giovedì 29 giugno 2017

Inquietudine, incompletezza, immaginazione

Inquietudine, incompletezza, immaginazione

Queste tre parole consegnate dal papa agli scrittori della “Civiltà Cattolica” riguardano in realtà tutti gli operatori dell’informazione, ma anche i politici perché senza ispirarsi ad esse nessuna politica è possibile. Anzi perfino il Vangelo resterebbe lettera morta
Raniero La Valle
Si è tenuto il 14 giugno 2017 alla Federazione Nazionale della Stampa un Convegno promosso e dall’Ordine dei Giornalisti del Lazio e dall’UCSI per discutere se la richiesta fatta da papa Francesco agli scrittori della “Civiltà Cattolica” nel discorso del 9 febbraio 2017 di avere “Inquietudine, incompletezza, immaginazione” , potesse riguardare anche tutto il mondo dell’informazione; questo è l’intervento svolto in quella occasione.
I. Per cogliere la portata effettiva di queste parole, che sono oggi al centro del nostro dibattito, bisogna vedere il contesto in cui sono state pronunciate. Da questo esame risulta che non sono parole occasionali, ma sono indicazioni programmatiche in molte direzioni. A chi sono rivolte? Il papa dice che gli scrittori della Civiltà Cattolica a cui le rivolge, non lo perdono mai di vista e hanno dato un’interpretazione fedele di tutti gli atti più importanti del pontificato. Quindi quelle tre parole indicate come modello della Civiltà Cattolica sono modello anche per sé, prima di tutto si applicano a lui.
Dunque se a descrivere il suo pontificato ci vuole inquietudine, incompletezza e immaginazione, vuol dire che il suo pontificato è inquieto, non predefinito ma aperto all’immaginazione e pieno di poesia, ed è incompleto, cioè è il contrario del papa che ha la perfezione di Cristo o sostituisce Dio in terra, non è cioè né Vicarius Christi né pastor angelicus e tanto meno, come i papi si chiamavano una volta, signore dei signori.
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giovedì 15 giugno 2017

PERCHÉ NON POSSIAMO DIRCI CRISTIANI SENZA IL CRISTIANESIMO



Raniero La Valle

Discorso tenuto da Raniero La Valle il 9 giugno scorso alla Facoltà teologica di Cagliari, nel quadro di una iniziativa volta a una rivisitazione del saggio di Benedetto Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”.

 Com’è noto “Perché non possiamo non dirci cristiani” è il titolo di un famoso saggio di Benedetto Croce, che è una specie di patriarca della cultura italiana del Novecento. Il saggio uscì per la prima volta su “La Critica” del 20 novembre 1942, e poi fu ripubblicato più volte.
Il titolo, più ancora del saggio, ha fatto storia, perché si presenta come il biglietto da visita di una civiltà intera: è la civiltà europea di cui Croce si sente espressione e interprete che rivendica per sé il nome di cristiana.  Ma è un biglietto da visita fuorviante, che esprime piuttosto una vanteria  che un’identità; ed è una vanteria altamente mistificatoria e profondamente non vera; essa però è stata tanto ripetuta come se fosse ovvia, da diventare un luogo comune. Con la secolarizzazione questo luogo comune è caduto in disuso, però non manca chi ancora vi fa ricorso per certe battaglie politiche identitarie come quelle oggi in voga contro immigrati, stranieri e musulmani.
L’equivoco della formula crociana consiste nel travisamento del suo oggetto: ciò di cui parla è infatti un cristianesimo senza Vangelo, una cristianità senza cristianesimo e, si può aggiungere, un cristianesimo nonostante la Chiesa. Il Dio di questo cristianesimo, dice Croce, non è Zeus, né Jahvè, né il Wodan del paganesimo germanico (che Croce cita perché nel ’42 aveva a che fare con Hitler); ma con ogni evidenza non è nemmeno il Dio di Gesù. Perciò un cristianesimo senza Cristo. Croce parla quindi di ciò che non conosce. Lo coglie nella storia degli effetti, ma non ne riconosce l’essenza, non ne capisce le cause. Negli effetti il cristianesimo gli appare straordinario. È stato, egli dice, la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità, tale che di un’altra religione o rivelazione come questa non si sa se mai potrà essercene un’altra pari o maggiore; in ogni caso non se ne vede ora il minimo barlume. È stata una rivoluzione senza eguali perché ha operato nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e consiste in sostanza  nella scoperta della congiunzione dell’umano e del divino nell’uomo. Ed è vero: senonché di questo Croce nega la causa e l’origine; sì, all’origine ci sono Gesù, Paolo, Giovanni, ma Dio non c’è, se non come un nuovo concetto pensato dall’uomo. È un Dio nuovo, non più immobile e inerte, che però non è altro dal mondo, non si dà come miracolo, bensì è un parto della storia, dice Croce; e non è mistero ma è visibile; non visibile all’occhio della logica astratta e intellettualistica, ma all’occhio della “logica concreta”.
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lunedì 12 giugno 2017

NON È ISLAM?


Come la storia ha atrocemente dimostrato non basta dirsi cristiani per esserlo veramente, e nemmeno ebrei, e neanche musulmani. Dire che il terrorismo non è islamico non è un’informazione, è un antidoto

Raniero La Valle

Un musulmano scrive su “Avvenire” che certo l’Islam c’entra con i terroristi che si fanno saltare in aria con le loro vittime gridando Allah è grande. E subito i siti sanfedisti e antipapisti gridano: ecco, vedete, ci voleva un musulmano per dire quello che il papa e i vescovi continuano a negare, che l’Islam c’entra, e come, nella violenza dell’ISIS e delle sue schiere.
 Hanno ragione: ha ragione il musulmano che scrive su “Avvenire” e hanno ragione i siti integralisti. L’Islam c’entra. Come c’entrava il Dio di Israele, quale era concepito da Giosuè, quando Giosuè, il  condottiero degli Israeliti usciti miracolosamente dall’Egitto, ordinò lo sterminio di Gerico, e votò allo sterminio le città di Ai, Makkedà, Libna, Lachis, Eglon, Ebron, Debir, Asor, non lasciandovi alcun superstite, ne fece impiccare i re, e quelli che non sterminò, come i Gabaoniti, li ridusse in schiavitù. 
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lunedì 5 giugno 2017

LA LEZIONE DI TORINO

C’è una decisione da prendere perché il terrorismo  globale possa essere vinto e la storia possa riprendere: e tocca alle Nazioni Unite e a Stati Uniti, Russia, Cina, Inghilterra e Francia
Raniero La Valle
Sabato 3 giugno la vigilia di Pentecoste sono successe diverse cose che ci parlano del presente e del futuro del mondo:  la decisione di Trump di tradire gli obblighi assunti dagli Stati Uniti col trattato di Parigi sul clima, il nuovo attentato terroristico sul ponte di Londra, le bombe dei kamikaze contro un funerale eccellente nel cimitero di Kabul, la città di Marawi nelle Filippine occupata dai jihadisti islamici mentre si contano i morti della strage di Manila, a Torino,  in una giornata di perfetta pace, un bambino in coma e 1527 feriti, in una folla in fuga che per la paura si è fatta male da sola. Quando poi si ascoltano le letture bibliche di Pentecoste, mentre tutte queste cose accadono insieme, sembra come se quel tempo nuovo  che vi era annunciato non fosse mai cominciato.
Degli eventi di quel sabato 3 giugno la lezione più importante è quella di Torino. I cittadini e tifosi lì riuniti non avrebbero avuto nessuna ragione di fuggire, perfino se si fosse udito un petardo o qualche sconsiderato avesse gridato a una bomba. Ma avevano tutte le ragioni di aver paura per tutto ciò che era successo fino ad allora e per quello che stava succedendo a Londra, a Kabul, nelle Filippine, a Washington, in Africa e in Medio Oriente. In effetti a parte le vittime del clima, non quantificabili, quegli eventi in quelle ore hanno provocato centinaia di morti e migliaia di feriti in diverse parti del mondo.
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