PROVIAMO CON LA RELIGIONE di Raniero La Valle
Mentre l’Europa, chiusa nella sua fortezza, votava il 25 maggio per
i suoi egoismi, per il suo denaro, per i suoi divieti di ingresso e incoronava
nuovi leaders populisti fatti di nulla, quello che una volta si chiamava
Patriarca d’Occidente e che perciò doveva essere il primo a trepidarne, era
volato a Gerusalemme quasi a dire all’Europa che le sue vere frontiere stavano
lì, presso nuovi popoli, dove oggi si giocano la pace, la civiltà e il futuro
del mondo.
Il Papa è andato lì come vescovo
di Roma, per ripetere il gesto compiuto durante il Concilio da Paolo VI che vi
era corso ad abbracciare il vescovo di Costantinopoli, divisi com’erano, da
novecento anni, da reciproche scomuniche. Però questo nuovo evento di comunione
tra i due Patriarchi delle Chiese divise non poteva essere semplicemente una
replica dell’antico. Non doveva essere solo incontro ma già preghiera comune. E
doveva mostrare che se fra i gerarchi delle due Chiese, successori degli
apostoli Pietro ed Andrea, la pace ormai era fatta, c’era ora una pace ben più
difficile e necessaria da fare, quella tra le Chiese stesse, tra i loro fedeli.
Sono le Chiese e i fedeli infatti,
non solo i loro capi e teologi, che si devono riconciliare. Esse sono divise
tra Oriente e Occidente come all’interno di ogni Paese, e perfino a Gerusalemme
esse sono a malapena capaci di convivere attorno al sepolcro di Cristo solo
grazie alla puntigliosa osservanza del decreto di un Sultano ottomano. Ma non
basta migliorare i rapporti. E a poco varrebbe che il Papa, il Patriarca
ortodosso e gli altri esponenti
cristiani abbiano pregato insieme al sepolcro, se poi i fedeli delle loro
Chiese continuassero a essere separati dall’eucaristia, a non poter praticare l’intercomunione,
a trovarsi ciascuno davanti a una mensa divisa. L’eucaristia non può continuare
ad essere la pietra d’inciampo, su cui si esercita il potere di ciascuna Chiesa
per decidere chi sta dentro e chi sta fuori del recinto sacro, per separare nel
popolo di Dio i membri regolari dai sans
papier. Su questo cammino papa Francesco sembra voler andare: ha già detto
che l’eucaristia non si può usare come un premio o come un castigo, e se egli
vuole trovare una strada perché possano comunicare nell’eucaristia i divorziati
risposati, tanto più vorrà cercare di aprire una via perché possano comunicare
nella condivisione della Parola e della mensa eucaristica i fedeli delle
diverse confessioni cristiane.
Del resto è chiaro che
l’ecumenismo tra le Chiese non è solo un affare di relazioni esterne, ma
comporta una riforma interna di ciascuna Chiesa. Il Papa sa che ristabilire il
rapporto con le Chiese ortodosse significa recuperare una modalità collegiale e
sinodale della vita della Chiesa romana, e comporta anche la disponibilità a
rivedere i modi di esercizio del primato petrino, come ha ripetuto a Bartolomeo;
ma ancor più ciò vorrebbe dire recuperare anche le luminose intuizioni della
tradizione orientale, come quella che assorbe la giustizia nella misericordia
di Dio, che per mille anni la Chiesa di Roma ha lasciato offuscare.
L’unità tra il religioso e il politico
Questo, dell’unità tra le Chiese,
è stato il primo scopo del viaggio. Ma altre unità da costruire sono entrate
potentemente in gioco nelle poche ore di questo straordinario pellegrinaggio,
che per la sua qualità senza precedenti non è sembrato tanto il pellegrinaggio
del quarto papa in Terra Santa (dopo Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto
XVI), quanto quello di un secondo Francesco. Tre unità sono state propugnate da
papa Francesco nei tre giorni del suo passaggio: l’unità tra israeliani e
palestinesi, quella tra musulmani, ebrei e cristiani, quella tra cristiani ed
ebrei.
Continua...