lunedì 1 aprile 2019

FELIX CULPA

Il Senato ha salvato mercoledì scorso il ministro Salvini dalle acque minacciose di un processo per sequestro di persone e altri reati che avrebbe potuto travolgerlo. Per molti è stato uno scandalo, per moltissimi un dolore, perché del via libera al processo avevano fatto un’istanza etica essenziale, a cominciare dal Centro per la pace di Viterbo. La scelta politica di rimandare i fuggiaschi alle prigioni e alle torture libiche è infatti (abbiamo i filmati) un po’ come se si fossero riportati indietro ebrei fuggiti da Auschwitz, è come proteggere il treno che vi scaricava i deportati, come fecero gli Alleati durante la guerra rifiutandosi di bombardare la ferrovia che giungeva fino al campo.  
E tuttavia è una fortuna che il voto del Senato sia andato così, altrimenti ne sarebbero scaturiti pericoli anche maggiori. Era scontato che il Senato desse copertura politica all’operato del suo ministro, la maggioranza di governo è compatta nella lotta agli immigrati, ma anche gran parte del Senato che non appoggia il governo è schierata contro di loro, vittime tutti come sono di pulsioni identitarie e di pruriti elettorali. Ma, appunto, si è trattato di un voto politico, non di un giudizio, per il quale almeno i parlamentari avrebbero dovuto leggere le carte. È la politica che così decide oggi in Italia, ma la politica si può cambiare, è nelle nostre mani, l’irreparabile non è avvenuto.
Se invece il Senato avesse concesso l’autorizzazione a procedere, la magistratura giudicante si sarebbe trovata di fronte a un gravissimo dilemma. Se condannava il ministro, avrebbe condannato come reato l’attuale politica italiana, ma non avendo il potere di cambiarla, ne avrebbe solo certificato, di fronte al mondo, la natura criminosa. Ma se assolveva Salvini, lo avrebbe fatto riconoscendo a termini di legge che sequestrare i naufraghi in mare, negare loro la terra, interdire i soccorsi e respingerli al punto di partenza è qualcosa che corrisponderebbe “a un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante” a  “un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”: un interesse di tutti, un preminente interesse anche nostro. Ciò avrebbe legittimato come “ragion di Stato”, prevalente sulla stessa legge penale, la dimensione spietata dell’attuale politica italiana. Si sarebbe verificato un corto circuito tra uso illegittimo del potere e giurisdizione. È questo il meccanismo che trasforma un potere ingiusto in regime, come accadde in Germania quando i giudici si conformarono a Hitler, i giuristi si allinearono, e il Paese fu perduto.
Perciò è così importante che resti la divisione dei poteri, e che la Costituzione non sia minacciata (lo sappia Zingaretti) e che la cultura si mantenga autonoma e critica, e naturalmente la Chiesa: altrimenti sarà lo stesso senso comune a precipitare in regime, a sacrificare alla sicurezza ogni pudore. Potrebbe allora divenire realtà il quadro angoscioso disegnato da un romanzo appena uscito, “Ero straniero” (Bompiani editore), di un’Italia che diventa il Paese del “poligono diffuso”, dove sono “tutti pazzi per le armi”, dove si costruiscono poligoni di tiro nascosti nel giardino, come le piscine nei giardini dei ricchi. È quello che racconta il bellissimo romanzo di Salvatore Maira (l’autore dei “Diecimila muli”) che finalmente fa entrare nella letteratura la nuova tragedia italiana dei profughi e degli stranieri in patria.
Ma è proprio la ragione che sembra perduta.

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