Lo
spettro della vittoria
Se non si
riesce a porre fine a questa guerra nefasta che ha già distrutto l’anima del
mondo prima ancora che le istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è
stato esorcizzato lo spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto
falso, che la vittoria sia la conclusione migliore di
una guerra. Si tratta di un mito antico: la vittoria è il premio della
guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del condottiero, schiaccia
l’elmo del vinto; non è concepibile se
non la vittoria come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose,
come è stata teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito.
Ma in realtà
non è affatto vero che, una volta precipitati nella guerra, la cosa migliore è
vincerla. Se oggi celebriamo la vittoria del 25 aprile, è perché avevamo perso
la guerra, ed era stata una fortuna, con i Tedeschi in casa! Chi oggi rimpiange
di non aver vinto quella guerra? Nemmeno i fascisti. Altri orrori si sarebbero
aggiunti agli orrori. E non avremmo avuto la Costituzione, la libertà,
l’industria, il denaro, tutte le cose di cui oggi ci gloriamo.
Eppure
siamo sempre là. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo del
Pentagono Lloyd Austin nella loro fuggevole visita a Kiev di qualche giorno fa hanno
promesso all’Ucraina di Zelensky di farle vincere la guerra, che poi vuol dire che a vincerla saranno gli Stati
Uniti. La stessa cosa aveva promesso qualche giorno prima il presidente Biden
in un “tweet” (che sono le nuove dichiarazioni di guerra che una volta si
consegnavano agli ambasciatori) enumerando le armi e i soldi che gli Stati
Uniti avrebbero fornito all’Ucraina, mentre Lloyd Austin ha aggiunto che
bisogna fiaccare la Russia in modo che non possa fare più nessuna guerra. Più
vittoria di questa!
Naturalmente
anche Putin vuole vincere, tanto più ora quando gli hanno detto in tutti i modi
che in gioco c’è non solo la sua sopravvivenza ma quella stessa della Russia;
però non sa come fare, perché certo non basta, come ha chiesto al ministro
della Difesa Shoigu,
non far volare nemmeno una mosca sull’acciaieria Azovstal (che non sembra la
metafora di una vittoria).
Ma
l’Ucraina ha già pagato un alto prezzo al mito della vittoria, questo spettro
che viene dal regno dei morti, dagli Stati Uniti attraversa l’Atlantico, da
Ramstein si aggira per l’Europa e minaccia il mondo dal mucchio di cadaveri su
cui sale in Ucraina. Già una rovina era stata per l’Ucraina aver insistito con
puntiglio a volere la NATO, nonostante ci fossero ben più di ventimila
russi a premere sulla frontiera del
Paese (e chissà per quale inconfessato disegno incoraggiati da Biden ad
entrarvi, come sostengono Caracciolo e “Limes”). Ma la catastrofe è venuta per
l’Ucraina quando ha cominciato a credere che la guerra poteva vincerla davvero con tutti gli incoraggiamenti e l’altruismo sospetto dell’Occidente, con
gli aiuti di ogni genere, politici, militari, economici, sacrali, con il suo
straziato popolo narrato come esercito, sia pure con lo stereotipo delle donne
che accudiscono e portano in salvo i bambini mentre gli uomini restano o sono
mandati indietro a combattere, e oltre cinque milioni di profughi, e le città
bombardate e distrutte, e la fama di invitti su tutti i teleschermi e in molti
Parlamenti del mondo, compreso il nostro.
In
realtà, a questo punto della storia, dopo tutti gli errori che da una parte e
dall’altra sono stati fatti, la vittoria, di chiunque essa sia, è la peggiore
sciagura che possa capitare. Come dice il papa: che
vittoria c’è sulle macerie? E Noam Chomski, nell’intervista a Truthout che gli chiede se siamo all’inizio di una nuova era di continuo
confronto tra la Russia e l’Occidente risponde che è difficile sapere dove cadranno
le ceneri, “e questa potrebbe non essere una metafora”. Infatti, secondo
Chomski, “che piaccia o no, le opzioni ora si riducono o a un brutto risultato
che premia piuttosto che punire Putin per l’atto di aggressione, o alla forte
possibilità di una guerra terminale”. E questa, secondo Chomski, sarebbe “una condanna a morte per la specie,
senza vincitori: siamo a un punto di svolta nella storia dell’umanità. Non lo
si può negare. Non lo si può ignorare”.
“Senza
vincitori”: perché che cosa sarebbe una vittoria per gli Stati Uniti e la NATO
e l’Europa, se davvero essa dovesse consistere nell’accendere la miccia della terza
guerra mondiale, mettendo fuori gioco la Russia, provocando la Cina e
prospettando all’umanità intera un mondo fatto del solo Occidente?
E che
cosa sarebbe una vittoria per la Russia, che andasse al di là della
rivendicazione iniziale di un’interdizione della minaccia proveniente
dall’Ovest, se ciò volesse dire diventare l’anatema delle nazioni, essere
votata alla negazione genocida del suo esserci stesso, che si tratti del rublo,
del popolo o del Lago dei cigni?
E che
cosa sarebbe una vittoria per l’Ucraina se anche recuperasse la Crimea, e il Donbass, quando pur sempre rimarrebbe lì, a fare da
antemurale dell’Occidente contro la Russia che, Putin o non Putin, certamente
non sparirebbe e sarebbe pur sempre una grande Potenza ansiosa di rivincita,
mentre l’Ucraina sarebbe ancora lì, gloria sì del mondo libero, ma sua prima
vittima sul monte Moria? E l’Oscar all’attore protagonista!
In questa
situazione è del tutto irresponsabile fare il tifo per la vittoria dell’uno o
dell’altro, comunque questa vittoria la si voglia chiamare, difesa della Patria
o dominio del mondo; ed è un’insensata complicità voler essere nel campo dei
vincitori. Vera sapienza è la ricerca di un’alternativa alla vittoria per
mettere fine alla guerra. Tale alternativa sta nel dialogo, nel negoziato, nel
riconoscere ciascuno le ragioni dell’altro, nello “scambiarsi con l’altro”, nel
sapere che la sicurezza dell’altro è la sicurezza anche propria, perché la
sicurezza non consiste in uno “status”, ma in un rapporto, o è di tutti o non è
di nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell’ONU.
Tra le
macerie di questa guerra c’è l’illusione, o la speranza, che si potesse
costruire un nuovo ordine mondiale, fondato non sulla potenza ma sul diritto,
non sulla ragion di Stato, ma sulle ragioni dei popoli, non sulle guerre vinte,
ma sulla guerra ripudiata. In ogni caso si può sempre ricominciare di nuovo.
Come ha scritto in una sua poesia il politico Pietro Ingrao, “leva in alto la
sconfitta”. Il vero germe della vocazione spirituale dell’Occidente, sia nella
versione greca che in quella cristiana come ci ha suggerito Simone Weil, non è la gloria dei
vincitori, ma è il sentimento della miseria umana, che è una condizione della
giustizia e dell’amore: in Grecia, sostiene la Weil, per il trauma non rimosso del
crimine della distruzione di Troia (l’Iliade!), nella tradizione cristiana perché
al patimento della miseria umana neppure uno spirito divino può sottrarsi se
unito alla carne (i Vangeli!), ciò che
vuol dire non soggiacere al dominio della forza, il rifiuto di tutti i rapporti di dominio. Come
ha ricordato papa Francesco celebrando la “resistenza e resa” della Pasqua, “con Dio si può
sempre tornare a vivere”.
Raniero La Valle