Inquietudine, incompletezza, immaginazione
Queste tre parole consegnate dal papa agli scrittori della “Civiltà Cattolica” riguardano in realtà tutti gli operatori dell’informazione, ma anche i politici perché senza ispirarsi ad esse nessuna politica è possibile. Anzi perfino il Vangelo resterebbe lettera morta
Raniero La Valle
Si è tenuto il 14 giugno 2017 alla Federazione Nazionale della Stampa un Convegno promosso e dall’Ordine dei Giornalisti del Lazio e dall’UCSI per discutere se la richiesta fatta da papa Francesco agli scrittori della “Civiltà Cattolica” nel discorso del 9 febbraio 2017 di avere “Inquietudine, incompletezza, immaginazione” , potesse riguardare anche tutto il mondo dell’informazione; questo è l’intervento svolto in quella occasione.
I. Per cogliere la portata effettiva di queste parole, che sono oggi al centro del nostro dibattito, bisogna vedere il contesto in cui sono state pronunciate. Da questo esame risulta che non sono parole occasionali, ma sono indicazioni programmatiche in molte direzioni. A chi sono rivolte? Il papa dice che gli scrittori della Civiltà Cattolica a cui le rivolge, non lo perdono mai di vista e hanno dato un’interpretazione fedele di tutti gli atti più importanti del pontificato. Quindi quelle tre parole indicate come modello della Civiltà Cattolica sono modello anche per sé, prima di tutto si applicano a lui.
Dunque se a descrivere il suo pontificato ci vuole inquietudine, incompletezza e immaginazione, vuol dire che il suo pontificato è inquieto, non predefinito ma aperto all’immaginazione e pieno di poesia, ed è incompleto, cioè è il contrario del papa che ha la perfezione di Cristo o sostituisce Dio in terra, non è cioè né Vicarius Christi né pastor angelicus e tanto meno, come i papi si chiamavano una volta, signore dei signori.
II. Il papa si compiace che la rivista vada dappertutto e che esca anche in spagnolo, inglese, francese e coreano; vuol dire che la considera uno strumento privilegiato di evangelizzazione, ed evidentemente stabilisce un’omogeneità tra come evangelizza la Civiltà Cattolica, come evangelizza la Chiesa, e come evangelizza lui stesso.
Ciò vuol dire che l’intera evangelizzazione, cioè l’intera trasmissione del Vangelo, deve essere fatta con inquietudine, con immaginazione e con incompletezza; ovvero che il Vangelo stesso è inquieto, non è una legge scritta sulla pietra, apre spazi all’immaginazione ed è in se stesso incompleto, cioè non esaurisce e perciò non chiude la Rivelazione; non per niente promette infatti una verità futura a cui, oltre il Vangelo, lo Spirito ci condurrà. E questa mi sembra una teologia biblica di straordinario valore, che nel suo dinamismo va oltre lo stesso metodo storico-critico, che per quanto apra a nuovi significati, è pur sempre nei limiti dell’ermeneutica che interpreta il testo dato, mentre qui c’è l’idea di una manifestazione della parola di Dio, del Verbum Dei, che va oltre la parola scritta e canonizzata, c’è l’idea di una sorpresa possibile nella storia della salvezza, del manifestarsi di un Dio inedito, e perciò anche di un uomo inedito, dato che l’uomo è a immagine e somiglianza di Dio.
III. Questo vuol dire che può aprirsi, anzi che è annunciata un’epoca nuova. E questo mi pare che sia avvalorato dal fatto che la Civiltà Cattolica, per la penna del suo direttore, ha interpretato il discorso del papa in occasione del conferimento del premio Carlo Magno, nel maggio dell’anno scorso, come l’attestazione, da parte del papa e della Chiesa, della fine dell’età costantiniana e dell’uscita dal regime di cristianità. Il papa ha detto che le interpretazioni delle sue pronunzie da parte della Civiltà Cattolica sono fedeli. È vero perciò che, secondo papa Francesco, l’epoca della cristianità finisce, e un’altra epoca comincia.
E a me piace pensare che cominci una nuova epoca della storia del mondo e della storia della salvezza, e che questa sia l’epoca preannunciata da Gesù al pozzo di Giacobbe, in cui gli uomini non adoreranno Dio sui sacri monti e a Gerusalemme, ma adoreranno il Padre in spirito e verità. E riconoscere Dio come Padre, ha detto il papa nell’udienza dell’ultimo mercoledì (7 giugno 2017), è una rivoluzione, e proprio questa è la rivoluzione cristiana.
IV. Infine c’è un ultimo punto. Come è stato detto le tre parole date dal papa in consegna ai “lavoratori gesuiti” che scrivono sulla Civiltà Cattolica, valgono anche per i lavoratori giornalisti che operano nei media. Non mi soffermo su questo, di cui si è già molto discusso; e invece vorrei fare un altro passaggio e dire che queste parole dovrebbero essere adottate come il proprio dovere di stato anche dai politici.
C’è un’ovvia analogia e una stretta comunicazione e interdipendenza tra giornalisti e politici. Politica e comunicazione hanno perso la reciproca autonomia. Esse si somigliano sempre più fino a identificarsi, la differenza resta nel fatto che i giornalisti dicono e non fanno, e i politici fanno quello che non dicono e non fanno quello che dicono.
Se i politici adottassero le tre parole del papa ritroverebbero la loro autonomia e la loro vera funzione nella società. Se fossero inquieti non sarebbero arroganti nella presunzione di essere sempre i più bravi, i più adatti a governare, i salvatori della patria, i predestinati al potere. Invece essi sono agitati, non inquieti. E non dovrebbero dormire la notte se fossero inquieti per la povertà, la disoccupazione, le guerre.
Se fossero coscienti di essere incompleti, saprebbero di non avere soluzioni in tasca, di non avere ricette, di non avere ideologie prefabbricate da attuare, saprebbero di aver bisogno degli altri, cercherebbero collaboratori e ministri più capaci e competenti di loro senza timore di averne ombra, di sfigurare nel confronto, e soprattutto darebbero voce al popolo, non distruggerebbero la rappresentanza, non gli imporrebbero una governabilità fabbricata con la manipolazione del suffragio ma riconoscerebbero nel popolo il vero sovrano e artefice del proprio destino. Se conoscessero l’incompletezza, saprebbero che senza il lavoro, senza la piena occupazione, la Repubblica non è completa, perde il suo fondamento e, come dice il papa, senza lavoro non sarebbe una democrazia.
Se avessero immaginazioni saprebbero che ci sono più cose in cielo e in terra che nei loro discorsi e progetti politici. Non direbbero solo ciò che la gente si aspetta di sentire, per non perderne o per accrescerne il consenso. Se si fa politica per il consenso non si può che essere conservatori, anche se si è di sinistra, anzi non si può che essere populisti e reazionari.
Avere immaginazione vuol dire pensare l’impensabile, non rinunciare a ciò che è giusto perché non ce ne sarebbero le condizioni politiche, inventarsi soluzioni che sembrano impossibili oggi, e che saranno poi considerate ovvie o imprescindibili domani.
Faccio solo un esempio. E’ chiaro che la politica delle frontiere chiuse come fortezze medievali ai profughi, ai migranti, agli stranieri non potrà a lungo continuare, perché non possono continuare la carneficina sui mari, la detenzione illegale nei campi di concentramento e l’esclusione e lo scarto di popoli interi, che vengono dalla fame o dalle guerre; ed è chiaro che se le cose vanno avanti così non solo si compierà il genocidio dei popoli migranti, ma salteranno anche le società e gli Stati che li respingono; ed è chiaro che un giorno sarà considerato ovvio ed inevitabile che porti, strade e aeroporti siano aperti, e chiunque possa andare a stabilirsi senza pericolo dovunque, in un mondo ormai unificato.
Ma senza inquietudine, senza la coscienza dell’insufficienza e inanità delle attuali politiche migratorie, e senza l’immaginazione necessaria per aprire le frontiere, integrare i migranti ed escogitare nuove forme di vita comune e di rapporti politici nelle società nazionali, nessun politico potrà proporre soluzioni a quello che è il più grave problema di questo passaggio d’epoca. E infatti nessuno le propone. Il che vuol dire che non c’è politica, perché non è politica quella che ignora i problemi veri. Il che vuol dire che senza inquietudine, incompletezza e immaginazione non solo non è possibile una buona politica, ma non è possibile alcuna politica.
Raniero La Valle
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