sabato 27 aprile 2019

Il perdono, la politica


Come sarà possibile che la comunità umana universale, questo “messia che rimane”, come l’abbiamo chiamata, possa salvare il creato e costruire quel “nuovo ordine di rapporti umani” già preannunziato, contro i profeti di sventura, da papa Giovanni XXIII nel suo discorso di apertura del Concilio Vaticano II?
A stare alle suggestioni emerse dall’ assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” due sono le risorse, ambedue umanissime, da mettere in campo: il perdono e la politica.
Il perdono (non quello banale che il giornalismo scadente chiama “perdonismo”) discende da quella “teologia dello scambio” e da quel “ministero dello scambio” in cui consiste, come ha spiegato Giuseppe Ruggieri in quell’ incontro romano, “l’essere messianico”: Dio ci ha scambiato con se stesso in Gesù Cristo e Gesù, che non conosceva peccato, è stato fatto addirittura peccato da Dio, scambiato con l’uomo peccatore, sostituito a noi, e noi stessi abbiamo ricevuto la missione dello scambio, cioè della sostituzione nel portare il peso gli uni degli altri. È ciò che dice Paolo nella seconda lettera ai Corinti (5, 17-21), stando a una traduzione più fedele della parola “riconciliazione” come “scambio”. È lo scambio che redime
Questo scambio tra Dio e l’uomo significa che Dio fa le cose dell’uomo (fino a farsi peccato!) e l’uomo fa le cose di Dio. Ora il primo oggetto di questo scambio, che Gesù offre ai discepoli la sera stessa di Pasqua, nel Cenacolo, è il perdono. Il perdono è la cosa divina per eccellenza, ed ecco che Gesù lo consegna agli uomini, insieme al soffio dello Spirito: “A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati, a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”; è un regalo impegnativo, perché ci sono molte cose che sono difficili da perdonare. Ma, trasferito nelle mani degli uomini il perdono, in quanto divino, non ha limiti. Si può perdonare senza misura, l’iniziativa è nelle nostre mani, qui siamo noi che giungiamo per primi: è per il fatto che noi perdoniamo gli altri che Dio perdona noi, come chiediamo nel “Padre nostro”.
In questo perdono, risiede la pace. Niente perdono, niente pace. Certo, la pace è opera della giustizia, come dicevano i profeti; certo la pace è fondata sui quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà, come scriveva papa Giovanni; ma per come essa è stata data agli uomini da Gesù appena risorto, come suo primo lascito, (“Pace a voi!”, Gv. 20, 19) è il perdono. In quanto scambiato con quello divino, il perdono dell’uomo si può dilatare a tal punto da giungere a perdonare Dio stesso nel suo agire nella storia. Perciò Dio non solo è salvato dall’uomo, ma anche perdonato da lui. La Scrittura consente queste iperboli. Molte volte, nella tragica esperienza umana, si alza il grido di chi dice di non poter perdonare Dio per i dolori patiti, e questa è la causa di tante separazioni da Lui.  È vero infatti che anche di Dio,  per come via via lo abbiamo inteso, ci sono delle cose che è difficile perdonare. Lui stesso del resto, come dice l’Antico Testamento,  si pentì del male che aveva deciso di fare e non lo fece, come quando non cancellò dalla faccia della terra l’uomo che aveva creato, o come quando risparmiò Ninive dall’essere distrutta. E come perdonare Dio del male fatto ad Isacco, inscenando una falsa esecuzione contro di lui, portandolo fin sull’altare del sacrificio, armando la mano del padre per ucciderlo, come si narra nella tremenda seconda lettura della veglia pasquale?
Forse non si è lontani dal vero se si pensa che per farsi perdonare rispetto a questa rappresentazione che era stata percepita di lui, Dio ha consegnato suo Figlio (e perciò Isacco e il Cristo sono accomunati e scambiati nella veglia pasquale cristiana), lo ha messo al posto di tutte le vittime, per far vedere quanto valga il perdono, fino a che prezzo meriti di essere pagato.
Perché questo perdono sia possibile, la sofferenza umana è stata portata dentro Dio stesso, “Unus de Trinitate passus est”, uno della Trinità ha patito, come dice il Concilio costantinopolitano nel VI secolo. È per questo che rispondere all’attuale emergenza messianica vuol dire partecipare al dolore dell’altro, comprendere e gestire la realtà a partire dal bisogno e dalla distretta dell’altro, persone o popoli che siano, non da se stessi. Condizione ne è il perdonarsi a vicenda, e perciò accogliersi e scambiarsi nel reciproco bene, senza limiti, e questa è la pace.
La seconda risorsa è la politica, che non si può licenziare o astrarsene aspettandone una migliore. La politica è qui ed ora, ed è la dimensione pubblica della vita degli uomini insieme. Per renderla degna bisogna venire alla verità della politica. Purtroppo, da una lunga esperienza storica abbiamo appreso che il potere e la verità non viaggiano insieme, sono in conflitto ed estranei tra loro, e perciò il potere è spesso omicida. Ma il paradosso, o il dover essere, è quello che irrompe nella risposta di Gesù a Pilato: il re è colui che rende testimonianza alla verità. Chi l’avrebbe mai detto? Ma è per questo che Gesù dice “io sono re” e annuncia un mondo in cui il regno sia invece secondo verità.  Ma che cos’è la verità?
Nella recente assemblea romana, dovendosi dare un nome alle cose che accadono, è emerso un problema di verità. E ha detto Giuseppe Ruggieri, citando il vangelo di Giovanni (Giov. 8, 43-44) che la menzogna, radice di ogni violenza, è dare un nome a partire da me, da ciò che è mio, mentre la verità è dare un nome a partire dall’altro. L’ultima prova è il nome che abbiamo dato a quei migranti che hanno costretto il capitano della nave a non riportarli in Libia ma a portarli verso un porto sicuro. Li abbiamo chiamati “pirati”. Ecco la menzogna. Invece il vero nome delle attuali politiche securitarie è “reati”.
Allora la politica è secondo verità se parte dagli altri, se assume la sofferenza umana a partire da quelli che nelle Beatitudini sono chiamati beati: i poveri, gli oppressi, i piangenti, gli stranieri, i perseguitati, i curvati. Ciò non si può fare tra gli osanna (i consensi, i sondaggi…). La politica invece è offrirsi in sacrificio per gli altri. Come dice René Girard, in ogni intronizzazione c’è in qualche modo la premonizione di un sacrificio. Per molti è stato così. Per Moro è stato così. Per Allende è stato così, e così è stato per Romero, per gli uccisi di tutte le Resistenze.
Nella rilettura messianica, nella speranza aperta sul domani, pertanto, la politica è quella per cui milioni di uomini e di donne, dal più piccolo al più grande, prenderanno su di sé la sofferenza di tutti e, ognuno con le sue bandiere, con i suoi compagni di lotta,  i suoi ciclostili, ne appronteranno i rimedi, ne elaboreranno il pensiero e costruiranno pietra su pietra la nuova agognata casa comune in cui abiti la giustizia e di cui sia custode la pace.

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mercoledì 17 aprile 2019

VEGLIARE E ASSUMERE LA SOFFERENZA DELL’ALTRO

La popolazione di Parigi ha vegliato la lunga agonia della cattedrale di Notre Dame che precipitava nella morte, è stata la vera veglia di Pasqua. Così dovremmo tutti vegliare Parigi, l’Europa, il mondo, perché non entrino in agonia, perché non siano provati col fuoco a causa delle nostre distrazioni, a causa delle nostre politiche assassine, a causa degli effetti collaterali dell’odio che abbiamo seminato a piene mani sulla terra.
Ciò ci riporta alla nostra assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” che il 6 aprile scorso a Roma ha cercato di ascoltare il grido dei popoli impauriti del futuro.  Non è possibile trarre già ora delle conclusioni da tale assemblea. “Conclusioni” si potrebbero trarre, come è stato detto alla fine dei lavori, se fossimo in grado di dare una risposta alla vita devastata di Stella, la ragazza nigeriana la cui tragedia è piombata tra di noi nel racconto dei “casi concreti” di cui i giudici ci hanno parlato:  violentata, mutilata, come è stata, tacitata fin dai suoi tredici anni, triturata negli ingranaggi del sistema che noi stessi abbiamo creato e difendiamo con accanimento per mare e per terra. Potremmo trarre “conclusioni” se fossimo in grado di fondare un’alternativa per tutte le Stelle che non avranno né pace né sorte se non ci convertiamo, se non cambiamo dalle sue fondamenta questo nostro governo del mondo.
Però in quell’assemblea abbiamo fatto una cosa rara, se non unica in questi tempi di domande inevase; abbiamo evocato e avviato una lettura messianica della crisi, e ne abbiamo tratto una lezione, analoga ci sembra a quella proclamata nella bufera da papa Francesco; e la lezione, espressa da Giuseppe Ruggieri, è quella di portare la sofferenza umana dentro Dio stesso, che patisce e muore  nel crocefisso, e di riconoscere nella sofferenza lo strato più profondo dell’umano, che richiede una solidarietà assoluta, senza condizioni. A questo siamo chiamati, quando non c’è un’uscita puramente politica dalla crisi, né essa sta in qualsiasi ideologia religiosa, dottrina sociale o partito cattolico, ma sta primariamente nell’assumere la sofferenza dell’altro e da questo dolore farsi dettare la prassi adeguata a un processo di liberazione e di salvezza. Questa è per l’appunto la “Chiesa ospedale da campo” ripensata da papa Francesco, preannunciata dal Concilio del Novecento, osteggiata dalle Curie prigioniere del passato.
Tradotto nella sfera pubblica ciò significa, secondo la proposta folgorante  formulata da Luigi Ferrajoli, fare del popolo dei migranti il popolo costituente e del diritto di emigrare il potere costituente di un nuovo ordine mondiale, basato sull’effettiva uguaglianza di tutti gli esseri umani. Anzi occorre procedere oltre su questa strada, fare dell’intera famiglia umana il soggetto costituente del nuovo ordine mondiale, e fare di tutti i diritti negati, non solo del diritto di migrare, il potere costituente di una nuova comunità internazionale di diritto di giustizia e di pace. 
Sarebbe questa comunità umana universale,  costituita in comunità politica, ministeriale e profetica, a raccogliere l’eredità delle promesse messianiche, sarebbe questo”il messia che rimane” come il misterioso “discepolo che rimane” di cui Gesù ha detto a Pietro, nell’ultima pagina del vangelo di Giovanni: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?”.
E se è stato detto che ormai “solo un Dio ci può salvare” è pur vero che c’è un Dio salvato dall’uomo, un Dio che deve molto all’umano, perché se non avesse creato e non fosse entrato nella carne dell’uomo, spogliando se stesso e facendosi simile agli uomini, sarebbe stato un Dio per nessuno, sarebbe stato un Dio della legge, non dell’amore, sarebbe stato un Dio senza storia.
Ed ora è solo l’uomo che può salvare Dio nel mondo, anche nel “mondo senza Dio” tracimante negli incubi dell’ex papa Ratzinger; è l’uomo che può salvare Dio dalla cattura degli idoli, liberandolo dai fraintendimenti e dalle false rappresentazioni che si fanno di Lui, dal “carico di errate preghiere”, come cantava David Maria Turoldo, dalla violenza esercitata in suo nome, e da tutti i Costantino che su di lui pretendono fondare il loro trono. Continua...

lunedì 1 aprile 2019

FELIX CULPA

Il Senato ha salvato mercoledì scorso il ministro Salvini dalle acque minacciose di un processo per sequestro di persone e altri reati che avrebbe potuto travolgerlo. Per molti è stato uno scandalo, per moltissimi un dolore, perché del via libera al processo avevano fatto un’istanza etica essenziale, a cominciare dal Centro per la pace di Viterbo. La scelta politica di rimandare i fuggiaschi alle prigioni e alle torture libiche è infatti (abbiamo i filmati) un po’ come se si fossero riportati indietro ebrei fuggiti da Auschwitz, è come proteggere il treno che vi scaricava i deportati, come fecero gli Alleati durante la guerra rifiutandosi di bombardare la ferrovia che giungeva fino al campo.  
E tuttavia è una fortuna che il voto del Senato sia andato così, altrimenti ne sarebbero scaturiti pericoli anche maggiori. Era scontato che il Senato desse copertura politica all’operato del suo ministro, la maggioranza di governo è compatta nella lotta agli immigrati, ma anche gran parte del Senato che non appoggia il governo è schierata contro di loro, vittime tutti come sono di pulsioni identitarie e di pruriti elettorali. Ma, appunto, si è trattato di un voto politico, non di un giudizio, per il quale almeno i parlamentari avrebbero dovuto leggere le carte. È la politica che così decide oggi in Italia, ma la politica si può cambiare, è nelle nostre mani, l’irreparabile non è avvenuto.
Se invece il Senato avesse concesso l’autorizzazione a procedere, la magistratura giudicante si sarebbe trovata di fronte a un gravissimo dilemma. Se condannava il ministro, avrebbe condannato come reato l’attuale politica italiana, ma non avendo il potere di cambiarla, ne avrebbe solo certificato, di fronte al mondo, la natura criminosa. Ma se assolveva Salvini, lo avrebbe fatto riconoscendo a termini di legge che sequestrare i naufraghi in mare, negare loro la terra, interdire i soccorsi e respingerli al punto di partenza è qualcosa che corrisponderebbe “a un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” a  “un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”: un interesse di tutti, un preminente interesse anche nostro. Ciò avrebbe legittimato come “ragion di Stato”, prevalente sulla stessa legge penale, la dimensione spietata dell’attuale politica italiana. Si sarebbe verificato un corto circuito tra uso illegittimo del potere e giurisdizione. È questo il meccanismo che trasforma un potere ingiusto in regime, come accadde in Germania quando i giudici si conformarono a Hitler, i giuristi si allinearono, e il Paese fu perduto.
Perciò è così importante che resti la divisione dei poteri, e che la Costituzione non sia minacciata (lo sappia Zingaretti) e che la cultura si mantenga autonoma e critica, e naturalmente la Chiesa: altrimenti sarà lo stesso senso comune a precipitare in regime, a sacrificare alla sicurezza ogni pudore. Potrebbe allora divenire realtà il quadro angoscioso disegnato da un romanzo appena uscito, “Ero straniero” (Bompiani editore), di un’Italia che diventa il Paese del “poligono diffuso”, dove sono “tutti pazzi per le armi”, dove si costruiscono poligoni di tiro nascosti nel giardino, come le piscine nei giardini dei ricchi. È quello che racconta il bellissimo romanzo di Salvatore Maira (l’autore dei “Diecimila muli”) che finalmente fa entrare nella letteratura la nuova tragedia italiana dei profughi e degli stranieri in patria.
Ma è proprio la ragione che sembra perduta. Continua...