venerdì 19 giugno 2020

IL COMPITO


L’evento globale della pandemia ha reso visibile a tutti ciò che già era noto: siamo a una soglia oltre la quale può darsi catastrofe o salvezza. Quella che va costruita è l’unità umana, come soggetto della storia anche politica del mondo; vi fanno ostacolo le ideologie dell’identità, mentre non c’è più ad impedirlo un Dio che divide

Raniero La Valle

Mentre la pandemia continua a mietere vittime, soprattutto nei Paesi peggio governati, più sprovveduti e più poveri, in Italia stiamo vivendo un momento molto delicato di passaggio dalla prima fase irruente e paralizzante del contagio, a una fase di ripresa della mobilità e dei rapporti produttivi e sociali. Per tutti, nel mondo,  comincia una nuova fase nella quale dovremo convivere con il morbo non ancora debellato ma anche con altri pericoli di portata globale che di qui in avanti potranno sprigionarsi dato il crescente degrado cui sono giunte le condizioni di vita sulla Terra.
È pertanto oggi decisiva la scelta, per noi e per un lungo futuro, della strada da imboccare: o un ritorno alle pratiche e ai sistemi del passato, e magari di un lontano e funesto passato, come sembra proporre la virulenza restauratrice e identitaria della destra, oppure il passaggio a una fase nuova di cambiamento delle strutture rivelatesi impotenti a salvarci e di risanamento del nostro ambiente vitale, secondo l’avvertimento di papa Francesco nel giorno di Pentecoste: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.

Segnali di morte

Vi sono purtroppo dei segnali vistosi che sembrano avviarci alla prima alternativa: si pensi al ritorno del conflitto razziale in America, con tanto di rivendicazione della supremazia bianca, al ritorno delle frontiere in Europa, all’offerta provocatoria della cittadinanza britannica ai cinesi di Hong Kong, in nome dei diritti dell’antica colonia inglese, all’incrudirsi del conflitto economico e di potenza tra gli Stati Uniti e la Cina, all’imperturbabile corsa agli armamenti, agli attacchi all’Organizzazione Mondiale della Sanità e ad altre istituzioni internazionali, alla minaccia israeliana di liquidare, con l'annessione dei Territori occupati, la questione palestinese, all’apertura della corsa dei privati nello spazio, quasi una beffa al monito illuminista a non “sperperare tesori nel cielo”. E su tutti vi è il simbolo riassuntivo della foto-opportunity di Trump che davanti a una chiesa episcopaliana di Washington innalza la Bibbia come un idolo, rivendicando quella saldatura tra religione e potere che per secoli ha dilaniato la società umana e la fede stessa; con la variante, però, di riproporre come farsa quella visione costantiniana che storicamente si è data come tragedia. Gesto tuttavia che sarebbe errato archiviare come folklore, perché mette in chiaro il disegno largamente perseguito in Occidente di una riappropriazione del cristianesimo come marcatore identitario e baluardo dei poteri esistenti, ad opera di populismi e integrismi di vario tipo, da Bannon a Orban, dai lefebvriani lepenisti a Bolsonaro, dalla “Opzione Benedetto” di Rod Dreher alla certosa di Trisulti, dall’odio al musulmano alla caccia allo straniero, fino ai rosari di Salvini, come è ben mostrato nel libro appena uscito di Iacopo Scaramuzzi : “Dio? In fondo a destra”[1].
È evidente che se questi segnali si inverassero in processi reali, e le politiche si sviluppassero secondo queste premesse, l’unità umana sarebbe compromessa, e la catastrofe si farebbe imminente.

Opportunità del tutto nuove

Però ci sono anche segnali che indicano una possibilità del tutto opposta. Si presentano infatti straordinarie opportunità che la società umana non ha mai avuto e che aprono a una situazione nuova.
La prima è la globalizzazione stessa che se ha esordito e si è affermata in una versione selvaggia, stremando gli uomini e rendendo sovrani il denaro, il Mercato e le armi, può tuttavia essere ripresa in mano e convertita in un vero universalismo, il cui concreto esercizio è oggi reso possibile dalle scienze, dalla tecnologia e dalla comunicazione. Se si volesse costruire politicamente e culturalmente un mondo unito, non ci sarebbero impedimenti materiali a precluderlo. Il diritto, gloria dell’Occidente, è pronto a partorirlo. C’è già un vagito dell’Europa che sembra prometterlo.
L’altro segnale è la progressiva coscienza che si sta facendo luce in ogni parte del pianeta della precarietà e del pericolo di un multilateralismo incontrollato, non riducibile a una ragione e a una finalità comuni. Il conflitto la violenza e la guerra non possono più essere né la regola né l’ultimo grado di giudizio del rapporto sociale. A dirlo è un brivido che corre nel mondo. I poliziotti americani che si inginocchiano di fronte alle loro stesse vittime, neri o bianchi che siano, e innumerevoli manifestanti che ne ripetono il gesto sotto ogni cielo, non sono un segno di codardia, come pretende il folle americano al comando, ma sono un segnale apocalittico di un’età che è finita e un’altra che viene.

Conversione delle religioni

Infine c’è il segnale di una conversione delle stesse religioni, di cui il pontificato di papa Francesco rappresenta oggi il più autorevole annuncio. Non si tratta di questa o quella riforma o ammodernamento nelle confessioni religiose e nelle Chiese. Si tratta di una nuova narrazione di Dio, rimasta confusa e offuscata per secoli, pur dopo i Vangeli, che ora sembra perdere le sue scorie e i suoi travisamenti, e riacquistare somiglianza con l’originale, che Gesù ci ha fatto vedere: quel Dio tenerissimo, “primo nell’amore”, primo anche a prendere su di sé il dolore di tutti, come lo ha mostrato Francesco in questa pandemia, È un Dio in cui non c’è violenza: nessun patibolo può fregiarsi del suo nome, se non come vittima.
Fu all’inizio del pontificato di papa Bergoglio, nel 2014, ma a conclusione di un lavoro condotto per anni, su impulso del Concilio, che la Commissione Teologica Internazionale presentò come “una svolta epocale nell’odierno universo globalizzato”,  la novità  “dell’irreversibile congedo del cristianesimo dalle ambiguità della violenza religiosa”[2]. Quasi raccogliendo la sapienza e l’esperienza dei secoli, rileggendo la Bibbia, la teologia e i Concili, il documento vaticano era tutto proteso a identificare  nell’eccitazione alla violenza in nome di Dio, la massima corruzione della religione. Le conseguenze di questa nuova chiarezza erano destinate a investire non solo una modalità della fede, o suoi possibili errori, ma la fede stessa. Secondo la Commissione Teologica Internazionale ciò voleva dire entrare in un’epoca nuova, varcare una “frontiera profetica di un nuovo ciclo religioso e umano dei popoli”. E se è lo Spirito che a ciò conduce la professione di fede, “l’icona ecclesiale dal canto suo deve suscitare l’immagine di una religio che si è definitivamente congedata – in anticipo sulla storia che deve seguire – da ogni strumentale sovrapposizione della sovranità politica e della Signoria di Dio. Questo “congedo può e deve essere vissuto da tutte le comunità cristiane dell’epoca presente, come avvento del tempo stabilito dal Signore per la maturazione del seme evangelico”: un tempo nuovo. La pastorale della misericordia, la Chiesa ospedale da campo, il Dio che “se si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio” di papa Francesco non erano lontani.

Un Dio senza violenza

 C’era un ritardo in questa ammissione di un’infedeltà delle Chiese, che era costata molti dolori; ma alfine questa soglia era varcata, e il corso storico poteva riprendere non più funestato dal falso conflitto tra Dio e il mondo, tra grazia e libertà; divino e umano non erano più confusi ma anche, secondo la fede di molti, non erano divisi. “Svolta radicale”, la chiamavano i teologi del papa, ma essa non riguardava solo la confessione cristiana, e nemmeno solo la tradizione giudeo-cristiana, ma la “religione” come tale, “la concezione della religione e dell’umanesimo, indissolubilmente”, una fede che  è oggi chiamata ad anticipare l’epoca del riscatto definitivo del ‘nome di Dio’ dalla sua profanazione attraverso la giustificazione religiosa della violenza”. Non c’era più un Dio a fondare il trono dei potenti e ad impedire l’unità umana. Ed è da qui che è venuto, come prima cosa, il patto di fratellanza universale firmato ad Abu Dhabi con l’Islam, ma viene anche il contagio etico che fa dire a tutto il mondo: “non respiriamo più; senza giustizia non c’è nemmeno pace”.

Per una Costituzione della Terra

Queste sono le condizioni nuove che inducono ad agire, che postulano una “Costituente Terra”, e che fanno ritenere possibile una Costituzione della Terra. E da ciò a noi deriva un dovere, che non è solo quello di non disperdere una memoria e trasmettere un’eredità, ma è quello di trasmettere un compito.
È un dovere che ricade sulle generazioni del Novecento che, uscite dalla notte delle grandi guerre mondiali e della Shoà, sono riuscite a concepire e predisporre le forme del mondo nuovo, ma poi hanno fatto a pezzi la loro creatura, si sono inchiodate sull’89, l’hanno preso come un loro bottino, come fosse la fine della storia a favore degli uni contro gli altri.   Ed è quel compito, che allora fu interrotto, che le generazioni uscenti devono ora trasmettere alle generazioni nuove; il compito è quello di radunare i dispersi, rialzare i caduti, e costruire l’unica comunità umana, soggetto come tale di liberazione e di diritti. È una figura nuova, mai esistita prima se non nei sogni e nelle profezie. Vi fanno ostacolo le diversità, se sono rivendicate in modo che ciascuna prevalga e sia sovrana sulle altre. Ma esse ne sono la sostanza se tutte sono convocate per comporre non un nuovo Leviatano, ma la grande assemblea dei popoli della Terra al fine che l’umanità sopravviva, il mondo sia salvo e la storia continui.
Questo compito non è il punto di caduta di un sogno, di un’utopia, di un mito: è imposto dalla ragione, anzi è l’unica risposta secondo ragione alle drastiche alternative oggi presenti; si tratta di costituire una sfera pubblica globale e varare una Costituzione della Terra che metta in atto garanzie e istituzioni di tutela e promozione dei diritti fondamentali di tutti gli abitanti del pianeta. È chiaro che questo progetto e questo processo dovranno fare i conti col Mercato, perché Mercato e sfera pubblica sono stati finora in contraddizione e in contrasto. Ma non deve l’uno soccombere all’altra. Basta che sia deposto dal trono e accetti le regole. Ciò è necessario per fronteggiare non solo le crisi sanitarie che di questa urgenza forniscono oggi la prova del nove, ma tutte le emergenze planetarie - alimentari, nucleari, ambientali – per non tornare a una sorta di “stato di natura” e per promuovere, ben oltre le emergenze, una convivenza di ragione e misericordia sulla Terra.
Raniero La Valle 


[1] Iacopo Scaramuzzi, Dio? In fondo a destra, EMI, Verona, 2020.
[2] Commissione Teologica Internazionale, Il monoteismo cristiano contro la violenza, 2014,  http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20140117_monoteismo-cristiano_it.html

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mercoledì 3 giugno 2020

PENTECOSTE

Chi l’avrebbe detto al giovane  Hegel, a Marx, al Bloch di “Ateismo nel cristianesimo” che “i tesori sperperati nel cielo” non sarebbero stati più quelli da loro denunciati dell’alienazione religiosa, ma quelli ben più concreti della corsa nello spazio in cui ormai anche i privati ricchi  investono le enormi ricchezze rubate alla metà più povera del mondo? È successo nel giorno di Pentecoste, inizio della Chiesa, inizio della seconda fase della pandemia, inizio della colonizzazione privata dello spazio grazie alla navetta “Crew Dragon” per il trasporto di persone (in preventivo 20 milioni di dollari a passeggero) che ha raggiunto gli astronauti russi  nella stazione internazionale orbitante intorno alla terra.
Dunque c’è inizio e inizio. Da un lato c’è da curare le persone, che escono straziate dalla pandemia. Dall’altro c’è da continuare la corsa, da ipotecare profitti, finanziare l’economia; ma le persone, dice lapidariamente il papa al Regina Coeli, “sono più importanti dell’economia. Noi persone siamo tempio dello Spirito Santo, l’economia no”.
Per la Chiesa questa Pentecoste può essere davvero un nuovo  inizio. Non solo per i simboli: la basilica di san Pietro di nuovo abitata da un po’ di fedeli, la finestra dell’Angelus che finalmente si affaccia su una piazza riaperta, riavviata  a popolarsi di nuovo. Ma anche perché essa è giunta dopo una Pasqua che è sembrata riportare  la Chiesa alla nudità del sepolcro vuoto, come se tutto dovesse ricominciare da capo. L’ha detto il papa nell’omelia della Messa di Pentecoste: “Andiamo dunque all’inizio della Chiesa”.
Ebbene, all’inizio della Chiesa l’annuncio delle “grandi opere di Dio” partito dal Cenacolo non andò dal popolo d’Israele a gente divisa “in gruppi secondo i vari popoli”,  ha sottolineato Francesco, non andò prima ai vicini e poi ai lontani, non andò prima ai credenti e poi ai pagani, secondo un ben architettato piano pastorale, ma andò direttamente, sotto il vento unificante dello Spirito, dai circoncisi alla totalità dei figli di Dio, a questa unica umanità, l’”Unigenita”; e l’annuncio fu quello della pace, e la missione fu quella del perdono, e non doveva esserci altro che pace e perdono.
Tanto più ciò vale in questa crisi che stiamo attraversando. E anche per la Chiesa, come per la società, vale ciò che ha detto il papa a Pentecoste, che “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Il dramma sarebbe quello di tornare ad interpretare le crisi, anche nella Chiesa, dentro i vecchi schemi, le vecchie dietrologie, le letture dei fatti condizionate da un clericalismo latente,  spesso presente anche in casa progressista.
E proprio il giorno di Pentecoste è venuta l’occasione di pensare in grande alla Chiesa di domani. Giusto sette mesi fa, come ha ricordato papa Francesco dopo il Regina Coeli, si era concluso il Sinodo per l’Amazzonia, una terra che doveva poi essere duramente provata dalla pandemia: “Tanti sono i contagiati e i defunti, anche tra i popoli indigeni, particolarmente vulnerabili”  ha detto il papa, che ha invitato a pregare “per i più poveri e i più indifesi di quella cara Regione, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Così l’Amazzonia, caduta in oblio dopo il Sinodo perché si era giudicato che esso non avesse dato i frutti sperati per la riforma della Chiesa, per colpa del papa che non ne aveva raccolto e avallato le istanze, è tornata al centro dell’attenzione della Chiesa.
Ma chi ha detto che non aveva dato frutti? Anzi il Sinodo  aveva preconizzato una Chiesa dalla cultura “marcatamente laicale”. Un’analisi non emotiva, ma finalmente condotta anche con sapienza giuridica dall’ecclesiasticista Nicola Colaianni, dimostra che l’Esortazione “Querida Amazonia” di papa Francesco ha recepito “per relationem” il documento conclusivo sinodale, dandogli forza di esortazione pastoralmente vincolante, anche se non obbligante per fede; questa ricezione papale non ha escluso pertanto le ipotesi, suscettibili di entrare in un futuro decreto, del sacerdozio uxorato e del diaconato femminile; solo che questo lo fa non all’interno del consueto apparato clericale e gerarchico, ma nel quadro di una visione dinamica della Chiesa permeata da una cultura “marcatamente laicale”.
Allo stesso modo dinamica dovrà essere la visione  della società umana, nella sua versione laicale, come umanità ricomposta e costituzionalmente fondata.
        Continua...