È stata
una tragedia greca. Come nella tragedia greca, dove pur accadono i fatti più
terribili, tutti avevano ragione, e una ragione più forte di loro che li
spingeva. Aveva ragione in via di principio Mattarella, a rivendicare i poteri
di nomina dei ministri datigli dall’art. 92 della Costituzione, e a temere
Savona nel governo, spaventato com’era, anche se più del dovuto, per la minaccia
della macchina da guerra turbo-capitalista, già giunta all’insulto a un’”Italia
pezzente”, rea di uno sgarro verso la moneta sovrana. Aveva ragione il presidente
incaricato Conte a insistere per quella nomina, proprio perché egli non era un
tecnico messo al governo per fare i compiti imparati alla Bocconi, ma era un
politico investito da compiti nuovi da un mandato popolare attraverso le forze
politiche che avevano vinto le elezioni.
Aveva ragione Salvini a non cedere sul nodo centrale della sua proposta
politica volta a rimettere in discussione i rapporti di forza creati dalla
moneta unica europea, perché la rinuncia a farlo, senza nemmeno provarci,
significava rinuncia alla politica pur di avere il potere, il che sarebbe stato
la definitiva catastrofe della politica e il suicidio del suo partito. Aveva ragione
Di Maio a tener fede al patto stipulato con Salvini, perché era lo stesso patto
o “contratto” appena promesso agli italiani, e stracciarlo, buono o cattivo che
fosse, significava distruggere la differenza che aveva fatto grande il
Movimento 5 stelle e che ora lo legittimava a governare. E aveva ragione Savona
a dire che lui non chiedeva niente, tantomeno di fare il ministro, ma che le
idee sono idee, e quelle non si barattano al primo guaito dei cani da guardia.
Insomma
era un quadro in cui tutti finivano perdenti; e perdente è stato anche chi l’ha
avuta per vinta, il presidente della Repubblica, perché egli può non nominare
un ministro ma a Costituzione invariata non può farlo in nome di un’altra linea
politica, perché in una democrazia parlamentare la politica la scelgono gli
elettori e il Parlamento, e non gli organi di garanzia, che, facendolo, cessano
precisamente di garantire; come farebbe la Corte Costituzionale se invece di
dichiarare incostituzionali le leggi, si mettesse lei a legiferare per fare le
leggi giuste.
Come
spesso nelle tragedie greche, l’unico veramente ad avere torto è stato il coro.
Bisognerebbe avere l’acutezza di René Girard nell’interpretazione dei miti
greci, per descrivere tutta la forza di interdizione, la falsa sapienza e l’orgia
dei luoghi comuni messi in campo dal circuito mediatico e informativo per
vituperare e sbeffeggiare il governo nascente, quel coro che ventiquattro ore
su ventiquattro ha spiegato al “pubblico” che arrivavano i barbari. Questo del
coro che si finge oggettivo e neutrale sta diventando uno dei maggiori problemi
della democrazia italiana nella formazione del consenso, all’ora in cui non si
fa più politica, ma solo la si racconta, e chi ha gli strumenti del racconto,
incurante della verità, impone la sua egemonia e porta il Paese dove non vuole
andare.
Come
nella tragedia greca, anche qui c’è una vittima, e c’è un sacrificio. In questo
senso il caso Savona ha un valore cruciale, nello svelare qual è il vero problema.
Che
cosa aveva detto Savona? Aveva detto che fatto l’euro, bisognava fare l’Europa, perché non era ammissibile una
moneta senza una sovranità, e perciò una politica che la governasse; in
democrazia si sa chi è il sovrano, il popolo, e se quello è spodestato, sovrana
diventa la stessa moneta. Perciò alla moneta unica doveva seguire l’unità
politica dell’Europa, in mancanza della quale le diverse sovranità nazionali
sarebbero rimaste in conflitto, come infatti è avvenuto, mentre, in attesa, l’unione
corretta tra loro avrebbe dovuto essere, come un tempo, quella di un mercato
comune. Questo oggi non è più possibile, per i fatti compiuti. È chiaro che
dall’euro non si può uscire, e tantomeno dall’Europa, e Savona ha spiegato che
non voleva affatto questo, ma un’Europa più forte e più equa. La sua tesi che
spinge all’unità politica si può pertanto discutere, ma certo non era
antieuropeista, anzi era più europea; gli euroscettici sono quelli che
impazziscono per l’euro, ma lo vogliono indipendente dall’Europa. Tanto poco
populista e sovversiva è questa tesi che l’unità politica dell’Europa, perché non
fosse anarchica l’unione economica, era stata l’idea dei padri fondatori ed è
stata rivendicata in questi anni dai ceti intellettuali e politici più
avveduti, e sostenuta dai migliori costituzionalisti e filosofi del diritto, a
cominciare da Ferrajoli. Del resto è sempre stato così. La moneta rappresenta
un sovrano. Se non fosse stato così Gesù non avrebbe potuto dare la famosa
risposta del “date a Cesare”. A Roma, dopo l’imperatore Antonino Caracalla, che
la coniò, l’antoniano fu la moneta più diffusa, e ogni imperatore ci metteva la
sua faccia. Ma oggi, a quale Cesare si darebbe l’euro, per dare a Dio ciò che è
di Dio?
Ed
è tanto poco eretica e tanto perfettamente fattibile l’idea che il denaro vada
governato, che un dettagliato documento pubblicato in questi giorni dalla
Congregazione per la dottrina della fede lo suggerisce e spiega anche come si
fa. È intitolato, con la classicità del latino, “Oeconomicae et pecunariae
questiones”. È un testo difficile per i non addetti ai lavori, e forse non c’entra
col Paradiso; ma sarebbe bene che gli addetti ai lavori lo leggessero, perché dice
che se ne può parlare, che il controllo della finanza si può fare, che le
ricette ci sono, magari si possono discutere e preferirne altre, ma le “cose
pecuniarie” non sono un tabù, non sono l’arca dell’alleanza, non è il dogma
trinitario; del denaro, dell’euro, della finanza, del rapporto fra economia e
politica si può discutere, le cose sono nelle nostre mani.
La tragedia
che è stata rappresentata è che invece la finanza, i mercati, il debito, il
rating, il pareggio, il 3 per cento, non si possono neanche nominare, non ci
appartengono, sono custoditi nel forziere del tempio, e basta un accenno a
voler scostare il velo, a guardare cosa c’è dietro, cosa si nasconde dietro il
fumo delle vittime e degli olocausti, ed ecco che scattano come furie le
prostitute sacre e le vestali del tempio, e dicono: no, questo governo non si
deve fare, questo tipo non deve essere ministro, e come il bene diventa spregevole
se lo si chiama buonismo, così il popolo diventa spregevole solo che si abbia l’avvertenza
di chiamarlo populismo, così come la sovranità se diventa sovranismo. Non che
non ci fossero problemi seri col populismo italiano e con le pulsioni securitarie
di Salvini, ma non per questo ci si è stracciate le vesti.
Questa
è la vera tragedia, e mentre fioccano le accuse di fascismo, spunta la nuova
intimazione del regime, da mettere in tutte le banche e in tutte le
cancellerie, e in tutti i Parlamenti
dell’Unione: “Qui non si fa politica, si specula”. Ma noi ci possiamo stare?
Nei
settant’anni della nostra Repubblica, è la seconda volta che un voto popolare
viene neutralizzato e che un processo politico, lungamente perseguito, viene
intercettato e impedito nel momento in cui l’elettorato lo promuove, dandone
mandato alle due forze vincitrici nelle urne. La prima volta lo fu in modo
terribile e cruento, e fu il caso Moro, che si consumò non senza input esterni,
e anche grazie al fatto che la DC, il PCI e il presidente della Repubblica del
tempo, non seppero fare la scelta giusta per rispondere alla sfida. Nulla di
paragonabile oggi; i tempi sono cambiati, non c’è nessuna violenza, e nemmeno
ci sono segreti che restano nascosti, la DC non c’è più, e non c’è che il PD
che avrebbe dovuto ereditare quella lezione e che invece è oggi il maggior
responsabile del rischio in cui è finita la Repubblica. Ma anche questa volta
la democrazia è in questione, e le conseguenze possono essere devastanti.
Dunque
è giusto in questo momento di crisi della politica, salvare le istituzioni, a
cominciare dalla democrazia rappresentativa e repubblicana.
Raniero
La Valle
Continua...