritario, uninominale e che in realtà è lo strumento per perpetuare il governo della destra. E quando dico i protagonisti intendo Francesco Cossiga, Achille Occhetto, Mariotto Segni, Walter Veltroni, molti ex presidente della Fuci e tutta una serie di operatori che, anche in buona fede, hanno commesso un gravissimo errore di analisi ed un grave errore di cultura politica. Ciò che sta scomparendo in Italia è anche una presenza significativa dei cattolici nell’ordine politico. Non mi interessa affatto che i cattolici, come ceto sociale, come “mondo cattolico”, siano presenti come un soggetto politico proprio, mi rammarica molto, invece, che non sia presente quell’apporto che la tradizione del cattolicesimo democratico e della sinistra cristiana hanno sinora dato a questo Paese, in diversi modi e sotto nomi diversi. Appartengono infatti a questa tradizione uomini e donne come don Sturzo, Aldo Moro, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Tina Anselmi, anche persone, quindi, che non si sono mai definite di sinistra cristiana. Si tratta, però, di un filone culturale prezioso e di un fecondo tipo di rapporto tra la fede professata e mai abbandonata, e l’impegno politico. Nelle forme di una responsabilità laica nella politica, si è trattato di un filone di pensiero, di azione, di proposta, di apporto alla vita politica del Paese che ritengo sia stato fondamentale. Nell’Italia del Novecento ci ha fatto superare il trauma del fascismo, ci ha permesso di avere una Costituzione democratica, ci ha permesso la pace sociale, nonostante la grave contraddizione tra comunisti ed anticomunisti e tra i due blocchi, che spaccava l’Italia. Tutto questo patrimonio mi sembra sia stato dilapidato.
In questo senso ritiene che il pensiero cristiano (se possiamo definirlo così) ha qualcosa da dire?
Certo che il cristianesimo ha qualcosa da dire. Non tanto in termini sociali quanto in termini antropologici. Cos’è la società? Cos’è lo Stato? Lo Stato moderno si fonda su una antropologia, nasce da una certa concezione dell’uomo. Lo Stato moderno nasce da una antropologia pessimistica. Perché, secondo Hobbes e gli altri fondatori dello Stato moderno, c’è una specie di situazione originaria di lotta di tutti contro tutti (homo homini lupus), per rimediare alla quale si inventa lo Stato, che significa porre la coazione, la violenza in capo ad un solo soggetto, non più i singoli individui, ma il sovrano. Questa è appunto una concezione pessimistica della politica e dello Stato fondata su una precisa antropologia, che fa derivare ogni cosa da una pretesa natura corrotta dell’uomo, e che porta poi inevitabilmente a definire nel nemico il “criterio” del politico, come farà Carl Schmitt. Ma il cristianesimo conosce un’altra antropologia che in nessun punto della storia vede una irrimediabile malvagità dell’uomo e una sua rottura con Dio, un’antropologia che riconosce e onora l’umano, ne rivendica la dignità, ed è stata particolarmente elaborata dal Concilio Vaticano II; da ciò deriva anche una diversa politica.
Una politica aperta all’altro?
La politica è il vivere degli uomini insieme. L’animale politico, come lo definiva Aristotele, non esiste da solo, ma esiste solo perché sta in società. Altrimenti non sarebbe un animale politico. Dice Hannah Arendt: “la politica è l’infra del rapporto tra gli uomini”. Se non c’è l’altro, non c’è politica. Non è che c’è una cattiva politica, non c’è proprio politica. Tutti gli unilateralismi, l’idea di fare da soli, di non vedere gli altri, di tagliare le panchine per non far sedere gli stranieri, tutto quello che è esclusione dell’altro, non solo è una cattiva politica, ma è l’antipolitica. Perché la politica serve ad organizzare la vita degli uomini insieme.
Come valuta l’attuale impegno dei cattolici in politica?
Non esiste. È scomparso. Perché con questa cultura, che ha finito per prevalere e che ha avuto la sua espressione nella nascita del Partito Democratico, una rilevanza delle singole culture e, quindi, anche della cultura cristiana, è scomparsa. Nell’ultimo dibattito che c’è stato tra i parlamentari del Pd dopo le dimissioni di Veltroni, uno dei più autorevoli esponenti del nuovo corso, il senatore Tonini, ha detto che il Pd non è un nuovo partito, ma un partito nuovo perché ritiene ormai stanche e superate le culture novecentesche (le ha definite così, con una punta di disistima), da sostituire con una cultura nuova. Le vecchie culture sono state magari gloriose, ma oggi devono essere dismesse. Bisogna trovare una cultura nuova. Ma una cultura nuova non si trova a tavolino, nasce dal travaglio degli uomini, dalle asperità della storia, dall’evolversi delle dottrine; e se manca, e finché manca, una tale nuova cultura, vuol dire che si pensa ad una politica sostanzialmente priva di cultura. Che è poi la politica della prassi, del pragmatismo, dell’efficientismo, del “fare”, come dice Berlusconi. E’ una politica che non a caso si inventa che tutta la pluralità delle idee, degli interessi, dei bisogni, delle proposte, dei desideri, dei sogni degli esseri umani si possa forzatamente racchiudere in due soli schieramenti l’un contro l’altro armato, che è quanto di meno culturale si possa dare. In questa situazione per i cristiani non c’è più spazio. I cattolici o sono dentro la destra, dove fanno solo da supporto alle politiche più forsennate di questo schieramento (comprese quelle della Lega che aprono per i cristiani delle contraddizioni sconvolgenti), oppure sono scomparsi nell’amalgama di un centro sinistra senza sinistra.
L’impegno politico dei cristiani può essere davvero declinato sia nella cultura di destra che in quella di sinistra?
Se io dicessi che i cristiani possono esser solo di sinistra, questa affermazione sarebbe immediatamente e giustamente identificata come integralismo, come fondamentalismo. E’ chiaro che una affermazione del genere non si può fare. Bisogna però anche vedere a quale destra si fa riferimento. Se c’è una destra razzista, io credo che sia incompatibile con qualunque lettura del messaggio cristiano. Se c’è una destra militarista, guerrafondaia, imperialista, aggressiva, io penso che sia incompatibile con il cristianesimo. Ci sono alcuni principi supremi che fanno parte in modo irrevocabile della identità cristiana: la pace, l’unità della famiglia umana, l’accoglienza dell’altro e dello straniero, il privilegio riservato ai poveri, agli ultimi, agli esclusi. Questo perché il cristianesimo, secondo la fede, deriva da un evento divino che propone un Dio da imitare, il quale appunto si comporta così. Da un punto di vista sociologico si può dire quello che si vuole del cristianesimo, e infatti gli “atei devoti” lo dicono. Ma se parliamo secondo la fede, l’evento fondatore è quello di un Dio che si è fatto uomo, ha assunto la natura di un servo, e ha bruciato ogni vecchia separazione sacrale tra il divino e l’umano. E perciò ha assunto laicamente e “profanamente” la storia. E’ entrato nella storia con mani di uomo, con parole di uomo, con azioni di uomo e, soprattutto, assumendo la natura umana non dalla parte dei potenti, dei signori, ma dalla parte del servo, dello schiavo, dello straniero, di quelli che nella cultura del tempo erano non-uomini o mezzi uomini. Sarebbe, allora, ben strano che un cristiano avesse un atteggiamento di rifiuto nei confronti del servo, lo volesse mantenere nella sua condizione di schiavitù, non cercasse di liberarlo e così non facesse nei confronti dello straniero, del profugo, del bambino, della donna, dell’escluso. Se questo si chiama di destra o di sinistra non lo so. Per me il cristianesimo è questo.
Lei ha descritto una situazione estremamente critica della situazione politica italiana. La chiesa ha avuto un ruolo in questo degrado?
La chiesa non ha impedito questa deriva. Non è stata una sponda, non ha confermato nella fede quelli che cercavano di impedire questa deriva.
Sembra molto “presente” nelle vicende politiche, almeno quelle italiane.
Questo dipende anche dalla crisi di cui parlavamo prima. Si è aperto un vuoto nella politica italiana. La Democrazia Cristiana era un partito abbastanza clericale, nonostante la sua fisionomia di partito laico ed aconfessionale. La Dc ha sbagliato molto nella gestione del governo del Paese, però in qualche modo rappresentava uno snodo tra la politica e la Chiesa e, quindi, permetteva anche a quest’ultima di non essere presente in modo così immediato ed invadente, come è stato dopo. E invece anche allora quando la Chiesa è stata presente in modo immediato, nonostante la Dc, come nel referendum sul divorzio, è stato un disastro.
Nostalgia della Dc?
No, non ho nostalgia della Dc. È una vita che abbiamo combattuto contro la Dc. Ma perché? Perché pretendeva, ed a questo veniva deputata dalla Chiesa, di essere un partito che realizzasse l’unità politica dei cattolici. Non era solo un partito di ispirazione cristiana, ma un partito che bisognava votare se si era fedeli discepoli della Chiesa. Per questo ho detto che, nonostante la sua definizione laica, era un partito clericale, perché era di fatto uno strumento della Chiesa: per lo meno nella misura in cui la Chiesa garantiva un certo bacino elettorale e chiedeva in cambio qualcosa. Ora, nel vuoto che si è creato, la Chiesa trova spazi sconfinati nei quali inserirsi. Qualche volta, salva la laicità dello Stato, l’ingerenza è buona, come quando grida (gridava) contro la guerra; altre volte è negativa.
In Italia manca una coesione sociale. Non è solo un giudizio che recentemente ha espresso Vito Mancuso, ma anche Dossetti, negli anni ottanta, segnalava che era necessaria una “colla” che unisse la società italiana. Anche sul vostro manifesto si riporta la necessità di creare un collante. Intendete dire che il cristianesimo può svolgere questo ruolo?
No questo non è esatto, perché attribuire una funzione di questo tipo alla fede vuol dire immaginare una religione civile, una funzione politica dalla fede in senso proprio, che non è per niente corrispondente al vangelo. Il vangelo semmai serve a mettere un fermento, ad aprire una contraddizione. Gesù dice: sono venuto a portare non la pace sulla terra, ma la contraddizione. Il vangelo non è qualcosa che assimila, che rappacifica, che uniforma. Questo è un problema politico e culturale degli Stati. Pensare che degli Stati moderni, che non riescono a trovare una loro identità e una missione comune, la debbano chiedere in prestito alle Chiese, è un errore gravissimo. Le Chiese non hanno questa funzione. Esse devono mettere in crisi le coscienze e gli ordinamenti, altrimenti diventano veramente dei fattori di alienazione. Noi non abbiamo mai detto questo. Abbiamo sostenuto che il tarlo cristiano, il rovello cristiano, ed una sinistra che lo porti dentro l’ordinamento politico, sono necessari proprio per rompere le politiche di pura conservazione e difesa del potere.
Vi definite un movimento. Diventerete un partito?
Per il momento abbiamo cercato di far emergere questa esigenza e anche di offrirle una piattaforma culturalmente adeguata, che non fosse facilmente confutabile. Che poi un movimento si insedi nel territorio dipende da molti fattori. Oggi, purtroppo, è molto difficile, perché c’è una caduta generale di interesse e di generosità politica nel Paese.
Secondo lei quello attuale è il tempo del buonismo, degli accordi oppure quello delle scelte radicali e precise anche se conducono allo scontro?
I punti di riferimento comuni vanno cercati. La famiglia umana è una sola e quindi qualunque divisione artificiale e violenta della famiglia umana è una cosa che dobbiamo cercare di correggere. L’obiettivo è la pace, la pace sociale, la pace internazionale tra gli uomini, la collaborazione tra le classi. Questa è la visione cristiana. Però supporre che armonia ed equità esistano, quando invece non esistono, e che non si debba passare attraverso le prove difficili e dolorose del confronto, del conflitto, della contraddizione, questo vorrebbe dire negare la politica. La cosa grave è dissimulare le differenze ed i contrasti per far finta che esista una unanimità che non c’è. Non ci può essere una unanimità sulle politiche che vengono condotte oggi. Non si può essere per una difesa dei privilegi esistenti, non si può essere per la guerra di civiltà, non si può essere per l’esclusione degli stranieri e non si può essere per la reintroduzione di norme razziali nella legislazione italiana, cosa che sta avvenendo. Recentemente nel decreto di sicurezza è stato inserito il progetto di un registro dei senza casa, come una volta c’era il registro degli ebrei. Allora è chiaro che di fronte a queste cose non ci può che essere un contrasto ed una lotta.
Il progetto del Partito Democratico è fallito solo per i contrasti interni?
No, assolutamente. Quando un progetto fallisce si cercano sempre dei capri espiatori, che non sono quasi mai la causa del male. In questo caso non sono le sinistre, non è Di Pietro, non sono i contrasti interni. E’ fallito perché è sbagliato il progetto. È sbagliato immaginarsi che l’Italia con la ricchezza del suo pluralismo ideologico e politico possa essere ridotta a questo fantoccio formato da due sole parti, una destra ed una sinistra, dove chissà perché la verità, il bene, la giustizia stiano necessariamente solo o da una parte o dall’altra.
La responsabilità è dell’attuale sistema elettorale?
Le leggi elettorali hanno spinto enormemente in questa direzione. Hanno creato un mutamento di carattere istituzionale, in modo anche abusivo. Le leggi elettorali non dovrebbero cambiare surretiziamente la Costituzione. La nostra Costituzione non statuisce il metodo proporzionale unicamente perché nell’ordinamento disegnato era scontato che quello fosse il sistema elettorale.
E’ stata forzata una unione tra il mondo laico socialista e quello cattolico che ha oggettive difficoltà a convivere assieme ?
No, non è quello. Certo che se lo si fa perché si è obbligati da una legge elettorale non è una cosa sana. Se lo si fa perché c’è un vero processo culturale, di rapporto, di integrazione è un’altra cosa.
Questo è mancato?
Questo è certamente mancato.
E’ ottimista sul futuro del vostro movimento?
Tutto sta a vedere se c’è ancora gente di sinistra e gente cristiana.
Ci sono?
Si, sì. Ci sono.
Come mai, allora, sono così poco visibili?
Da un lato c’è un certa reticenza di questo tipo di cristiani a manifestarsi in politica come cristiani. Questo perché abbiamo l’eredità di una situazione in cui, per reagire a tutte le forme di clericalismo politico ed anche all’esperienza dell’unità politica dei cattolici nella Dc, si è formata una cultura per la quale i cristiani dovevano esserci in politica senza, però, agire “come” cristiani. Si è trattato di una cultura anche molto elaborata, come quella di Jacques Maritain, che ha influenzato moltissimo i cattolici italiani nell’immediato dopoguerra; essa diceva che c’erano delle cose che si dovevano fare come cristiani, e queste riguarderebbero la spiritualità e la religione, e delle cose che bisognava fare come cittadini, e queste erano le cose che riguardavano la politica. Questo portava ad una divaricazione nell’essere, ad una separazione innaturale. Perché, in realtà, non si agisce come cristiani o come cittadini. Nello stesso momento in cui si agisce lo si fa per quello che si è e che si spera. Questa cultura ha molto influenzato il modo di pensare politico dei cristiani e, quindi, se si fa un appello ai cristiani perché siano presenti nella politica facendo valere la loro ispirazione, la prima reazione è allergica, è come se si rompesse un tabù, come se si negasse una impossibilità.
I cattolici hanno anche l’eredità di una visione negativa della politica, qualcosa da cui è preferibile restare fuori.
Esatto. Nella storia cattolica c’è anche stato il non expedit. Ma questa è una cosa, per fortuna, superata. C’è, invece, proprio questa idea per cui la laicità consisterebbe nel non dichiararsi credenti. Non dichiararsi cristiani, nel senso di non far valere come cristiani i valori in cui si crede, ma farli passare semplicemente come valori umani. E questa è anche una cosa che in questo momento sta fomentando la Chiesa. Siccome sul piano della trasmissione della fede incontra ostacoli sempre maggiori, si rifugia nell’idea che basti annunciare la legge naturale, e poiché la legge naturale riguarda tutti gli uomini e la Chiesa ne sarebbe la vera interprete, ecco che di nuovo riuscirebbe ad avere un’influenza su tutti gli uomini. Questa idea impoverisce, invece, la specificità del messaggio cristiano. Tutto questo concorre a rendere difficile la risposta ad un appello e ad una convocazione dei cristiani come tali nella politica. L’operazione che noi abbiamo cercato di fare con quel manifesto, con quell’appello di cui abbiamo parlato, è stata di eliminare questo impedimento. Restituire la piena legittimità teologica, culturale, politica e laica dell’essere cristiani, anche facendo politica.
La realtà di questi giorni evidenzia l’estrema difficoltà di un rapporto tra il mondo laico e quello cattolico.
Io penso che con un tipo di presenza come quella che auspichiamo, questa contraddizione non ci sarebbe. La presenza cristiana che noi auspichiamo non è clericale, non impone alcunché, non si appella a principi non negoziabili da imporre d’autorità. Con questo tipo di presenza cristiana, fatti salvi naturalmente i possibili dissensi o le diversità, non ci dovrebbe essere nessuna impossibilità di convivenza. E ciò all’interno dello statuto della laicità; e, ripeto, la laicità non vuol dire non-fede, non-religione, e neanche non-preti. La laicità è qualcosa di positivo: vuol dire prendersi cura del mondo come cristiani.
Il vostro obiettivo è quello di realizzare ciò che non è riuscito al Pd?
Il Pd ha fatto una operazione artificiale. Non si può mettere insieme la cultura cattolica e la cultura ex comunista semplicemente per un atto volontaristico. E’ un processo. Mi ricordo che, quando ho iniziato il mio impegno politico, il rapporto tra il marxismo ed il cristianesimo era oggetto di approfondimenti teorici profondissimi. Addirittura la Chiesa stessa convocava convegni di dialogo ateo-cristiano, con gli stessi comunisti dell’Est. Anche noi facevamo dibattiti sul rapporto tra fede e politica, tra cristianesimo e marxismo. Era un processo che ha dato grandi risultati, perché poi è stata possibile anche una collaborazione politica, come è avvenuto per noi della Sinistra Indipendente. Ma è un processo culturale, conoscitivo. Non un’operazione di vertice che si decide a tavolino.
Giustizia, pace, solidarietà, accoglienza sono valori sia della sinistra che del mondo cristiano. Quali sono le visioni che rendono difficile questo dialogo?
Le visioni della vita sono diverse, le antropologie sono diverse, le tradizioni sono diverse…
Incompatibili?
Incompatibili assolutamente no. Non solo la società democratica è pluralista, ma il mondo è plurale. C’è stata la torre di Babele: una grande benedizione di Dio. L’aver moltiplicato le lingue, le teologie, moltiplicato i modi di approccio degli uomini alle cose ed anche lo stesso rapporto con il divino, è stato un grande dono di Dio, almeno per come lo racconta la Bibbia.
Spesso, però, della torre di Babele si ha una visione negativa.
La torre di Babele si conclude nella Pentecoste. Più positiva di così!
Lei afferma che se non si può cambiare subito il mondo, si può intanto cambiare il modo di stare al mondo.
Certo. Non si può aspettare un mondo cambiato per cambiare noi. Sarebbe un alibi per non cambiare mai. Bisogna cambiare noi per cambiare il mondo. Altrimenti si sposerebbero delle tesi di tipo messianico o apocalittico: si aspetta che accada qualcosa, una salvezza che viene dal di fuori.
Non fa, però, un po’ parte della cultura cattolica?
Quella sarebbe l’alienazione di cui si veniva accusati. Rimandare tutto ad un futuro ultraterreno. Sarebbe il fiore che abbellisce la catena di cui parlava Marx. Io credo che questa visione sia estranea alla religione dell’incarnazione. È una lettura indebita del cristianesimo. La stessa ecclesia è una convocazione nella storia nel mondo.
Qual è la sua opinione sull’esperienza della teologia della liberazione?
La teologia della liberazione è stata un grande tentativo di tradurre il cristianesimo nell’impegno sociale e storico.
Ne parla al passato?
Ne parlo nel senso dell’isolamento. E’ stata isolata e circoscritta nell’America Latina e non è riuscita a superare quegli ambiti. In Europa sarebbe stata declinata in modo diverso. Abbiamo avuto dei tentativi, mi riferisco a Moltmann, a Metz, a Chenu. Storicamente, però, si deve dire che la teologia della liberazione è stata in qualche modo intercettata e fermata sul confine dell’America Latina.
Il processo che ha innescato: l’impegno politico diretto, la partecipazione, l’attenzione concreta ai problemi dei diseredati, ha lasciato un segno in quei popoli?
L’America Latina è cambiata. Molti regimi militari sono caduti. In molti Paesi c’è una democrazia avanzata. Questi processi democratici, la fine della repressione e della guerriglia in Salvador, i presidenti di sinistra che ci sono in diversi Paesi, lo stesso Lula in Brasile, mostrano un grande cambiamento. Non voglio attribuire alla teologia della liberazione questi cambiamenti, però quel grande movimento di cristiani che leggevano il vangelo, che riscoprivano le Scritture, che interpretavano la fede come un fatto di liberazione, che avevano scoperto il privilegio dei poveri, credo che abbia influito anche nei mutamenti politici. Le cose vengono seminate, ma poi non si sa per quali strade fruttano. Nella stessa America Latina, c’è stata, però, una critica nei confronti della teologia della liberazione. Alcuni dei suoi fondatori, tra cui Boff, hanno avuto la sensazione di essere andati un po’ troppo avanti - lo dico tra virgolette – nella “mondanizzazione” del cristianesimo. Questo fa parte della normale riflessione.
Lei ha seguito il Vaticano II come direttore dell’Avvenire d’Italia. Recentemente ha dichiarato che la questione sollevata dalla riabilitazione dei vescovi lefebvriani ha in qualche modo riaperto il Concilio. Lo scopriamo nel momento in cui lo si vuole oscurare. Significa che il post concilio è stato caratterizzato da un lento processo di allontanamento dal Concilio stesso?
C’è stata una ricezione contrastata ed a volte tiepida. Una dialettica che ha attraversato un po’ tutta la Chiesa, che ha riguardato tutti i vescovi. Quello che è accaduto è che fino a ieri, comunque venisse interpretato, il Vaticano II non era messo in discussione. C’era un specie di unanimismo – forse di facciata – secondo cui il Concilio andava bene. Si trattava di come lo si interpretasse. Questa linea era stata espressa da Benedetto XVI, che aveva introdotto una contrapposizione molto radicale tra una interpretazione del Concilio come rottura, come discontinuità, ed una interpretazione come continuità. Ci sarebbero state due ermeneutiche del tutto contrapposte, di cui naturalmente una sola era quella giusta. Questa convenzione si rompe nel momento in cui i lefebvriani rientrano nella comunione della Chiesa. Essi non danno una interpretazione conservatrice del Concilio, lo rifiutano. Ritengono che il Concilio sia stato un abbandono da parte della Chiesa romana della vera fede, della vera dottrina. E non rientrano nella Chiesa pentendosi o abbandonando la loro posizione anticonciliare, ma vi rientrano proclamando il proposito di lottare nella Chiesa per il ripudio del Concilio. La missione che essi si attribuiscono nella Chiesa in cui sono tornati è di liberare la Chiesa stessa dall’errore del Vaticano II. Dal momento che i lefebvriani sono stati riammessi nella Chiesa dal papa, questo vuol dire riaprire il Concilio. Vuol dire introdurre nella Chiesa un elevato tasso di relativismo. Perché se si può essere vescovi e stare nella Chiesa sia rifiutando il Vaticano II sia approvandolo, non so cosa ci possa essere di più relativo. Questo vuol dire che il problema del Vaticano II è oggi posto apertamente e palesemente davanti alla Chiesa come un problema, e non più come una eredità incontestata, sia pure da interpretare in un certo modo.
Non ne parla in termini negativi?
Penso sia una cosa positiva perché è meglio un conflitto aperto, che una liquidazione nascosta. Solo che allora, di fronte alla proposizione del Concilio come problema, la parola la devono prendere tutti. Non solamente il papa, non solo i vescovi, non solamente i credenti, i cristiani, ma anche gli altri. Tutti coloro che sono stati coinvolti nel Concilio: gli ebrei, i musulmani, le Chiese separate. Se il Concilio si riapre, vanno coinvolti tutti.
Si va, dunque, verso il Vaticano III?
Non è che si vada al Vaticano III, qui è in discussione il Vaticano II. Con una conseguenza di grande rilievo. Se si riapre la questione, il Concilio va anche riletto, per capire il motivo per cui è stato rifiutato da una parte della Chiesa. Se si rilegge il Vaticano II si scoprono delle cose di straordinaria importanza e valore. Per esempio si ridimensiona molto quella idea, che pure è stata avanzata dagli stessi fautori del Concilio, per cui sarebbe stato solamente un Concilio pastorale e non avrebbe cambiato nulla nella comprensione della fede, nella teologia e nella dottrina. Questo non è vero anche se c’è stata un specie di interpretazione condivisa, secondo cui il Vaticano II non sarebbe stato rilevante sul piano dottrinale, perché non ha fatto anatemi, non ha espresso dogmi, non ha condannato dottrine. Avrebbe avuto solo la funzione di rendere più fruibile il messaggio cristiano al popolo, all’uomo moderno.
Questa è una lettura quasi unanime. Perché ritiene sia stato anche un concilio dottrinale?
Se si va a rileggere il Concilio si vede precisamente che nella comprensione della fede, il Concilio ha innovato molto profondamente ed è la ragione per cui ha restituito una fede ed un cristianesimo più gioioso, liberante e salvifico. La cosa interessante, però, è che il Vaticano II ha fatto questa operazione senza cambiare le dottrine, ma raccontando la storia della salvezza. Con un procedimento di straordinaria importanza, che appartiene alla tradizione della Chiesa. I padri della Chiesa hanno raccontato la historia salutis. La teologia che facevano i Padri della chiesa orientali ed occidentali era raccontare la storia della salvezza, il piano di Dio. Ed attraverso quel racconto scaturiva la comprensione della fede. Il Concilio ha fatto la stessa cosa. Ha raccontato il piano di Dio. Se si vanno a vedere i grandi documenti del Concilio, la Lumen gentium, la Sacrosanctum concilium, la Gaudium et spes, la Ad gentes, ecc. essi cominciano con dei capitoli dedicati alla ricostruzione del piano di Dio per l’uomo: cioè la storia della salvezza. E la sorpresa lietissima è che questa storia viene raccontata in un modo, in certi punti, sensibilmente diverso da come l’abbiamo sentita in passato. Non c’è niente di strano, anche nella logica laica gli eventi sono gli stessi, ma vengono letti in modi diversi. Così è accaduto per la storia della salvezza.
Per esempio?
Ad esempio la lettura non tragica della storia del peccato originale. La sua interpretazione era stata alla base del pessimismo antropologico, che nasceva dall’idea di una natura umana irrimediabilmente decaduta, ferita, privata dei doni prenaturali, quasi destinata al male ed al peccato. Questa lettura non c’è nel Vaticano II. C’è ovviamente il peccato, c’è la caduta. Ma non c’è la conseguenza che da questo peccato ci sarebbe stata una rottura tra Dio e l’uomo e questo sarebbe stato cacciato dal giardino dell’Eden. Nel Concilio questo storia della cacciata non esiste. Anzi, si dice il contrario. Nella Lumen gentium, al numero 2, si afferma che Dio amò gli uomini fin dal principio e, caduti in Adamo, non li abbandonò (non dereliquit eos), ma continuò ad offrire loro gli strumenti della salvezza in vista di Cristo. Non si è mai interrotto questo rapporto di amore e di alleanza tra Dio e l’uomo e non c’è ragione, quindi, di avere un’antropologia dell’uomo così pessimistica, quasi fosse una pena del peccato il lavoro, il sudore della fronte, il rapporto sessuale, il potere stesso. Noi abbiamo una dottrina politica che nasce da questa visione pessimistica. Rovesciare questa visione è quello che ha permesso alla Chiesa di aprire le braccia a tutti. Non è facile irenismo, ma è riconoscere che l’operazione di Dio nell’umanità è così: continua e tenace. Che i tesori di grazia, i semi del Verbo non sono presenti solo all’interno dei confini della Chiesa cattolica romana, della Chiesa visibile, ma sono presenti anche nelle altre Chiese, anche nelle altre religioni e nelle altre culture. Quando il Concilio scrive il documento Nostra Aetate e parla degli ebrei, dei musulmani, degli indù, perfino dei non credenti, non fa un atto politico di apertura, di dialogo, ma un atto teologico. Prima del Concilio non si sarebbe potuto fare, perché è cambiata l’interpretazione, la lettura della fede. In questo senso questo Concilio non finirà mai perché la fede non potrà essere ricacciata indietro. Può non attuarsi la collegialità episcopale, si può ritornare alla messa in latino, si possono fare tante operazioni restrittive, ma su questa visione liberante della fede, ed ancora prima della grazia, non si può tornare indietro. Tanto è vero che la stessa Commissione teologica internazionale con la firma del papa Benedetto ha dovuto abbandonare la vecchia dottrina dei bambini che non si salvano se morti senza il battesimo. Come mai? Perché c’è stato il Concilio che ha capito come l’amore di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvi, prevale, come verità “gerarchicamente” superiore e decisiva, sul pur importante richiamo neotestamentario alla necessità del battesimo con l’acqua per l’ingresso nella comunità salvifica. Per questo non c’è più bisogno di inventare il limbo.
Qual è, secondo lei, il futuro della Chiesa?
Non è una previsione che si può fare solo in termini umani. La Chiesa è una realtà complessa, teandrica. Con i soli strumenti dell’analisi sociologica, politica, anche disciplinare e teologica non si può dire quale sarà il futuro della Chiesa. Per fede dobbiamo ritenere che camminerà sino al compimento finale. Se avrà dei periodi peggiori rispetto al secondo millennio o se avrà dei periodi di grande sviluppo e crescita, non lo si può sapere. Questo è un momento di crisi durissima. Discutere intorno ad un Concilio non è una cosa da nulla. Benedetto XVI dice che non è affatto strano. Dopo tutti i Concili c’è stato un trambusto del genere. Dopo il Concilio di Nicea, ha raccontato il papa, San Basilio diceva che era come se ci fosse una battaglia navale notturna, nella quale tutti sparavano contro tutti. Nessuna meraviglia, quindi. Speriamo solo che vada a finire come a Nicea, e che si affermi la fede del Vaticano II.
(INTERVISTA RACCOLTA DA GIORGIO PILASTRO PER UN LIBRO DI INTERVISTE DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE)
Continua...