Raniero
La Valle
Discorso tenuto da
Raniero La Valle il 9 giugno scorso alla Facoltà teologica di Cagliari, nel
quadro di una iniziativa volta a una rivisitazione del saggio di Benedetto
Croce “Perché non possiamo non dirci cristiani”.
Com’è noto “Perché non possiamo non dirci
cristiani” è il titolo di un famoso saggio di Benedetto Croce, che è una specie
di patriarca della cultura italiana del Novecento. Il saggio uscì per la prima
volta su “La Critica” del 20 novembre 1942, e poi fu ripubblicato più volte.
Il
titolo, più ancora del saggio, ha fatto storia, perché si presenta come il
biglietto da visita di una civiltà intera: è la civiltà europea di cui Croce si
sente espressione e interprete che rivendica per sé il nome di cristiana. Ma è un biglietto da visita fuorviante, che
esprime piuttosto una vanteria che
un’identità; ed è una vanteria altamente mistificatoria e profondamente non
vera; essa però è stata tanto ripetuta come se fosse ovvia, da diventare un
luogo comune. Con la secolarizzazione questo luogo comune è caduto in disuso, però
non manca chi ancora vi fa ricorso per certe battaglie politiche identitarie
come quelle oggi in voga contro immigrati, stranieri e musulmani.
L’equivoco
della formula crociana consiste nel travisamento del suo oggetto: ciò di cui
parla è infatti un cristianesimo senza Vangelo, una cristianità senza
cristianesimo e, si può aggiungere, un cristianesimo nonostante la Chiesa. Il
Dio di questo cristianesimo, dice Croce, non è Zeus, né Jahvè, né il Wodan del
paganesimo germanico (che Croce cita perché nel ’42 aveva a che fare con
Hitler); ma con ogni evidenza non è nemmeno il Dio di Gesù. Perciò un
cristianesimo senza Cristo. Croce parla quindi di ciò che non conosce. Lo
coglie nella storia degli effetti, ma non ne riconosce l’essenza, non ne capisce
le cause. Negli effetti il cristianesimo gli appare straordinario. È stato,
egli dice, la più grande rivoluzione nella storia dell’umanità, tale che di
un’altra religione o rivelazione come questa non si sa se mai potrà essercene un’altra
pari o maggiore; in ogni caso non se ne vede ora il minimo barlume. È stata una
rivoluzione senza eguali perché ha operato nel centro dell’anima, nella
coscienza morale, e consiste in sostanza
nella scoperta della congiunzione dell’umano e del divino nell’uomo. Ed
è vero: senonché di questo Croce nega la causa e l’origine; sì, all’origine ci
sono Gesù, Paolo, Giovanni, ma Dio non c’è, se non come un nuovo concetto
pensato dall’uomo. È un Dio nuovo, non più immobile e inerte, che però non è
altro dal mondo, non si dà come miracolo, bensì è un parto della storia, dice
Croce; e non è mistero ma è visibile; non visibile all’occhio della logica
astratta e intellettualistica, ma all’occhio della “logica concreta”.
Questo
cristianesimo al netto del Dio di Gesù Cristo ha prodotto eventi storici
straordinari. Ma Croce distingue un prima e un dopo. C’è una prima fase – dopo
quella della Chiesa nascente - che è il periodo trionfante della Chiesa, che foggia
se stessa fissando il suo impianto dogmatico e organizzativo; questa Chiesa,
ben piantata dopo le leggi di Costantino e di Teodosio, fino al Medio Evo e
agli inizi dell’età moderna passa di successo in successo. Quello che Croce
descrive non è però il cammino della Chiesa, è piuttosto l’ascesa della
cristianità. La cristianità, come la definiamo oggi, è quel mondo dominato
dalla Chiesa che a partire da Costantino si costruisce come un sistema totale
che unisce religione, cultura, politica e istituzioni in una identità storica che
si contrappone alle altre identità storiche. E qui l’entusiasmo crociano mette
all’attivo della Chiesa cristiana cattolica molte cose: ci mette la lotta alle
eresie, la ripresa dei fasti dell’impero romano, il “cristianizzamento e
romanizzamento e incivilimento dei germani e di altri barbari”, la “difesa
contro l’Islam, minaccioso alla civiltà europea”; ma ancora di più, Croce
giunge a riconoscere che ”a giusto titolo la Chiesa affermò il suo diritto di
dominio sul mondo intero, quali che nel fatto fossero sovente le perversioni o
le inversioni di questo diritto”. Più di questo non si potrebbe concedere. Né a
togliere merito a questa Chiesa valgono, secondo Croce, le accuse che le furono
fatte per “la corruttela dei suoi papi,
del suo clero e dei suoi frati”, perché corruttela c’è in ogni organismo; del
resto quelli che Croce chiama “i suoi errori accidentali e superficiali” non
impedirono alla Chiesa – egli dice - di riportare “i trionfi migliori nelle
terre di recente scoperte del Nuovo Mondo”.
E
questa è la prima fase come descritta dal filosofo. Ma a partire da lì c’è un
dopo, c’è l’era della modernità con cui la Chiesa di Roma entra in conflitto e
che nell’Ottocento condannerà in blocco nel Sillabo. E qui Croce opera un transfert
della rappresentatività cristiana che dalla Chiesa, rimasta irretita
nell’assetto dogmatico fissato dal Concilio di Trento, sarebbe passata “ai
continuatori effettivi dell’opera religiosa del cristianesimo”, che ne sarebbero
stati i veri interpreti, anche se affetti da “talune parvenze anticristiane” o
addirittura fuori del cristianesimo e della Chiesa, ma “tanto più intensamente
cristiani perché liberi”. E l’elenco è lungo. Ci sono gli uomini dell’Umanesimo
e del Rinascimento, della Riforma e dell’Illuminismo, della rivoluzione
francese, del diritto naturale, della scienza moderna, della filosofia dello
Spirito (fino a Hegel) e del liberalismo. Per la Chiesa era blasfemo chiamarli
cristiani, e invece sono proprio loro, rivendica Benedetto Croce, che non
possono non dirsi cristiani.
E
qui si pone un problema di discernimento anche per noi. Perché è vero che nei
confronti degli uomini e delle donne dell’ illuminismo e della modernità c’è
una riparazione da fare e una vulgata da correggere; infatti moltissimi di loro
che la Chiesa di Roma ha disconosciuto come cristiani, cristiani lo erano,
molti addirittura teologi o pastori. In questo senso il rinominarli come
cristiani da parte di Croce è storicamente fondato.
Tuttavia
Croce, avendo staccato l’albero dalle sue radici, la cristianità dal
cristianesimo, e la religione dal mistero, ha perso la capacità di vedere dove
sta o cade il potersi dire cristiani, ha perso la capacità di vedere il punto in
cui il cristianesimo si rovescia nel suo contrario, e ciò che si dice
cristiano, perfino nella Chiesa, non lo è più o non lo è mai stato. E, solo per
fare un esempio, è Croce stesso che ci fa vedere come Hegel non possa dirsi
cristiano, e come lui stesso non possa dirsi cristiano, quando ambedue parlano
degli indiani “scoperti” in America in termini seccamente razzisti ed opposti
al Vangelo, come di non uomini, quasi animali, ripugnanti allo spirito europeo.
È un’osservazione questa
più volte fatta dal filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a proposito della conquista
dell’America. Egli cita Hegel, che in Lezioni
sulla filosofia della storia, (1837, La Nuova Italia, Firenze 1975),
«fornisce di questi popoli una rappresentazione apertamente razzista: “Dal
tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gl’indigeni sono
scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea” (p. 222). Ciò
dipende, dice Hegel, dall’”inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto,
persino quanto a statura” (ivi, p.224), analoga del resto a quella della
“fauna americana”, i cui “leoni, tigri, coccodrilli... hanno bensì una
somiglianza con le specie corrispondenti del Vecchio Mondo, ma sono sotto ogni
aspetto più piccoli, deboli, meno potenti” (ivi, pp.222‑223). Per questo,
conclude Hegel, “gli abitanti delle isole delle Indie occidentali sono
estinti” e “le stirpi dell’America del Nord in parte sono scomparse, in parte
si sono ritirate, al contatto con gli Europei” (ivi, p.223): per la loro
“costituzione debole, tendono a scomparire al contatto di popoli più civilizzati,
di cultura più intensa” (ivi, p.223)». Così scriveva Hegel. Ma poi arriva
Croce: «Purtroppo – dice Ferrajoli – questa immagine delle stirpi dell’America
del Nord che “scompaiono” e “si ritirano al contatto con gli Europei” piacque
al nostro Benedetto Croce, che la riprese con accenti altrettanto razzisti: gli
uomini, egli dice, si distinguono “tra uomini che appartengono alla storia e
uomini della natura (Naturvölker),
uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda
classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si
esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di
addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano
ai margini, vietandosi la crudeltà che è colpa contro ogni forma di vita, ma
lasciando altresì che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle
razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque)
dinanzi alla civiltà, da loro insopportabile. Si tenta certamente dapprima, e
ci si sforza, di svegliarli ad uomini, mercé delle conversioni religiose,
della dura disciplina, della paziente educazione ed istruzione, e di stimoli
e castighi politici, che è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e
l’umanamento dei selvaggi. Ma se questo, e finché questo, non vien fatto, in
qual modo si può avere comuni ricordi e sentimenti con loro, che si ostinano a
non entrare nella storia, la quale è lotta di libertà? E purtroppo questi
repugnanti, questi inconvertibili, s’incontrano anche frammezzo alle nostre
società civili, né aveva tutti i torti Cesare Lombroso quando formava la
classe dei ‘delinquenti nati’ o ‘di natura’, incarcerati o messi a morte per la
necessaria difesa sociale” (Filosofia e
storiografia, Laterza, Bari 1949, pp. 247‑248)».
Queste
non sono certo parole cristiane. Ora questa operazione crociana di una
cristianità senza il mistero di Dio e senza il vangelo era sbagliata ieri e
sarebbe improponibile oggi; perché quando con la perdita del potere temporale e
con la secolarizzazione questa cristianità è finita, non sarebbe rimasto più
niente del cristianesimo se nella sua tradizione non si fosse conservata la
traccia delle origini e se Dio non avesse continuato ad essere evocato nella
sua parola e presente nel suo popolo. Invece è proprio questo miracolo,
ignorato da Croce, del Cristo vissuto come Risorto e dello Spirito inviato da
lui che ha permesso il rinnovamento della Chiesa del Novecento, dal Concilio
Vaticano II a papa Francesco, portandoci alla soglia di un’epoca nuova.
È finito il regime di
cristianità
E
veniamo così al tempo di oggi. Abbandonata la presunzione del “non possiamo non
dirci cristiani”, che oggi sarebbe l’alibi di un conservatorismo
tradizionalista e di un settarismo identitario, dobbiamo interrogarci più a
fondo sulla fase critica che stiamo vivendo.
Credo
che bisogna partire dal chiedersi qual è il significato del pontificato di papa
Francesco, che è la vera grande novità del terzo millennio appena iniziato, e
che è la vera risposta e la vera alternativa alla via senza uscita teorizzata da
Croce.
Che
cosa sta succedendo con papa Francesco?
Succede
che il papato romano riconosce e proclama lui stesso che è finito il regime di
cristianità, cioè appunto quel modo di essere del cristianesimo nella storia
che Benedetto Croce aveva esaltato come una ideologia e come un potere terreno.
Già col Concilio Vaticano II questa ideologia era stata considerata decaduta,
ma ancora non ne erano state tratte tutte le conseguenze, e questa è una delle
cause non ultime per cui per cinquant’anni è stata così difficile la ricezione e l’attuazione del Concilio
nella Chiesa. Ma col pontificato di papa Francesco questo passaggio avviene nel
modo più esplicito; e la data in cui si può simbolicamente fissare questa
svolta è il 6 maggio dell’anno scorso (2016) quando il papa incontrò a Roma i
leaders europei per ricevere il premio Carlo Magno, il premio cioè intitolato
al re che è il simbolo supremo dell’impero cristiano.
Secondo
l’interpretazione che autorevolmente ne ha dato la Civiltà Cattolica, in quella occasione papa Francesco ha celebrato
e sancito la fine del regime di cristianità, cioè di quel processo che
supponeva la Chiesa come la realizzazione stessa del Regno di Dio sulla terra,
e quindi faceva della Chiesa la vera sovrana terrena. Simbolicamente quel
giorno Francesco ha ritirato la corona che nella notte di Natale dell’anno 800
in San Pietro il papa Leone III aveva messo sulla testa dell’imperatore, non
per riprendere in mano il potere, ma per rimetterlo al suo posto, là dove il
potere nasce, nel popolo, per restituirlo a Cesare, per sottoporlo al diritto,
per affidarlo all’autonomia ma anche alla suprema responsabilità della politica.
Con
questo gesto la Chiesa rinunziava a porsi come erede di un’Europa o di un
Occidente la cui pretesa fosse di non poter non dirsi cristiani. Del resto in
un severo discorso al Parlamento di Strasburgo il 25 novembre 2014 il papa aveva
messo in discussione l’identità cristiana dell’Europa. Aveva detto come in un
mondo sempre più globale e perciò meno eurocentrico l’Europa apparisse sempre
più invecchiata e compressa; aveva osservato come neppure in Europa fossero
mancate nel corso dei secoli molteplici violenze e discriminazioni contro la
dignità umana, e come anche oggi persistano fin troppe situazioni in cui gli
esseri umani sono trattati come oggetti che possono essere buttati via quando
non servono più perché diventati deboli, malati o vecchi; aveva rivendicato la
concezione dell’uomo come essere sociale, ben fondata nel pensiero europeo, ma
oggi a rischio di perdersi nell’individualismo, sicché una delle malattie più
diffuse oggi in Europa è la solitudine, propria di chi è privo di legami, come
si vede particolarmente negli anziani spesso abbandonati, nei giovani senza
futuro, nei poveri che numerosi popolano le nostre città, negli occhi smarriti
dei migranti venuti qui a cercare un migliore futuro; aveva aggiunto come da più parti si avvertisse
un’impressione generale di stanchezza e di invecchiamento, di un’Europa nonna e
non più fertile e vitale, per cui i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembravano
aver perso forza attrattiva.
Nel discorso per il premio Carlo Magno il papa
riprendeva poi questi concetti parlando di un’Europa
decaduta che sembra abbia perso la sua capacità generatrice e creatrice, un’Europa
tentata di voler assicurare e dominare spazi più che generare processi di
inclusione e trasformazione; un’Europa che si va “trincerando” invece di
privilegiare azioni che promuovano nuovi dinamismi nella società, generando
processi piuttosto che proteggere spazi
(cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 223); ed esclamava: “Che cosa ti è successo, Europa
umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?
Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti,
letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di
grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità
dei loro fratelli?”. E quanto alla Chiesa diceva che il suo compito era
l’annuncio del Vangelo, “che oggi più che mai si traduce soprattutto
nell’andare incontro alle ferite dell’uomo” (dunque non un regno, ma un
ospedale da campo!). “Dio – aggiungeva - desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo
solo attraverso uomini e donne che siano toccati da Lui e vivano il Vangelo
senza cercare altro”: senza cercare altro. E pochi giorni dopo, il 9
maggio, il papa stesso in un’intervista al quotidiano francese La Croix, dava l’interpretazione
autentica di quanto stava avvenendo. Egli spiegava che Chiesa ed Europa sono
due entità diverse; per questo lui non parla di radici cristiane dell’Europa,
perché teme il tono con cui se ne parla, che può essere trionfalista o
vendicativo. Il rapporto della Chiesa con l’Europa consiste nella lavanda dei piedi,
cioè nel servizio. “Il dovere del cristianesimo per l’Europa – ha detto il papa
– è il servizio”. E qui ha fatto una citazione che è un po’ la chiave di volta
per mettere in chiaro il suo pensiero, ha citato il gesuita Erich Przyvara,
“grande maestro di Romano Guardini e di
Hans Urs von Balthasar”, il quale ha scritto che “l’apporto del cristianesimo a
una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il
dono della vita”. Tradotto, vuol dire che l’Europa cammina nella storia e la
Chiesa le lava i piedi e le dona la vita.
Dunque,
nella visione di papa Francesco, non c’è più una cristianità da rivendicare, né
un’Europa di cui esaltare la continuità con le radici. Si riparte invece dalla
situazione originaria del Vangelo. Questa è la novità. Ed è in forza di ciò
che, parlando all’ONU, per la prima volta il papa ha proclamato “il dominio
incontrastato del diritto”, e ha rivendicato, d’accordo con le Costituzioni
moderne, la divisione e la limitazione dei poteri, E questa è una liberazione
anche per la Chiesa che, non più compromessa col potere, può tornare dai
poveri, sempre dominati dal potere; e
pertanto è una Chiesa che non si identifica più con la società tutta, ma
si riconosce solo come una parte di essa, e per questo le può fare da ospedale
e, come distinta da lei, le può offrire misericordia. E può anche riconoscerla
nelle sue diversità: perché le radici sono tante e la gloria dell’Europa è
proprio quella di averle accolte, integrate e fatte crescere e fortificare
insieme, sia che fossero cattoliche, o di altre Chiese cristiane, o non
cristiane
Non si
deve pensare però che l’uscita dal sistema di cristianità sia un processo
facile e comporti solo una rinuncia al potere temporale della Chiesa. Uscire
dal regime di cristianità vuol dire anche correggere le dottrine dipendenti da
quella teologia. Per questo il papa è oggi duramente attaccato, anche in casa
sua. È chiaro ad esempio che la dottrina del Grande Inquisitore, immortalata da
Dostoewskij (i miracoli in cambio della libertà), deve essere abbandonata. Ma non solo. Lo
stesso papa Benedetto XVI ha dato a suo tempo nelle sue omelie una lettura
diversa da quella tradizionale sul peccato originale, e più di recente, già
papa emerito, ha definito “in sé del tutto errata” la teoria anselmiana del
sacrificio del Figlio inteso come riparazione pretesa dal Padre per l’offesa
ricevuta a causa del peccato dell’uomo. Una teologia durata per secoli che si
dichiara oggi del tutto errata. E una nuova immagine di Dio è stata affermata
dalla Commissione Teologica Internazionale quando ha detto che il cristianesimo
ha preso definitivo congedo da ogni idea di un Dio violento e vendicatore. Tuttavia l’aggiornamento dottrinale è un
processo difficile. Si è visto come sia stato difficile nel caso del matrimonio
e come è difficile correggere le dottrine che contrastano con la misericordia,
parola pressoché assente in tutto il magistero pontificio dell’800 e del primo
‘900, fino a quando è stata assunta come nuova opzione della Chiesa nel discorso
di inaugurazione del Concilio di Giovanni XXIII.
Il significato del
pontificato di Francesco
E
allora si può capire la portata della svolta che consiste nell’uscire dalla
cristianità per far vivere il cristianesimo. Essa significa riconoscere fino in
fondo che la Chiesa non è il cristianesimo realizzato, come il socialismo
reale, ne è solo il segno e lo strumento, come dice il Concilio; non è la
società umana trasformata in regno di Dio, è invece quella che, spoglia del
potere, con forza profetica dice al potere che il re è nudo, che l’economia
uccide, che il denaro domina e che l’umanità per nessuna ragione, né politica,
né economica, né religiosa può essere divisa in eletti e scartati.
Uscire
dal regime di cristianità comporta perciò una comprensione più avanzata di che
cosa significhi la signoria di Dio e il regno di Dio annunciato come vicino.
Ed ecco
allora che il complesso di queste circostanze ci porta a chiederci che cosa sta
succedendo nella storia della salvezza, e se oggi sulla scia della novità
intervenuta col pontificato di Francesco, non si possa presagire l’avvento di
un’epoca nuova, a partire da un nuovo annunzio di Dio. È questa l’ipotesi che è
stata messa a tema dai gruppi ecclesiali che si riconoscono nel movimento e nel
sito che in occasione dei cinquant’anni dal Concilio ha preso il nome di “Chiesa
di tutti Chiesa dei poveri”. A tal fine essi hanno promosso un’Assemblea nazionale a Roma per Il prossimo
2 dicembre che avrà come tema: “Ma viene
un tempo ed è questo”
L’idea che ispira
questa iniziativa è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non
è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo
(sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa
entrare).
“Ma viene un tempo ed è questo” è una
citazione delle parole di Gesù alla Samaritana nel vangelo di Giovanni, quando
accanto al pozzo di Giacobbe, a Sicar, Gesù dice alla donna straniera (e perciò
lo dice a tutte le genti): “verrà un tempo ed è questo, in cui né a Gerusalemme
nè su un altro monte adorerete Dio, ma adorerete il Padre in spirito e verità”.
Era quello l’annunzio messianico di un nuovo tempo della storia della salvezza.
Non a caso ciò avveniva a Sicar, proprio lì dove Giosuè aveva proposto al
popolo uscito dall’Egitto di servire non altri dii o idoli, ma il Dio di Israele, stabilendo così
l’alleanza di Sichem. Gesù, molti secoli dopo nello stesso luogo propone una
nuova alleanza di tutte le genti, e forse di tutte le religioni, per adorare il
Padre in spirito e verità.
È proprio il
pontificato di papa Francesco che fa pensare a questo nuovo tempo che viene. Egli
ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo ogni giorno
il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era
perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate
dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non
violento ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di
vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al
grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci,
oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia,
contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della
salvaguardia del creato.
Sicché noi oggi
possiamo di nuovo idealmente andare a Sicar, per incontrarci e dare effettività
alla seconda alleanza promossa da Gesù al pozzo di Giacobbe. E possiamo sognare
ed avere visioni.
E prima di tutto
possiamo sperare (e operare perché accada) che a partire da Sicar si
ristabilisca la comunione tra ebrei e samaritani, che oggi si chiamano
palestinesi, e quindi la pace tra Israele e Palestina; e poi che a partire dal
Padre adorato in spirito e verità, si realizzi l’incontro e la comunione tra
cristianesimo e Islam, e tra le religioni abramitiche e tutte le religioni i
popoli le lingue e le culture della terra.
E ciò è necessario
oggi, quando tutto è diventato globale, ma ciò che non è globale, ciò che non è
stato messo in comune è lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio
comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e
gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione
c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe.
Perché questa
alternativa possa risolversi per il bene, occorre che le religioni si
convertano. Non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure
recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di
dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio
inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in
ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle
Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di
ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il
Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma
dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo
nuovo che non solo la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada
da Francesco, ma tutti noi abbiamo oggi il compito di annunciare e di far
accadere.
Raniero La Valle
Cagliari, 9 giugno
2017, Facoltà Teologica
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