venerdì 8 dicembre 2023

NESSUN BAMBINO NASCERÀ QUEST'ANNO A BETLEMME


Con immenso dolore vi annunciamo che nessun bambino nascerà quest’anno a Betlemme per Natale. Intanto nessuna famiglia non censita o araba può spostarsi da Nazaret a Betlemme, perché tra questa città e Gerusalemme c’è un muro alto otto metri che non si può varcare senza un’attesa di ore attraversando check point presidiati da coloni agguerriti e dall’esercito. A Betlemme poi, in mancanza di albergo, non si può andare a partorire in una grotta, perché c’è il rischio che essa sia allagata da pompe capaci di trasportare migliaia di metri cubi d’acqua dal mare, come si minaccia di fare nei tunnel di Gaza per uccidere quanti vi sono riparati, liberi o ostaggi che siano. È anche un tempo non adatto per partorire, perché non si sa che futuro potrebbero avere i bambini messi alla luce, già ai primi vagiti, perché potrebbero d’improvviso spegnersi le incubatrici o dopo, perché potrebbero finire in mezzo a una strage degli innocenti, come succede a Gaza dove secondo l’organizzazione internazionale “Save the children” sono stati tolti alla vita già più di 3.257 bambini, un numero superiore a quello dei bambini uccisi in conflitti armati a livello globale in più di 20 Paesi nel corso di un intero anno; e questo rischio correrebbero anche in Israele, dove ne sono periti 29, e in Cisgiordania dove di bambini ne sono morti 33. Né si può cercare di portarli in salvo fuggendo in Egitto, perché non si può passare al valico di Rafah e l’Egitto non li vuole. E anche per gli altri bambini non si sa che futuro avranno se gli adulti maschi si uccidono a vicenda in guerre insensate, che è il primo e vero crimine del patriarcato.
In questa situazione tutte le Chiese cristiane di Gerusalemme hanno deciso che quest’anno non si celebrerà il Natale a Betlemme, sono cancellate le liturgie, fermati i pellegrinaggi, perché non ce ne sono le condizioni, c’è poco da celebrare.
Eppure i bambini “sono sacri” ha scritto Liliana Segre in una lettera alla comunità ebraica romana riunitasi a piazza del Popolo per reagire a un antisemitismo di ritorno che va di pari passo con il perdurare del genocidio di Gaza. Ha scritto la senatrice Segre: "L'eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori. E non ho soluzioni. E non ho più parole. Ho solo pensieri tristi. Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie. Provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace".
In effetti a pagare sono tutti, dentro e fuori la Palestina, Gaza e Israele. Anche i coloni, che se per mettersi fuori della guerra volessero andare in America non potrebbero farlo perché gli Stati Uniti hanno deciso di non dare loro i visti per quello che stanno facendo ai palestinesi insieme con l’esercito.
Il ritorno dell’antisemitismo si può sconfiggere se risulta ben chiaro che l’“inferno” (per dirla con l’ONU) che ha preso possesso dei palestinesi e di Gaza (con il rischio di espandersi in modo incontrollato nell’area mediterranea e nel mondo) non è imputabile né al popolo ebraico come tale, né alla fede di Israele, né al messianismo del ritorno alla terra. perché, anche ad una lettura fondamentalista delle Scritture, un simile esito non è compatibile con la Torah e con i Profeti. Se per la propria sicurezza futura il prezzo fosse lo sterminio degli altri sulla terra, nessun Dio potrebbe invocarsi nei cieli. Responsabile invece è solo lo Stato come istituzione, moloch o leviatano che sia, come il mostro preso ad esempio dalla Bibbia. Si rivela così la forza profetica del giudizio che Primo Levi nel 1984 esprimeva in una intervista a Gad Lerner (oggi ripubblicata dal “Fatto”) in cui si diceva convinto che “il ruolo d’Israele come centro unificatore dell’ebraismo” dovesse rovesciarsi, tornare fuori d’Israele, “tornare fra noi Ebrei della Diaspora che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un’altra cosa. Custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza”. Se i mostri si sfidano fino a minacciare Beirut ed il Libano meridionale di fare la fine di Gaza e di Khan Yunis, nessuno può essere complice e confondersi con essi.
È questo il cambiamento profondo che si richiede allo Stato d’Israele e al suo rapporto con gli altri Ebrei e con i popoli, ed anche alla nostra concezione belluina dello Stato, se si vuole che l’antisemitismo sia cancellato in radice, e che il mondo possa trovare la pace.
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domenica 19 novembre 2023

 

 

IL RIBALTONE COSTITUZIONALE

 

Durante il fascismo i treni arrivavano in orario e gli scioperi erano proibiti. Adesso è Salvini che provvede ad ambedue le cose, precetta e fa ponti d’oro ai treni, forse per rinverdire l’idea che il fascismo non era poi tanto male. Deve pensarlo anche Giorgia Meloni se vuole fare una riforma costituzionale che al fascismo faciliterebbe la strada: se infatti a qualcuno venisse in mente di riprovarci, cosa ci sarebbe di meglio per farlo che un Capo del governo o un insieme di governo che sia padrone del potere e inamovibile per cinque anni, non revocabile per il venir meno della fiducia dei cittadini e del Parlamento? Ce la presentano come una riforma per il premierato, opinabile perché comunque un premier ci vuole, ed è invece un ribaltone per abolire il controllo della perdurante fiducia al governo Un governo così sarebbe del tutto in grado di instaurare il fascismo. Né lo impedirebbe la foglia di fico di un Presidente della Repubblica figurativo con 88 corazzieri di altezza superiore alla media.

La nostra memoria storica ci dice di non permetterlo. Non possiamo permetterci di ripetere un errore e una tragedia già accaduti. Ogni popolo ha avuto la sua sciagura originaria che ha poi spesso portato inenarrabili sciagure ad altri popoli e Nazioni. Noi abbiamo avuto il fascismo dopo la legge Acerbo, i Tedeschi il nazismo dopo le elezioni del 1932, gli Americani la guerra di secessione per la contesa sulla schiavitù, i Russi la domenica di sangue e il massacro al Palazzo d’Inverno nel 1905 per mano dello Zar, gli Armeni il genocidio, gli Ebrei la Shoà, i Palestinesi l’espulsione e la Nakba, i popoli dell’America Latina le dittature plebiscitarie con i cittadini gettati in mare o “scomparsi”, la maggior parte delle altre Nazioni sono state assoggettate a regimi militari, Imperi e colonie.  
Quasi sempre cinque anni sono bastati a ciascuno, spesso dietro finzioni democratiche o a causa di sbagliate elezioni, per cadere nella catastrofe e avere un battesimo di sangue.
Perciò dobbiamo avvertire il pericolo e non permettere l’uscita dalla Repubblica parlamentare, “Prima” o “Seconda Repubblica” che la si voglia chiamare, che pur con tutti i suoi difetti e le perduranti irrisolte povertà, ha il sapore della Costituzione e delle libertà conquistate. Come cittadini, Italiani per nascita o per accoglienza, dobbiamo contrastare questa “madre” di tutte le riforme. “Tutte”. È la madre del fascismo che è sempre incinta, e anche oggi non fa che partorire l’ennesimo decreto di sicurezza, che moltiplica pene e reati, dai mendicanti alle donne incinte, dall'intralcio alla circolazione stradale alle occupazioni abusive, alle proteste nelle carceri e nei centri dei migranti, che siano in Italia o nella discarica dell’Albania ,  e distribuisce più manette e più armi.

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giovedì 26 ottobre 2023

 

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giovedì 19 ottobre 2023

 QUALE FUTURO

Dopo la Shoà inflitta dall’Europa al popolo ebreo, il mondo ha detto “Mai più!” e ha stabilito che i popoli non devono uccidersi l’un l’altro ma farsi concittadini e fratelli. Con la fondazione dell’ONU il mondo si è poi chiarito le idee sul delitto di genocidio e sulla la sua singolarità rispetto a ogni altra forma di carneficina, eccidio o strage: una differenza tanto forte da inventargli un nome nuovo, dato che non esisteva la parola né la fattispecie del crimine di genocidio prima della risoluzione delle Nazioni Unite dell’11 dicembre 1946 seguita poi dalla Convenzione internazionale del 1948. Questa definiva il genocidio, indipendentemente dal fatto che fosse perpetrato in tempo di pace o in tempo di guerra, come ciascuno degli atti che venisse commesso “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale”. Tra questi atti era esplicitamente citato “il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale”. Crimine veniva considerato anche “il tentativo di genocidio” e non venivano chiamati “scudi umani”, quali vittime dell’attacco, i membri del gruppo uccisi o esposti a “lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale”.
Istruiti da tale statuizione, possiamo chiamare per nome gli avvenimenti che stanno dilaniando Israele e Gaza, dalla turpe carneficina di Hamas alla terra bruciata frutto della punizione collettiva di Israele, fino alla strage degli innocenti malati e feriti nell’ospedale di Gaza
In piena guerra è impossibile fare un bilancio complessivo delle vittime; si sa per certo che 1200 israeliani sono stati uccisi nel raid di Hamas e circa 200 sono gli ostaggi. Quanto ai palestinesi, l’intera popolazione di Gaza, fatta oggetto della ritorsione israeliana, assomma a 2.200.000 persone, di cui più della metà sono minori e non hanno alcuna responsabilità per le gesta di Hamas, essendo nati dopo che questa nel 2006 aveva vinto le elezioni.
Purtroppo né l’Europa, né l’Occidente sono in grado di fare alcunché per alleviare le sofferenze in atto e promuovere la riconciliazione e la pace. Da noi non c’è che una rissa per demonizzare gli uni o gli altri, non c’è una visione capace di prospettare un diverso futuro. È chiaro invece che, fallita la soluzione dei due popoli in due Stati, inutilmente perseguita nei passati decenni, occorrerà mettere in campo nuove idee e proporre nuovi ordinamenti anche al di là dei modelli esistenti. Non è detto che la sovranità degli Stati debba continuare ad essere quella incondizionata del modello hobbesiano, né che i conflitti identitari si possano risolvere solo nella perdita delle rispettive peculiarità religiose e culturali secondo il modello della laicizzazione occidentale. E se da un lato l’identificazione di Israele come Stato ebraico potrebbe volgere a una interpretazione più magnanima e anche più fedele al cuore delle Scritture di quanto sia l’attuale forma dello Stato di Israele, nell’Islam può diventare cultura comune e immune dalle sacche di estremismi violenti la visione di recente enunciata nel documento islamo-cristiano di Abu Dhabi e nella lettera che 126 leaders e sapienti musulmani nel 2014 inviarono ad Al-Baghdadi e all’Isis, rivendicando il primato delle misericordia nel Corano e una lettura storicizzata delle passate guerre religiose con l’affermazione che l’Islam non avanza con la spada: “È proibito accomunare la “spada”, e quindi la collera e il rigore, alla “misericordia” – diceva la lettera – “Non è altresì lecito subordinare l’idea di “misericordia per tutti i mondi” (attribuita a Maometto) “all’espressione “inviato con la spada”, perché ciò sarebbe come dire che la grazia è subordinata alla spada, cosa che è evidentemente falsa. .”.
Non c’è dunque nulla che si deve fare che sia fuori della cultura ebraica e di quella musulmana; al contrario c’è scritto in Isaia 61, lo ha riproposto Gesù nella sinagoga di Nazaret, ed è affermato nella teologia islamica. E anche il Papa è d’accordo contro tutta la tradizione della Cristianità armata, “da Costantino ad Hitler”, come dice lo storico Heer ben noto a papa Francesco.
Se non si mettono in campo queste alternative, nemmeno noi ci salviamo. Perché tutti siamo responsabili, “Sono tutti traviati, tutti corrotti, non c’è chi agisca bene, neppure uno” (Salmi), “tutti hanno smarrito la via, insieme si sono corrotti, non c’è chi compia il bene, neppure uno) (Paolo). Sono detti sapienziali, laici, non confessionali.

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martedì 10 ottobre 2023

 

PIANGERE SU GERUSALEMME

 

Dinanzi allo scempio che dilania la Palestina, apriamo il Vangelo e leggiamo che Gesù, ebreo di Galilea, salendo a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: “Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!”. Così oggi, come allora Gerusalemme non ha capito dove fosse la sua pace, ha creduto che fosse nella vittoria, mentre la guerra ora caduta su di lei è proprio il salario della vittoria.

Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a “non forzare il Messia”, e Netaniahu aveva istituito un “governo di annessione ed esproprio”, come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto.

A Israele non era bastato vincere tornando nella terra dei padri. Non era bastato occupare la Cisgiordania, non era bastato riaprire i kibbutz che ne erano stati espulsi, non era bastato aprire le terre occupate ai coloni, non era bastato demolire le case dei palestinesi e segregarli oltre muri e chekpoint, non era bastato salire a sfidarli sulla spianata delle Moschee, non era bastato sigillare le frontiere di Gaza e colpirla di embargo, come ora l’affama, le toglie l’acqua e la luce. Israele voleva ormai anche negare, come ha fatto il suo ministro delle finanze Bezalel Smotrich in piena Europa, a Parigi, che i palestinesi esistano: «non esiste un popolo palestinese”», aveva detto, si tratterebbe di una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita.  

Non ha capito Israele ciò che Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, sicché mentre l’inchiostro o i mattoni sono ancora freschi, già si approntano le lance e i cannoni, e prima o poi il vinto risorge e si vendica. Perciò Israele piange ora sulla vittoria  e il rischio è che voglia vincere ancora, e procacciandosi sicurezze ancora maggiori, e devastanti per gli altri, quando il primo a piangere, nella sua tomba, è il premier Rabin, che al suo popolo voleva dare e stava per dare un’altra pace, fondata sulla riconciliazione e sul rispetto l’uno del volto dell’altro (secondo l’invito dell’ebreo Levinas), israeliani e palestinesi insieme: ma prima che la pace fiorisse, e perché non fiorisse, fu abbattuto da fuoco amico.

Non erano mancate altre voci che a Israele avevano indicato un’altra strada, e voci che addirittura venivano da reduci del genocidio nazista, scampati alla Shoà, come Yehuda Elkana, illustre filosofo e storico della scienza in Israele. Nato in Serbia, aveva raccontato su Haaretz (2.3.1988) di essere stato portato con i suoi genitori ad Auschwitz a soli dieci anni, di essere sopravvissuto all’Olocausto, liberato dall’Armata Rossa e poi immigrato in Israele nel 1948 dopo aver passato alcuni mesi in un “campo di liberazione russo”.  E aveva scritto: “Dalle ceneri di Auschwitz sono emerse una minoranza che afferma che “questo non deve accadere mai più” e una maggioranza spaventata e tormentata che dice “questo non deve accaderci mai più.” É evidente che, se queste sono le uniche lezioni possibili, io ho sempre creduto nella prima e considerato l’altra una catastrofe... Se l’Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto tra israeliani e palestinesi avrebbe condotto a così tante “anomalie” e che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.…”.

E in Italia Bruno Segre, nel raccontare in una lunga intervista “Che razza di ebreo sono io”, ha denunciato l’uso strumentale della memoria della Shoah, come si mostrò nella “menzogna raccontata senza pudore” al Congresso sionista mondiale nell’autunno 2015 dal premier Netanyahu, secondo la quale l’idea della Shoah sarebbe stata suggerita a Hitler da Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme. Una bugia “inventata dal premier israeliano – ha detto Segre - per insinuare l’idea che la colpa della Shoah vada attribuita ai palestinesi”, e che vi fosse una continuità fra la Shoah e l’intifada.

E ha scritto Ali Rashid, palestinese a Roma:  Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita. Ma questa catena di morte è inarrestabile? Eppure una volta eravamo fratelli.”

Noi dunque piangiamo con Israele su Gerusalemme, la città divisa che pur unisce due popoli nel dolore,  e li abbracciamo nello stesso amore. Ma non così possono piangere quanti hanno concorso alla sciagura di oggi, facendo propria e promulgando senza remore l’ideologia della vittoria, incurante della giustizia e tributaria solo della forza.

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sabato 16 settembre 2023

 HANNO PERSO LA RAGIONE: L'APPELLO

È sempre più difficile dire come potremo uscire dalla tragedia universale che stiamo vivendo, perché siamo vittime non solo della protervia dei potenti che si sono arrogati il diritto di decidere della nostra sorte e della stessa vita del mondo, ma della loro condotta del tutto irrazionale. Nel nostro orgoglio di occidentali nipotini di Kant, credevamo che la ragione ci avrebbe salvato, e invece è proprio l’eclissi della ragione che ci sta perdendo.
Il primo esempio di questo agire senza ragione sta nell’origine stessa della guerra d’Ucraina. Ora sappiamo perché essa è scoppiata, e come sarebbe stato facile, e addirittura ovvio, evitarla. Ci ha spiegato perché non l’hanno fatto il segretario generale della Nato, Stoltenberg, parlando in una sede istituzionale come la Commissione Esteri del Parlamento europeo. “Nell’autunno del 2021 – ha rivelato - il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la Nato firmasse l’impegno a non allargarsi più”. Bisogna notare che a quella data la Nato aveva già inglobato, dopo il fatidico ’89, la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia, l’Albania, la Croazia, il Montenegro, la Macedonia del Nord, Paesi non tanto lontani dai confini della Russia, su cui pertanto la NATO, per dirla con papa Francesco, poteva già abbaiare a suo piacere. “Inoltre – ha aggiunto Stoltenberg – voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la Nato dall’Europa centrale e Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Ovviamente non abbiamo firmato, e lui è andato alla guerra per evitare di avere confini più vicini alla Nato, ottenendo l’esatto contrario, ha avuto cioè maggiore presenza della Nato sul fronte orientale». Bastava cioè mantenere le distanze, e la guerra non ci sarebbe stata.
Un altro esempio di un comportamento “alienum a ratione”, per dirla con papa Giovanni XXIII, ossia “fuori della ragione” se non di follia, sta nella posizione assunta dall’Ucraina come l’ha enunciata il portavoce ufficiale di Zelensky, Mikhailo Podolyak. Egli prima ha liquidato papa Francesco, dicendo: “Non ha senso parlare di un mediatore chiamato papa, se questi assume una posizione filorussa… Il Vaticano non può avere alcuna funzione di mediazione: ingannerebbe l’Ucraina o la giustizia”: uno schiaffo al papa che Marco Politi ha paragonato allo “schiaffo di Anagni”. Poi Podolyak ha descritto il mondo come l’Ucraina di Zelensky se lo immagina oggi e dopo la vittoria sulla Russia: “Smettetela di flirtare con i maniaci ignorando le loro vere intenzioni. Smettetela di pensare che sia possibile negoziare con la Russia e che sia importante. La decisione sulla Russia deve ancora essere presa: isolamento geopolitico, status di terrorista, sospensione dall’appartenenza a istituzioni globali, mandati di arresto individuali per alti funzionari. E soprattutto la sconfitta nella guerra seguita dalla trasformazione interna”. Povera Ucraina e poveri noi in un mondo così, in cui popoli interi debbano essere scartati e messi alla gogna!
La terza performance insensata e incoerente è quella di Biden che a Pechino ha detto: “Non voglio il contenimento della Cina. Voglio solo assicurare che ci sia una relazione onesta e chiara”. Peccato che nella sua “Strategia della sicurezza nazionale americana”, firmata nell’ottobre scorso, ci sia scritto che il maggiore “competitore strategico” degli Stati Uniti è la Cina, che rappresenta la “sfida culminante” nel prossimo decennio, mentre il segretario alla Difesa ha aggiunto che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma che in ogni caso gli Stati Uniti sono pronti “a prevalere nel conflitto”. Tuttavia nessuna vera ragione è stata fornita sul perché bisogna prendersela con la Cina e farne l’ultimo Nemico in una guerra finale con lei.
Sono queste alcune delle ragioni che stanno alla base dell’Appello “Terra, Pace Dignità”, lanciato da Michele Santoro e da me “ai pacifici, alle donne e agli uomini di buona volontà, agli elettori di tutte le liste, agli assenti dalle urne e a quelli di deluse speranze”, per porre termine alla guerra di Ucraina, condizione di salvezza perché “la storia continui”, e a questo fine dare una rappresentanza politica a tre soggetti ideali, tre ordinamenti, che non l’hanno o l’hanno perduta: la Terra, la Pace e la Dignità di tutte le creature; è questa infatti la via, che non elude la dura prova della politica, per giungere infine al ripudio sul piano mondiale della guerra e a quel costituzionalismo mondiale che solo lo può garantire.
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martedì 29 agosto 2023

PACE, TERRA E DIGNITÀ


Quello che segue è l’intervento che Raniero La Valle, a nome suo e di Michele Santoro, ha pronunciato all’assemblea “E se spuntasse un Arcobaleno?” tenutasi il 26 agosto 2023  alla Versiliana di Marina di Pietrasanta.

Prima di tutto vorrei ringraziare Michele Santoro che con la sua straordinaria capacità di convocazione e lettura degli eventi, ci ha riunito in questa grande assemblea. Siamo qui  per dare voce a un sogno, un sogno comune, suo e mio, e credo anche vostro, il sogno che finalmente appaia un Arcobaleno.  L’Arcobaleno è un simbolo potente, perché unisce la terra col cielo. Sul cielo noi non abbiano giurisdizione, ma sulla Terra sì; e sulla terra che cosa vorremmo che questo Arcobaleno segnasse e portasse? Vorremmo tre cose, prima di tutto la Pace; la Pace non ha nulla al di sopra di sé, la pace è sovrana, la pace non ha scambi da fare con alcuna altra cosa al mondo, è la condizione di tutto, quella per la quale viviamo, speriamo ed amiamo. E la seconda cosa è proprio la Terra, questa Terra che ci stanno togliendo da sotto i piedi, questa terra infuocata, questa Terra dove si rompono le acque, questa Terra dove si accendono i fuochi, dove bruciano le foreste, dove finisce l’ossigeno, questa Terra che è la nostra madre, la dobbiamo recuperare, difendere, salvare. E la terza cosa è la Dignità, la Dignità delle persone che l’hanno perduta, a cui non viene riconosciuta. Pensate solamente ai migranti, non solo sono abbandonati al mare, ma prima ancora di essere lasciati al naufragio e alla morte sono negati nella loro dignità, vengono scambiati per denaro, si va a Tunisi a dire: “quanti soldi volete per non fare arrivare i migranti da noi?”. Allora queste tre cose, la Pace, la Terra e la Dignità sono le cose che noi vorremmo a questo Arcobaleno chiedere, perché si riversino qui sulla Terra. L’Arcobaleno è anche un segno polivalente, perché l’Arcobaleno può sorgere in qualunque punto del cielo. Noi vorremmo che sorgesse qui in Italia, in Occidente, dove giacciono i nostri valori, ma può sorgere anche altrove; io ricordo, nel 1987, avevamo una rivista che si chiamava “Bozze”, e facemmo un titolo così: se la Pace viene dall’Est. Allora erano altri tempi, c’era Gorbaciov, la Russia si chiamava in un altro modo, però in quel momento c’era la guerra atomica, c’era il pericolo dell’ecatombe nucleare, ma da lì venne la proposta di “un mondo senza armi nucleari e non violento”. E quindi l’Arcobaleno può sorgere oltreoceano, può sorgere qui da noi, può sorgere nel Sud del mondo, o può sorgere all’Est.

E allora per realizzare questo sogno, Santoro ed io, insieme, facciamo un appello. Non lo facciamo solo ai pacifisti, non è roba di pacifismo; noi abbiamo molta gratitudine per i pacifisti che hanno tenuto alta la fiamma della Pace in questi anni di guerre e di guerre. Però questo appello va al di là dei pacifisti. Noi facciamo un

APPELLO

Ai Pacifici, che sono una moltitudine. Ai figli di Dio che prendono la Terra per madre, Ai resistenti perché nessun volto sia oltraggiato e la Dignità sia riconosciuta a tutte le creature,  Agli eredi di milioni di uomini e donne che hanno lottato per il lavoro, per l’emancipazione e per la libertà dal dominio pubblico e privato, A quanti si ribellano al sacrificio – c’è questa ideologia del sacrificio – ci rivolgiamo a quanti si ribellano al sacrificio degli uni per il tornaconto degli altri. Ai giovani che abbiamo perduto, a cui non abbiamo saputo garantire il futuro.

È questo un appello che affidiamo agli organizzati e ai disorganizzati,  ai militanti di tutti i partiti, agli elettori di tutte le liste e agli assenti dalle urne, agli uomini e donne di buona volontà e a quelli di deluse speranze, a quanti godono di buona fama e a chi soffre di  una cattiva reputazione, agli inclusi e agli scartati .

Noi ci rivolgiamo a Voi non perché siamo da più di voi, ma perché siamo Voi.

Noi vogliamo dare una rappresentanza a  tre soggetti ideali che ancora non l’hanno o l’hanno perduta, a tre  beni comuni  che tutti dovrebbero curare e difendere  in questi tempi di ferro, tre beni comuni che sono il “minimo sindacale” o il “minimo politico” da rivendicare per tutti:  Anzitutto la Pace, da cui tutto dipende, nella quale viviamo, speriamo e amiamo, una pace da istituire come ordinamento originario e sovrano come lo è stata finora la guerra; in secondo luogo la Terra, da salvare come madre comune di tutti;  e infine la Dignità da rispettare di ogni creatura.

Quanto alla PACE, tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finisce questa guerra in Europa, dunque è una seconda pace, ed è una bugia quella di chi dice di volere la seconda pace se non vuole e impedisce la prima.

Noi sappiamo invece che LA PACE DEL MONDO è politica, imperfetta e sempre a rischio. Essa è assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non  rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, implica prossimità e soccorso  nelle situazioni di distretta e di massimo rischio a tutti i popoli.

E sappiamo che l’antagonista alla pace non è semplicemente la guerra, ma è il sistema di guerra che ormai è diventato il vero sovrano e “padre di tutti”, tanto che comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. Noi infatti siamo in guerra, ma avete forse sentito che le Camere abbiano deliberato lo stato di guerra, secondo l’art. 78 della Costituzione? E forse Mattarella ha dichiarato lo stato di guerra, secondo l’art. 87 della Costituzione? E intanto la guerra d’Ucraina non riesce a finire, benché in essa entrambi i nemici già ne siano allo stesso tempo vincitori e sconfitti. Una vittoria l’ha avuta infatti l’Ucraina che è diventata la star del mondo, è stata adottata dalla NATO e, pur tributaria dell’Occidente, non ha perduto la sua sovranità. Ma ha vinto pure la Russia perché ha fronteggiato la NATO, non è stata ridotta alla condizione di paria, come Biden voleva, né è stata espulsa dal consorzio mondiale.

Tuttavia  la guerra ha anche inflitto alla Russia, all’Ucraina e all’America una severa sconfitta. Alla Russia perché con l’aggressione ha compromesso  il suo onore. All’Ucraina perché chi, governandola, la doveva difendere l’ha gettata in una fornace di fuoco ardente, le famiglie sono divise perché gli uomini sono trattenuti per combattere mentre in tutti i 72 distretti di reclutamento, come è stato rivelato,  la corruzione ha permesso a molti di sottrarsi alle armi e la controffensiva ucraina è fallita.  Ma sconfitta è stata anche l’America perché non ha raggiunto i suoi scopi, ha profuso miliardi che peseranno sul suo debito, mentre viene messo in gioco il monopolio del dollaro negli scambi  mondiali, la sua vera ricchezza, né essa potrà conseguire quel dominio globale che si riprometteva debellando la Russia per poi far guerra alla Cina. E a pagare le spese della guerra siamo anche noi, i veri corrotti e sconfitti nel giudicarla e darne conto.

Ma se già sono arrivare vittorie e sconfitte,  perché questa guerra non finisce? Non finisce perché la guerra d’Ucraina, così ben piantata nel cuore dell’Europa per rialzare la vecchia cortina sul falso confine tra Occidente ed Oriente, è funzionale o addirittura necessaria al sistema di guerra, e perciò gli stessi negoziati sono stati proibiti.

Dunque, prima di tutto la Pace. Il secondo bene da salvare è la TERRA. La terra è in pericolo, essa non è un patrimonio da sfruttare, un ecosistema da aggredire, ma la casa comune da custodire, da tornare a rendere abitabile per tutte le creature, da arricchire con i frutti del nostro lavoro e le opere del nostro ingegno. Essa è  oggi in attesa di una nuova nascita e soffre le doglie del parto.

Infine, il terzo assillo è LA DIGNITÀ, degli uomini, delle donne e di tutte le creature. La dignità da difendere è quella della libertà e della ragione, del lavoro e del tenore di vita, la dignità del migrante per diritto d’asilo e del profugo per ragioni economiche, del cittadino e dello straniero, dell’imputato e del carcerato, dell’affamato e del povero, del malato e del morente, della donna e dell’uomo e, nel loro ordine, di ogni altra creatura.

Dunque abbiamo tre beni da salvare, come i “tria bona” di cui parlano i monaci di Camaldoli, lì dove qualche giorno fa è andato il presidente della Repubblica per ricordare il “codice di Camaldoli”. Ma prima di tutto noi vogliamo la pace  e ciò che è oltre la pace, e lo chiediamo a chi gestisce il potere, anche ai partiti. Noi non neghiamo rispetto e stima ai partiti e alle loro personalità più eminenti, ma sappiamo che essi non possono affrontare la totalità delle sfide e che in quanto partiti non sono tali da farsi carico di tutte le parti della realtà.

Perciò senza ignorare i partiti, prendiamo partito. Il nostro è un PARTITO PRESO per la pace, la Terra e la dignità, e a queste vogliamo dare una rappresentanza, una presenza, in tutte le sedi.

Non aspiriamo alla stanza dei bottoni, ma la vorremmo più aperta e trasparente, non ci affascinano i Palazzi ma i Parlamenti. Vorremmo una scuola che non trasformi i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è[1], ma in padroni della parola, coscienti e cittadini. Amiamo i valori dell’Europa e dell’Occidente ma congiunti a quelli di ogni altra tradizione e visione,  non pretendiamo un mondo a nostra misura, tanto meno uniformato al modello di “democrazia, libertà e libera impresa”, che si è voluto esportare con le guerre umanitarie e per procura, consacrando così l’”economia che uccide” e la guerra che è incompatibile con la democrazia e che anche prima del nucleare devasta la Terra.  Non vogliamo il “decennio di competizione strategica” progettato in America fino alla “sfida culminante” con la Cina. Pensiamo a una comunità internazionale placata e garantita da un costituzionalismo mondiale. Resistiamo al dominio e rifiutiamo la lotta per l’egemonia. Nei confronti di quanti oggi lasciamo in balia del mare e che noi, da soli o con l’Unione Europea,  respingiamo o ”ricollochiamo” nei lager e nei deserti, non è alla “sostituzione etnica” che dovremmo imprecare, ma è piuttosto alla sostituzione etica della nostra idea di confini, di identità e di supremazia che dovremmo provvedere.

 

Il nostro è dunque un appello per dare vita a una grande

Assemblea permanente

il cui obiettivo sia una politica che prenda in mano il mondo non per farne un impero delle armi e del denaro ma per preservarlo e fare sì che la natura sia salva e che la storia continui.

un’Assemblea permanente per rovesciare il corso delle cose presentI e preparare un altro avvenire per l’Italia e per l’ Europa.

un’Assemblea in cui tutti parlino e tutti ascoltino, un’Assemblea che mandi suoi rappresentanti in tutti i luoghi delle decisioni, che partecipi a tutte le elezioni, che abbia eco nelle università, nelle scuole, nei palazzi del potere, e susciti nuovi pensieri e progetti alternativi così nelle riunioni dei partiti come perfino nell’Assemblea dell’ONU.

Si avvicinano le elezioni europee e risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa?”. Essa ha tradito le ragioni della sua unione abbandonando gli ideali per cui è nata, che è il patrimonio di quanti hanno resistito all’idea di Europa voluta da Hitler, fino al sacrificio dei maquis in Francia, dei partigiani in Italia, dei ghigliottinati e impiccati in Austria e in Germania.

È materia di discussione se e come questo soggetto politico nascente dovrà avere un suo ruolo nel confronto elettorale, in ogni caso lo dovrebbe fare non  vivendo le elezioni come una competizione all’ultimo voto, nella consueta logica dello scontro tra amico e nemico. Perché non dovrebbe essere possibile nella competizione elettorale muoversi come  Alexander Langer chiedeva per il confronto politico,  in modo “più lento, più profondo, più dolce”?  la si dovrebbe affrontare in effetti in modo inclusivo, cercando tutte le convergenze appropriate e avendo per obiettivo il cambiamento  dell’Europa, perché si faccia protagonista dello stabilimento della pace sulla Terra.

Questo cambiamento implica anche l’aggiornamento delle culture e dei linguaggi, l’abbandono degli stereotipi e delle parole  usurate, Bisognerà rovesciare le priorità, per essere credibili, bisognerà dire non “prima Noi” ma “prima gli ultimi”, perché se si salvano gli ultimi si salvano anche i primi, bisognerà dire che ogni straniero è cittadino,  che ogni patria straniera è nostra patria, e ogni patria è straniera. E dovremmo operare perché tutto ciò si faccia ordinamento con le sue Costituzioni, le sue leggi, le sue garanzie e le sue giurisdizioni per tutta la terra.

Infine vorrei citare un altro sogno, di David Maria Turoldo, un grande poeta e amico nostro, traendolo da una sua poesia dedicata a Rigoberta Menchù, un’india del Guatemala  che ha lottato per i diritti del suo popolo maya e delle altre minoranze oppresse, e per questo ha ricevuto nel 1992 il Premio Nobel per la pace. Rigoberta aveva raccontato questa storia in un libro intitolato “Mi Chiamo Rigoberta Menchù” e padre Turoldo le aveva dedicato una ballata dallo stesso titolo, prendendola a simbolo del riscatto  dei poveri e della lotta per la pace.  Io vorrei citare questa ballata cambiando semplicemente il nome di Rigoberta Menchù nel nome di Alan Kurdi, il bambino siriano di tre anni con la maglietta rossa, di etnia curda, che fu  trovato morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, dopo un naufragio che almeno quella volta commosse il mondo, un gommone che fu travolto e annegarono in molti, anche un suo fratello e la  mamma..  Questa famiglia, fuggita dalla guerra in Siria, non aveva ottenuto di poter emigrare in Canada, e per rifugiarsi in Europa aveva osato un tragico passaggio in mare; dunque il piccolo Alan con la maglietta rossa è un simbolo di tutti e tre i beni che abbiamo perduto o stiamo perdendo: la pace, la Terra, e la dignità delle persone, la dignità sia di quanti sono rifiutati e diventano residui umani nel mare, come pane spezzato che noi abbandoniamo ai pesci dicendo: “prendete e mangiate”, sia di chi li respinge e li scambia per denaro

Leggo da padre Turoldo:

Gente, uomini che non avete importanza

voi giovani che non sapete che fare

in cosa credere

anche voi ragazzi e ragazze di tutte le città

avanti che diciate

tutti  “non c’è  niente, non c’è niente

da fare, il Palazzo non farà mai

una crepa!”  ecco, non ridete

e neppure pensate che sia un delirio: invece

è un sogno, un lucido

e consapevole sogno

reale e possibile!

Prima leggete “Mi chiamo

Rigoberta Menchù”

(e qui possiamo dire mi chiamo Alan Kurdi). Poi

andate in giro per tutte le strade

portando solo la scritta “Mi chiamo

Alan Kurdi” o dicendo a tutti

appena questo, “Mi chiamo Alan”

tutti con cartelli alzati, a voce

a piena voce tutti a dire

per tutte le strade e sotto tutti

i Palazzi e le Case Bianche del mondo

e le Cattedrali e gli Episcopi

tutti a dire solo questo “Mi chiamo

Alan Kurdi”, appena

uno, prima, poi due, poi cinque

e cento e mille e migliaia

a gruppi, in coro, a gran voce

da riempire le piazze, da uccidere

ogni altro fragore e poi

Il silenzio, un grande

Improvviso silenzio che faccia

paura! E il grido dopo, da solo,

come un boato: “Mi chiamo

Alan Kurdi!”. Un boato

che mandi in frantumi almeno

i vetri del Palazzo, un urlo

che sovrasti perfino le voci

di tutti i predicatori. Così

 

A uno a uno, e insieme, a ondate

Ritmando solo il suo nome\

“Mi chiamo Alan Kurdi”

Insieme, tutti, cantando

quasi fosse una cascata di acque

un fiume fresco di suoni e acque

a lavare ogni immondizia

e ristorarci di ogni avvilimento

e che doni a tutti la gioia

dei mattini che sorgono, la gioia

alla terra di essere terra

e di fiorire ancora.

[1] http://www.costituenteterra.it/attualita-di-don-milani/

Continua...