giovedì 12 dicembre 2013

RISPONDERE AL PAPA


di Raniero La Valle           
                                                                                                                                           
   Gli risposero
  (Marco 8,28; Luca 24,19)
.
La Comunità San Francesco Saverio di Trento, il gruppo di credenti “Chiccodisenape” di Torino, la Comunità di San Paolo di Roma, la Scuola di antropologia “Vasti”, i gruppi di “Noi siamo Chiesa”, la Comunità di Sant’Angelo e il Laboratorio Sinodalità laicale LaSila di Milano, donne cattoliche e moltissimi altri gruppi e persone, per parlare solo dell’Italia, stanno preparando le risposte ad un questionario. Ma questa volta dovranno usare carta, busta e un francobollo, e spedire le risposte entro il 31 dicembre a Mons. Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi, c/o Segreteria del Sinodo, via della Conciliazione 34 - 00120 Città del Vaticano, perché si tratta di rispondere a tutte o ad alcune delle trentotto domande che il papa Francesco ha fatto rivolgere a tutta la Chiesa per prendere decisioni pastorali e teologiche su temi cruciali della famiglia e della condizione umana sulla terra. 

E’ una novità.
Fu Pio XII che per primo fece un timidissimo accenno a un’opinione pubblica nella Chiesa, alludendo a una qualche voce in capitolo dei fedeli, ma la cosa non ebbe alcun seguito. Arrivò poi il Concilio, e la parola la diede ai vescovi, ma poi fu tolta anche a loro: Paolo VI decise da solo sulla contraccezione e ne blindò il divieto nella “Humanae vitae”, e poi si inventò un Sinodo dei vescovi senza alcun potere, senza collegialità e con i dibattiti tenuti segreti, e riservati al buon uso del papa. Così per cinquant’anni la grande idea riformatrice del Concilio di una Chiesa identificata col popolo di Dio e governata dal papa e dai vescovi in comunione con lui è rimasta lettera morta, e non a caso la compagine cattolica è giunta alla crisi devastante che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI.
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giovedì 5 dicembre 2013

Un manifesto di economia democratica


Papa Francesco: dallo sfruttamento all’esclusione.
Pubblichiamo questo stralcio della lettera di papa Francesco “Evangelii Gaudium” del 24/11/2013 che potrebbe essere un manifesto di economia democratica.
I. Alcune sfide del mondo attuale
52. L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione. Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste. Aumentano alcune patologie. Il timore e la disperazione si impadroniscono del cuore di numerose persone, persino nei cosiddetti paesi ricchi. La gioia di vivere frequentemente si spegne, crescono la mancanza di rispetto e la violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. Bisogna lottare per vivere e, spesso, per vivere con poca dignità. Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo.
No a un’economia dell’esclusione
53. Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole.
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venerdì 22 novembre 2013

LA CHIESA DI FRANCESCO METTE IN QUESTIONE IL SISTEMA: E NOI?

di Raniero La Valle
“Era una cosa molto comune: uno che lavorava con i poveri era comunista… E anche se non è vero, sono già tutti convinti, è già scritto che i preti che lavorano con i poveri sono comunisti”. Queste parole fanno parte della deposizione che l’8 novembre 2010 il cardinale Jorge Mario Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires e oggi papa Francesco, fece alla Corte argentina che indagava sui crimini della dittatura militare. In particolare la Corte si stava occupando delle torture e dei delitti perpetrati nella Escuela superior de mecánica  de la Armada, la scuola degli ufficiali della Marina militare argentina a Buenos Aires, dove erano stati tenuti sotto sequestro e tormentati due religiosi della Compagnia di Gesù, della quale all’epoca dei fatti, nel 1977, Bergoglio era il padre provinciale.
In quell’interrogatorio, pubblicato ora nel libro di Nello Scavo, “La lista di Bergoglio, i salvati da Francesco durante la dittatura”, il cardinale di Buenos Aires spiegava che questa idea per la quale tutti i preti che operavano per i poveri sarebbero stati comunisti, era presente in Argentina anche prima dell’avvento del regime militare; né l’accusa di comunismo colpiva solo i cristiani che seguivano quel filone della “teologia della liberazione” che si diceva facesse ricorso a un’ermeneutica marxista: non era questa la posizione dei gesuiti perseguitati dal regime militare, secondo l’arcivescovo di Buenos Aires, né si poteva far risalire unicamente al Concilio Vaticano II il fatto che vi fossero preti particolarmente impegnati con i poveri, come i cosiddetti “curas villeros” (preti delle baraccopoli).  In realtà, diceva Bergoglio,

“la scelta dei poveri risale ai primi secoli del cristianesimo. È nello stesso Vangelo. Se io oggi leggessi come omelia alcuni dei sermoni dei primi Padri della Chiesa, del II-III secolo, su come si debbano trattare i poveri, direste che la mia omelia è da marxista o da trotzkista. La Chiesa ha sempre onorato la scelta di preferire i poveri. Considerava i poveri il tesoro della Chiesa. Durante la persecuzione del diacono Lorenzo che era amministratore della diocesi, quando gli chiesero di portare tutti i tesori della Chiesa, si presentò con una marea di poveri e disse: “Questi sono i tesori della Chiesa”[1]… Durante il Concilio Vaticano II si riformulò la definizione della Chiesa come popolo di Dio ed è da lì che questo concetto si rinforza e, nella seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Medellin, si trasforma nella forte identità dell’America Latina”.

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venerdì 15 novembre 2013

LA SVOLTA


di Raniero La Valle  

Fu Pio XII che per primo fece un timidissimo accenno a un’opinione pubblica nella Chiesa, alludendo a una qualche voce in capitolo dei fedeli, ma la cosa non ebbe alcun seguito. Arrivò poi il Concilio, e la parola la diede ai vescovi, ma poi fu tolta anche a loro: Paolo VI decise da solo sulla contraccezione e ne blindò il divieto nella “Humanae vitae”, e poi si inventò un Sinodo dei vescovi senza alcun potere, senza collegialità e con i dibattiti tenuti segreti, e riservati al buon uso del papa. Così per cinquant’anni la grande idea riformatrice del Concilio di una Chiesa identificata col popolo di Dio e governata dal papa e dai vescovi in comunione con lui è rimasta lettera morta, e non a caso la compagine cattolica è giunta alla crisi devastante che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI.
Ed ecco che ora riappare il popolo di Dio nella sua identificazione con la Chiesa, a lui sono rivolte 38 domande e si innesca un grandioso processo sinodale e collegiale  che dalla attuale consultazione dei fedeli (ma anche, se vogliono, degli infedeli) giungerà fino al Sinodo straordinario del 2014, dedicato ai problemi più urgenti, e a quello ordinario del 2015, in cui si prenderanno determinazioni pastorali ed evangeliche più mature e a lungo termine riguardanti cruciali problemi della vita umana sulla terra.
È la svolta che ci si aspettava da papa Francesco, dopo le grandi parole da lui dette nei primi sette mesi di pontificato, da cui già si poteva capire quale sarebbe stato il cammino. Come il Concilio, evento altrettanto innovatore, il processo sinodale e collegiale oggi avviato ha la finalità di un annuncio della fede in quei modi “che la nostra età esige” (un’età in cui è mutata l’autocomprensione dell’uomo), ma ha esteso la platea dei chiamati a prendere la parola per dire quali sono le esigenze che la nostra età pone alla fede.
Dal punto di vista teologico sono chiari i fondamenti di questa svolta: la fede trasmessa dagli apostoli è anche la fede degli uomini della “cerchia degli apostoli”, di cui parla il Concilio, ovvero la fede dei discepoli che attraverso una ininterrotta successione di secoli, tramandata e arricchita dalla universalità dei fedeli, è giunta fino a noi. È giusto quindi che ad essere interrogati sui problemi della sopravvivenza della fede nel nostro tempo non siano solo i successori degli apostoli ma anche i discepoli e, come destinatari dell’annuncio, anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Se se ne vuole trovare un indizio nelle precedenti esternazioni di papa Francesco, si può trovare nell’osservazione da lui fatta nelle omelie a Santa Marta, riguardo a quelle comunità cristiane del Giappone che nel XVII secolo, dopo la cacciata dei missionari stranieri, erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. “Ma quando dopo questo tempo sono tornati di nuovo altri missionari, hanno trovato tutte le comunità a posto: tutti battezzati, tutti catechizzati, tutti sposati in chiesa, e quelli che erano morti, tutti sepolti cristianamente. Non c’erano preti. E chi aveva fatto tutto questo? I semplici battezzati!”.
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lunedì 4 novembre 2013

DUE O TRE COSE


di Raniero La Valle

Nonostante il luogo comune secondo il quale un discorso laicamente corretto non dovrebbe mettere in relazione politica e religione, ci sono due o tre cose che vengono dalla Chiesa che sarebbero assai utili se venissero prese in considerazione anche dalla politica.
Una di queste è il valore salvifico delle dimissioni. Nessuno poteva immaginare che le dimissioni di Benedetto XVI si sarebbero rivelate così benefiche per la Chiesa; esse oltre a dimostrare la sapienza di Ratzinger che ha capito sia quando doveva prendere in mano il governo petrino sia quando doveva lasciarlo, hanno trasformato quello che appariva come un crepuscolo della Chiesa in una nuova promettente aurora.
Anche in politica c’è un tempo in cui un governo deve nascere, e un tempo in cui deve morire. In democrazia la fine di un governo non ha niente di drammatico, è del tutto fisiologico che un governo cada quando non è più utile o è addirittura dannoso; l’istituto della fiducia è una magnifica invenzione della democrazia e, al di là della sua tecnicalità parlamentare, dice che un governo vive di fiducia, e deve avere la fiducia non solo delle nomenclature, spesso del resto insincere, ma dei cittadini. Esso perciò non può galleggiare su una società sfiduciata né tanto meno voler durare a qualsiasi costo a scanso di chissà quali catastrofi.
La società italiana è oggi immersa nella più profonda sfiducia. Non che sia tutta colpa del governo, ma certo la crescente infelicità del Paese non trova nei palazzi del potere né lenimento e nemmeno vera accoglienza e comprensione. Dopo la manifestazione del 19 ottobre a Roma, dove era sfilata un’umanità dolente, non di “antagonisti”, ma di mamme con bambini, disoccupati, senza casa, disabili, immigrati; dopo la notizia che i poveri in Italia sono cinque milioni (e sempre più “poveri assoluti”); dopo che gli operai sardi licenziati sono tornati da un viaggio della speranza a Roma “senza niente in mano”, come moltissimi altri nelle loro stesse condizioni; dopo che ai figli non sappiamo più cosa dire, governare questo Paese dovrebbe essere sentito come la gestione di una tragedia; e neanche ai francesi, alla Sorbona, si dovrebbe dire che con la politica in Italia “ci si diverte sempre”.
Giustamente il presidente del Consiglio Letta aveva asserito che quando fossero venute meno le condizioni per un buon governo se ne sarebbe accorto per primo e gli avrebbe posto fine lui stesso. Il momento è venuto. Oggi il governo sta in piedi (di ventiquattrore in ventiquattrore) solo perché e finché Berlusconi lo considera utile a propria difesa; e il suo partito, mentre lo sostiene, si scatena contro tutto ciò che un governo costituzionale dovrebbe tutelare, affermando che non è uno Stato di diritto quello in cui le sentenze vengono eseguite, e che in Italia si dovrebbe ristabilire la democrazia “perduta” ripristinando Berlusconi come un sovrano impunito sovrastante la legge. E così dalla indecente alleanza di governo, imposta dai grillini, si irradia una cultura devastante, per cui i cittadini perderanno ogni cognizione del bene e del male per la Repubblica, e non avranno più la forza morale e politica per risollevarla, nè sapranno più per che santo votare.
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mercoledì 30 ottobre 2013

SE QUALCUNO CI LODA O CI INSULTA



[Papa Gregorio Magno] TESTI E MASIME DI GREGORIO MAGNO PAPA

"Quando qualcuno ci loda o ci insulta, dobbiamo confrontarci  sempre con la nostra coscienza (inter verba laudantium sive vituperantium ad mentem semper recurrendum est) in modo da rattristarci molto se in essa non troviamo il bene che ci viene riconosciuto  oppure da rallegrarci altrettanto se non troviamo in essa tracce del male che ci viene attribuito. Infatti a cosa può servire l'elogio degli altri  se la tua coscienza ti accusa (Quid enim, si omnes laudant et conscientia accusat)? E, d'altra parte, perché provare tristezza se la coscienza non accusa di nulla (aut quae debet esse tristitia, si omnes accusent et sola conscientia nos liberos demonstret)? . Paolo apostolo dice che <la nostra gloria è la testimonianza della nostra coscienza> (2Cor 1,12) e  Giobbe aveva detto: < il mio testimone sta in cielo> (Gb 16,20). Dunque se abbiamo in nostro favore il testimone del cielo e quello del cuore, perché preoccuparci tanto degli stolti? Che dicano pure fuori quel che vogliono (Si ergo est nobis testis in caelo, testis in corde, dimitte stultos foris loqui quod volunt)!... . Bisogna tuttavia dialogare con calma con i detrattori, dando loro soddisfazione in tutti i modi... Se però non vogliono e non sentono ragioni, ricordati della parola del Signore: <Lasciateli andare: sono ciechi, guide di altri ciechi> (Mt 15,14). Anche Paolo ammoniva dicendo: <Se è possibile, per quanto sta in voi, cercate di aver pace con tutti> (Rm 12,18)...Disse <se è possibile>, perché se noi, nonostante tutto, custodiamo in cuore l'amore verso chi ci odia, siamo certamente nella pace anche quando l'altro la rifiuta (etsi illi nobiscum pacem non habent, nos tamen cum illis sine dubio habemus)".

(Lettere XI, 1. Città Nuova Editrice, Roma 1999, pp.17-19).


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domenica 13 ottobre 2013

PRO E CONTRO PAPA FRANCESCO - Discorso tenuto a Bozzolo il 9 ottobre 2013 - A 50 anni dal Concilio. Quale Chiesa per il futuro?

di Raniero La Valle

La Chiesa del futuro che contiene in sé la Chiesa del passato è stata anticipata e vista da lontano da grandi cristiani come don Primo Mazzolari, che papa Giovanni chiamava “la tromba della Val Padana”. Questa Chiesa del futuro forse proprio in questi giorni sta prendendo forma, attraverso la novità di papa Francesco.
Molte parole e gesti di questi primi sette mesi di pontificato sembrano prefigurare infatti una Chiesa diversa, una Chiesa del futuro che passa attraverso una riforma del papato.
Il Concilio, di cui ricordiamo i cinquant’anni dall’inizio, aveva posto le basi di una riforma della Chiesa che implicava anche una riforma del papato, nel senso della sinodalità e collegialità. Ma dopo le anticipazioni di Giovanni XXIII e della “Pacem in terris”, che avevano mostrato la riformabilità del magistero pontificio rovesciando le posizioni ottocentesche di contrasto al mondo moderno, alla libertà di coscienza e alle scienze moderne, il papato ha resistito alla propria riforma, né il Concilio ha voluto forzare la mano, non volendo certo essere accusato di conciliarismo. La stessa riforma della Chiesa ha finito poi per ristagnare, mentre la ricezione del Concilio ha vissuto quarant’anni di deserto, nei quali esso ha rischiato di inaridirsi nel gioco delle contraddittorie ermeneutiche, della “continuità” o della “rottura”. Ma ecco che oggi si può dire che il Concilio Vaticano II si è riaperto, e si sono riaffacciate le grandi speranze del Novecento. Ma se al Concilio c’era una Chiesa che voleva riformare il papato, e che senza la volontà dei papi stessi non intendeva né poteva farlo, qui c’è ora il papato che riforma se stesso per riformare la Chiesa e per ridare al mondo il Vangelo.
Abbiamo parlato di “parole e gesti” di papa Francesco perché in lui gesto e parola sono una cosa sola; il Vangelo non è solo annunciato, è reso visibile, lo si fa toccare, come si faceva toccare Gesù, non restando a pregare in solitudine ma uscendo fuori della porta per andare ad abbracciare il corpo del fratello piagato, come Francesco ha fatto nel gesto più eloquente di tutti, la visita a quella tomba a cielo e a mare aperto che è diventata Lampedusa.
Si dice dai critici a proposito di questa capacità del papa di farsi vedere e sentire, che egli abbia una scaltrezza mediatica del tipo del “manager che si concede molto alla stampa” e che sostituisca le encicliche con le interviste mostrando un “postmoderno” di superficie[1]. Si tratta invece dell’ ”economia” della rivelazione: come dice la “Dei Verbum” del Concilio la rivelazione di Dio si manifesta attraverso eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, svelano le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
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lunedì 7 ottobre 2013

DALLA PACEM IN TERRIS A PAPA FRANCESCO


di Raniero La Valle _ Torino 5 ottobre 2013

 Quando comparve la “Pacem in Terris” la reazione generale fu quella di una grande meraviglia. E in verità c’erano molte cose nuove di cui meravigliarsi.
La prima era il fatto, che oggi sembra ovvio ma che allora era spiazzante per i cattolici e soprattutto per i vescovi abituali destinatari delle encicliche, che essa fosse rivolta a tutti gli uomini di buona volontà; ciò voleva dire che non solo si occupava di una cosa, la pace, che interessava tutti, ma che tutti erano chiamati a fare la pace; cioè l’umanità intera era il soggetto che veniva chiamato in causa per realizzarla sulla terra; in altre parole la pace non la fa la Chiesa, la fa il mondo.
L’altra ragione di meraviglia era che la guerra, fino ad allora giudicata dalla Chiesa tanto ragionevole da poter perfino essere considerata giusta, e in certi casi addirittura doverosa (come si pretenderà in seguito che fossero le “guerre umanitarie”), era definita dall’enciclica insensata, fuori della ragione,  e ciò in forza della vox populi prima ancora che per voce del papa.
C’era poi la meraviglia di lotte umane molto controverse, come quelle degli operai, delle donne, dei popoli soggiogati, che venivano innalzate al rango di segni dei tempi, cioè di fatti della storia che avevano a che fare con l’avvicinarsi del regno di Dio; e la stessa cosa avveniva di conquiste umane molto recenti e combattute, come l’ONU, le Costituzioni, lo Stato di diritto, considerati come segni, cioè come anticipazioni, del regno futuro.
C’era poi la meraviglia di un testo religioso che in prima istanza si preoccupava  non della propagazione della fede, ma dell’affermazione della dignità, termine che nell’enciclica ricorre più di trenta volte, più di quanto venga nominata la pace. E si trattava della dignità di ogni uomo, donna, popolo e nazione.
C’era poi la meraviglia di un’enciclica che si occupava della società ma non era un’enciclica sociale, non dava prescrizioni, ma era tutta fondata su un’antropologia positiva, persuasa del fatto che l’uomo, pur avendo peccato, fosse tuttora dotato di una integrità naturale  e che perciò, grazie alla loro stessa natura gli esseri umani, pur non animati dalla fede, fossero capaci di attuare cose buone in se stesse o riconducibili al bene, a cominciare proprio dalla pace.
E c’era poi la meraviglia di un testo del magistero che al primo posto metteva la libertà e affermava il primato della coscienza contro ogni potere, ponendosi così come il primo documento ecclesiale, dopo il Vangelo, che potesse considerarsi all’origine di una teologia della liberazione.

Il rovesciamento della “Mirari vos”

Ho fatto riferimento alla meraviglia provocata dall’enciclica, perché questo ci permette di introdurre un confronto con un’altra enciclica, uscita più di un secolo prima, che aveva anch’essa a che fare con la meraviglia. Anzi essa era casualmente intitolata alla meraviglia.
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IL GRANDE CENTRO


di Raniero La Valle
Almeno in questo la politica si è riscattata: accusata di essere incartocciata in se stessa e ormai priva di sorprese, e addirittura noiosa, il 2 ottobre ci ha fatto vivere una giornata ricca di suspence, di enigmi, di intrighi e di epici scontri con tanto di colpo di scena finale. Un fuoco d’artificio.
Ma questa è la sola soddisfazione che ci ha dato. Perché per il resto non ci è stato mostrato alcuno scenario esaltante né sembra migliorato il rapporto tra la politica e le speranze per il futuro del Paese e per le sue relazioni nel mondo.
È stata una giornata che, forse parlando un po’ sopra le righe, il premier Letta ha definito storica. Ma storica perché? Sarebbe difficile definire storica una giornata solo perché un governo che doveva cadere invece non cade. In genere i governi, soprattutto in Italia, interessano più i tempi fugaci della cronaca che quelli lunghi della storia.
Storica potrebbe essere definita piuttosto perché ha sostanzialmente chiuso un lungo ventennio, sancendo la fine politica di Berlusconi. Questa è arrivata con lo spettacolo del leader carismatico che in lacrime annunciava al Senato la fiducia a un governo che fino a dieci minuti prima aveva cercato strenuamente di far cadere.
Si è trattato di una piccola nemesi, prima di tutto perché l’eterno cavallo di battaglia di Berlusconi era stato che i suoi avversari, non riuscendo a liquidarlo per via politica, avevano cercato di eliminarlo per via giudiziaria: ed ecco che la liquidazione politica era arrivata, ma non per mano dei suoi avversari bensì per mano dei suoi seguaci e compagni di partito, e anche per sua stessa mano, avendo deciso e imposto, con le dimissioni dei suoi parlamentari e dei suoi ministri, una strategia politica fallimentare.
Ed è stata una nemesi perché mentre egli denunciava l’assassinio politico che con la decadenza da senatore si sarebbe perpetrato nei suoi confronti, si è procurato un suicidio politico spaccando il suo partito e mostrandosi al suo esercito di ammiratori non più come il capo indomito che anche da solo tiene il fronte in tutte le battaglie, ma come un re travicello che si fa dettare la linea e che al variare dei calcoli che gli interessano muta d’accento e cambia parole d’ordine e ordini.
Neanche per questo però la giornata parlamentare nella quale si è aperta nell’area moderata la partita della successione a Berlusconi, si può definire storica. Piuttosto l’enfasi di Enrico Letta si può collegare all’idea che, con una destra non più sotto sequestro nelle mani di Berlusconi,  si possa ora produrre una ristrutturazione di tutto il sistema politico italiano.
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domenica 29 settembre 2013

Alla settimana alfonsiana 26 settembre 2013 - “Oggi sarai con me in Paradiso”


di Raniero La Valle

“Oggi sarai con me in paradiso”, “Hodie mecum eris in paradiso”, Luca 23,43.
Da questo testo vorrei ricavare tre suggerimenti:
1) Il primo. Il testo dice: “sarai”, non “ritornerai”. Eppure sul tema del ritorno in paradiso è fiorita tutta una letteratura spirituale ed una predicazione religiosa.
Il ritorno al paradiso suppone che il paradiso stia nel passato: è il luogo che abbiamo perduto e al quale dobbiamo tornare. A questa idea corrisponde una precisa teologia: è la teologia della salvezza che sta nel passato, della terra promessa che è quella da cui siamo usciti, del Padre da cui ci saremmo allontanati e al quale dovremmo tornare.
E’ la teologia del reditus, del ritorno; non è la teologia della rivoluzione, e non è nemmeno la teologia della conservazione: è la teologia della restaurazione.

Il paradiso perduto

Essa suppone un ordine che stava nel passato, un ordine del cosmo che si è rotto. Le ragioni che si portano di questa rottura primordiale sono molteplici. La prima, avanzata dalla letteratura apocalittica ebraica dopo l’esilio a Babilonia, è che il mondo non era come Dio lo aveva voluto. La creazione gli era riuscita male, e doveva quindi essere rifatta da capo; oppure essa si era guastata a causa di una congiura di angeli che avevano sciupato l’opera di Dio, come ancora dice il catechismo della Chiesa cattolica, infaustamente promulgato nel 1992; l’altra ragione, avanzata dalla dottrina cristiana, è che questa catastrofe originale sarebbe avvenuta per colpa nostra. Questa colpa starebbe nel fatto che noi abbiamo compiuto un peccato così potente da sconvolgere tutto l’ordine del cosmo, la natura e la cultura, la terra e gli uomini di tutte le generazioni. Questa colpa sarebbe stata tale da offendere Dio con un’offesa infinita, tale da potere essere lavata solo col sangue di un Dio, e quindi col sangue del Figlio. Questo è quello che a partire da Anselmo da Aosta si tramandava nelle nostre teologie.
In questa visione pertanto il Paradiso stava prima della storia, prima del peccato originale, prima che l’uomo e la donna fossero cacciati dal giardino dell’Eden e condannati alla morte, al sudore del lavoro, ai pruni e alle spine della terra e ai parti con dolore. Era peraltro un paradiso molto precario, subito perduto, come se Cristo non ci fosse stato; ma ciò contraddice tutta la cristologia nicena, su cui è costruito il cristianesimo, secondo la quale Cristo redentore è coeterno al Padre, ed è all’opera fin dalla fondazione del mondo.
E infatti, come finalmente dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen Gentium”, Dio non cacciò nessuno dopo la caduta, ma intuitu Christi, in vista di Cristo Redentore, non abbandonò l’uomo e mai gli negò gli aiuti necessari alla salvezza.
L’idea del paradiso che sta nel passato e al quale, mondati, dovremo tornare, non è peraltro un’idea innocua, e per questo ne parliamo.
E’ infatti l’idea di una storia pensata all’indietro, che marcia in senso antiorario, è l’idea che la perfezione stava all’inizio, e che dopo la sua perdita non ci sono state che macerie, oppure, come diceva il papa Ratzinger felicemente ex regnante, ci sarebbe stato “un fiume sporco”, che è la storia. La perfezione dell’inizio, secondo questa concezione, sarebbe invece rimasta nell’ordine della natura, che perciò è considerato come immutabile, è concepito come sacro, e come tale portatore di principi non negoziabili, e fonte di un diritto di natura di cui la Chiesa sarebbe infallibile interprete e di cui dovrebbe farsi garante contro il diritto positivo e, secondo Ratzinger, contro la democrazia delle maggioranze.
Il paradiso però non è questo, e non si trova così. Il paradiso è proprio quello che distoglie dalla prigionia del passato e scompiglia questa concezione di una storia rivolta all’indietro.
Lo leggiamo nelle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, dove la storia è presentata sotto le vesti dell’Angelus Novus dipinto in un quadro di Klee. Questo Angelus Novus, che sarebbe l’angelo della storia, e perciò secondo questa allegoria sarebbe la storia stessa, ha gli occhi spalancati, le ali distese e il viso rivolto al passato. Ma nel passato egli vede solo catastrofi che accumulano senza tregua rovine su rovine e le rovesciano ai suoi piedi. L’angelo – cioè la storia – vorrebbe fermarsi a sanare le rovine e ricomporre l’infranto. Ma lì non c’è il paradiso. Dal paradiso invece, dice Benjamin, spira una tempesta che si è impigliata nelle sue ali ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ma lui se ne allontana, non ne è trattenuto. La tempesta che viene dal paradiso invece lo spinge avanti, spinge avanti la storia, il paradiso è più avanti, l’attrae verso di sé.

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martedì 24 settembre 2013

12 ottobre 2013: "Da Cossiga a JP Morgan, il lungo assedio alla Costituzione”. Intervista a Raniero La Valle

da Micromega, 23 settembre 2013


"I recenti attacchi alla Costituzione possono essere ricondotti ad una stagione cominciata più di venti anni fa, quando ci si affrettò a richiudere quella finestra di opportunità che si era aperta con la fine della guerra fredda. Oggi al mito della governabilità dobbiamo anteporre il valore della rappresentanza". 
Intervista a Raniero La Valle di Emilio Carnevali 

All'interno del “cattolicesimo democratico” italiano Raniero La Valle è una delle voci che con maggiore forza e passione si sono battute negli ultimi anni a difesa della Costituzione e contro i numerosi tentativi di modifica e manomissione via via succedutisi.
Come presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione la Valle è ancheintervenuto lo scorso 8 settembre a Roma all'assemblea convocata da Lorenza Carlassare, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. Ed è proprio da quell'incontro che siamo partiti per ragionare insieme della mobilitazione in vista del prossimo appuntamento del 12 ottobre.

Nel corso di quella relazione lei ha fatto un'affermazione abbastanza singolare. Gli attacchi alla Costituzione – ha detto in sostanza – non sono cominciati negli ultimi mesi e nemmeno negli ultimi anni. Risalgono al 1989...

Sì, il 1989 è naturalmente la data della caduta del muro di Berlino. Se volessimo esercitarci con una datazione ancora più precisa è possibile fare riferimento al 26 giugno 1991, il giorno in cui il presidente della Repubblica Cossiga inviò un ormai celebre messaggio alle Camere. Cossiga cominciava con il dichiarare ormai conclusa, con la fine del comunismo, la divisione del mondo in blocchi contrapposti. Con il tramonto di quell'assetto – era la sua tesi – anche la Costituzione approvata nel 1947 era destinata ad essere aggiornata e superata, perché non era più adeguata ai tempi.
Si trattava di un'affermazione molto strana, perché a dire la verità la nostra Costituzione precede l'effettiva deflagrazione della guerra fredda ed è anzi il frutto dell'incontro e della collaborazione molto stretta fra le culture democratiche, liberali e cristiane e quelle di estrazione socialista e marxista. 
La sua genesi, se mai, è da ricondursi ad un altro conflitto: la seconda guerra mondiale. All'indomani di quella tragedia il mondo si pose l'obiettivo di costruire assetti capaci di non farla più ripetere. Ecco allora la costituzione delle Nazioni Unite, seguita dalla dichiarazione universale dei diritti umani e dal vasto tentativo di dare forma a ordinamenti ispirati ad un'idea di convivenza pacifica e solidale (sia all'interno dei paesi, che a livello internazionale, con il rifiuto del colonialismo). 

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venerdì 20 settembre 2013

Guerra, politica e preghiera


di Raniero La Valle

Quando si muovono le flotte, si minacciano bombardamenti, si schierano i missili e ci sono di mezzo gli Stati Uniti e la Russia, c’è di mezzo una guerra mondiale. È la seconda volta che un papa ci si mette di traverso e (forse) riesce a evitarla. La prima volta fu con Giovanni XXIII, quando stava cominciando il Concilio, e il pomo della discordia era Cuba, e lui riuscì a salvare la pace. Ne venne poi fuori uno dei più straordinari documenti del magistero pontificio, la Pacem in terris, che riguardo alla guerra giusta, ai diritti, alla pari dignità della donna, alla libertà di coscienza, al costituzionalismo e all’ONU metteva la Chiesa in un luogo diverso da dove era sempre stata.
La seconda volta è ora con papa Francesco, quando siamo all’inizio del suo pontificato e il pomo della discordia è la Siria e lui è riuscito, finora, a fermare la guerra. Ne è anche venuta fuori una delle più alte azioni pastorali del ministero pontificio, la veglia di quattro ore dei centomila in piazza san Pietro, che riguardo al rapporto tra papa e popolo, tra parola e silenzio, tra devozione privata e liturgia pubblica e tra preghiera inerme e politica armata, ha dato alla Chiesa un’esperienza di fede quale forse non aveva mai avuto.
Non insistiamo sulle analogie dei due avvenimenti, anche se colpisce l’affinità, come cristiani, dei due interlocutori occidentali, Kennedy e Obama, la comune imprevedibilità dei due interlocutori russi, Krusciov e Putin, la simile povertà dei mezzi usati dai due papi, la radio papa Giovanni, una lettera papa Francesco, la stessa immediatezza del riscontro che hanno avuto i due interventi, la promessa del ritiro dei missili da Cuba, riguardo al primo, la promessa della consegna all’ONU delle armi chimiche in Siria, riguardo al secondo.
C’è piuttosto una novità da rilevare questa volta, ed è la concretezza politica dell’intervento di papa Bergoglio, che non ha evitato di entrare nel merito dello scontro, per destituire di senso la guerra sul piano della legittimità e dell’efficacia, dopo averla oppugnata sul piano umano e religioso.
I contenuti politici dell’iniziativa di papa Francesco, fuori dei momenti propriamente religiosi come l’Angelus, le omelie, la preghiera, si possono ricavare da diverse fonti.
La prima è naturalmente la lettera a Putin, come leader della Federazione russa e presidente del vertice di San Pietroburgo. In essa il papa denunciava gli “interessi di parte” che impediscono di trovare una soluzione che eviti “l’inutile massacro a cui stiamo assistendo”, e invitava i capi degli Stati del G20 a non rimanere inerti di fronte alle sofferenze della popolazione siriana e ad abbandonare “ogni vana pretesa di una soluzione militare”.
C’è poi la fonte del discorso fatto agli ambasciatori in Vaticano quella stessa mattina del 5 settembre dal Segretario per i Rapporti con gli Stati, mons. Dominique Mamberti, in cui alla condanna per l’impiego di armi chimiche negli attacchi del 21 agosto si accompagnava l’auspicio che si facesse chiarezza e fossero chiamati a rendere conto alla giustizia i responsabili, che dunque si supponeva non coincidessero col governo siriano. Inoltre il rappresentante della Santa Sede dichiarava assolutamente prioritario far cessare la violenza e indicava tre criteri per la soluzione del conflitto: 1) ripristinare il dialogo tra le parti e operare per la riconciliazione del popolo siriano; 2) preservare l’unità del Paese evitando la costituzione di zone diverse per le varie componenti della società; 3) garantire l’unità e l’integrità territoriale del Paese stabilendo nel principio di cittadinanza la pari dignità di tutti senza differenze di etnie o di religioni.
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lunedì 9 settembre 2013

Costituzione e democrazia hanno bisogno della proporzionale


Sulla base di un documento intitolato “La via maestra” (la Costituzione) firmato da Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelski, Lorenza Carlassare, don Luigi Ciotti e Maurizio Landini e promossa da molte Associazioni, si è tenuta l’8 settembre 2013 a Roma un’“assemblea aperta” intesa a promuovere movimento e iniziative per la difesa e l’attuazione della Costituzione. La partecipazione è stata molto numerosa, tanto che si sono dovute aprire tutte e tre le grandi sale del Centro Congresso di via Frentani. I lavori, presieduti da Sandra Bonsanti di “Libertà e giustizia”, sono stati impostati da una relazione di Stefano Rodotà e si sono conclusi con l’indizione di una grande assemblea popolare a Roma per il 12 ottobre.
Pubblichiamo qui l’intervento di Raniero La Valle, Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione, che sono tra i promotori e i partecipi di questa complessa azione collettiva.

Confermo la partecipazione dei Comitati Dossetti per la Costituzione a questa iniziativa e all’impegno collettivo per la Costituzione e la democrazia, oggi così gravemente insidiate e minacciate in Italia. La lotta comune dei movimenti della società civile a presidio della Costituzione è necessaria non solo per interpretare e promuovere la coscienza costituzionale del Paese, ma anche per svegliare il Parlamento che spesso si fa sorprendere senza neanche accorgersene da iniziative di cambiamento e sovvertimento costituzionale, come è avvenuto con la precipitosa modifica dell’art. 81 e ora con la legge di deroga all’art. 138. La meritoria reazione parlamentare manifestatasi in questi giorni soprattutto grazie al Movimento 5 stelle, è partita in luglio quando la legge era stata già approvata in prima lettura e con procedura d’urgenza dalla Prima Commissione del Senato; ma probabilmente questa mobilitazione non ci sarebbe stata se prima non ci fosse stata la manifestazione popolare del 2 maggio a Bologna, il documento del 2 maggio dei giuristi dei Comitati Dossetti contro la progettata Convenzione e il grido d’allarme del 10 giugno degli stessi Comitati contro “la legge grimaldello” di deroga all’art. 138 approvata dal governo Letta il 6 giugno.
Giustamente è stato detto che l’iniziativa comune di oggi è solo un inizio. E infatti quando si tratta di difendere i supremi valori costituzionali e ripristinare l’onore, come ha detto Lorenza Carlassare, bisogna sempre ricominciare di nuovo. Tuttavia la battaglia per la Costituzione non comincia ora: l’attacco che le è stato mosso è cominciato nel 1989, alla rimozione del Muro, quando quello era il momento costituente per un mondo nuovo, e invece è partita l’offensiva contro il costituzionalismo considerato incompatibile con il profitto e la nuova competizione globale. Visto il tempo che ci stanno mettendo per neutralizzare la Costituzione, si può dire che questa non è una guerra lampo, ma è forse la guerra dei trent’anni, e la nostra difesa della Costituzione non è una corsa ad ostacoli, ma è una lunga maratona con una staffetta che si trasmette da una generazione all’altra.
Intanto non ci sono riusciti ad abbatterla, e la Costituzione è ancora lì. Ieri sera a piazza San Pietro c’erano centomila persone, tutte unite da due cose: la prima era che tutti si opponevano alla guerra contro la Siria; e la seconda era un grande, lunghissimo, collettivo silenzio che risuonava come l’alternativa più radicale in questa società di rumore e vane parole. Tra le centomila persone c’era una bandiera con su scritto: art. 11. Ciò vuol dire che l’Italia era presente in quella piazza, non con i suoi governanti infedeli, ma con la sua Costituzione.
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venerdì 6 settembre 2013

LA PUNIZIONE


di Raniero La Valle
L’altra volta fu diverso. Gli Stati Uniti bombardavano il Vietnam, Nixon veniva a Roma per vantarsi del sostegno del papa, Paolo VI aveva scelto la neutralità e perciò non condannava la guerra americana. Fu allora che una numerosa schiera di cristiani delle comunità di base, freschi di Concilio, si misero in cammino verso piazza san Pietro per chiedere alla Chiesa di opporsi alla guerra e di togliere ogni alibi ai bombardamenti punitivi sul Vietnam del Nord. Ma arrivati al colonnato, trovarono la polizia italiana che impedì loro l’accesso alla piazza e li respinse. Questa volta invece è il papa che convoca a piazza San Pietro cristiani di base e di vertice, credenti di altre fedi e di nessuna fede per fermare l’offensiva aerea che gli Stati Uniti e la Francia hanno indetto contro la Siria, ancora una volta non offrendo al mondo arabo altro che la guerra.
Dunque il papato è cambiato, la Chiesa ha capito, così come l’aveva invitata a fare il cardinale Lercaro (ciò che non gli fu perdonato), che “la sua via non è la neutralità ma la profezia”: già con Giovanni Paolo II del resto la Chiesa cattolica aveva trovato il coraggio di rompere il fronte occidentale opponendosi all’aggressione alla Iugoslavia e ai due conflitti del Golfo.
Quella che non è cambiata, invece, è la cultura laica e profana sulla guerra, il suo ritornello politico: c’è una soglia – una “linea rossa” – oltre la quale  “bisogna fare qualcosa” e questo qualcosa è la guerra, essa del resto non serve a conquistare ma a punire, è un freno per i malvagi ed è un esorcisma contro le armi “cattive” volto a colpire le stesse vittime con armi altrettanto cattive.
È anche vero però che i moventi della guerra si sono fatti sempre meno persuasivi, sicché i guerrieri riluttanti hanno sentito il bisogno di chiedere l’avallo dei Parlamenti; quello inglese ha detto di no, il Congresso americano recalcitra e chiede che in ogni caso si faccia una guerra a termine, senza morti americani e senza soldati a terra, per non finire come in Afghanistan e in Iraq, il Parlamento italiano è stregato e non pensa che alla exit strategy di Berlusconi, ma in ogni caso il ministro della difesa digiuna anche lui per la pace e le basi italiane non sono promesse che in caso di un’autorizzazione dell’ONU, che per fortuna non arriva perché l’ONU, che a termini di statuto non ha alcun diritto di guerra, non ha dato alcun mandato a nessuno di bombardare la Siria.
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venerdì 30 agosto 2013

CONCILIO: UNA RIVOLUZIONE DA RIPRENDERE

di Raniero La Valle

“Aggiornamento” della Chiesa e riforma del papato

Assisi, 23 agosto 2013

Cari Amici,
dunque c’è una rivoluzione interrotta da riprendere. Non un sogno, perché un sogno interrotto è un incubo: si tratta di una rivoluzione. E se questo è il tema che dobbiamo sviluppare, vuol dire che questo deve essere un discorso programmatico. Come svegliare oggi questa rivoluzione? E dico oggi, “nun” come dice il greco di San Paolo,  perché di tempo ne abbiamo poco,  “nun”, ora, il tempo si è fatto breve[1].
Però qualcuno di voi potrebbe dire: che bisogno c’è oggi di darsi da fare per riprendere la rivoluzione del Concilio, dopo che per cinquant’anni non siamo riusciti a farla, e anzi il Concilio è stato imbalsamato e sepolto nei sarcofagi, magari anche sfarzosi, della Chiesa? Che bisogno c’è di correre oggi dietro alla rivoluzione del Concilio, quando ormai è esplosa un’altra rivoluzione, quella di papa Francesco, che addirittura mette sotto inchiesta lo IOR, apre ai divorziati risposati, si rifiuta di giudicare i gay, e dice che se la donna non potrà diventare prete perché ormai Giovanni Paolo II ha chiuso d’autorità la questione, tuttavia senza le donne le Chiese diventano sterili, e in ogni caso Maria era più importante degli apostoli e dei vescovi?
Se ragionassimo così, il Concilio ce lo potremmo anche scordare. Non guardate le cose antiche, ecco che io faccio una cosa nuova, sembra ancora una volta dire il Signore[2]. Del resto il Concilio già era sulla via dell’archiviazione. Esso sembrava ormai caduto dal cuore della Chiesa, ed era caduto non solo dal cuore della Chiesa che lo aveva avversato e combattuto fino a fare uno scisma per ottenerne la revoca, come avevano fatto i lefebvriani, ma anche era caduto dal cuore della Chiesa cosiddetta conciliare. Anche la Chiesa conciliare dava infatti il Concilio Vaticano II come esaurito, al punto da invocare un Concilio Vaticano III. Basta ricordare la lucida disperazione del cardinale Martini.
Il papa poi che c’era prima di Bergoglio era così poco convinto del Concilio, che per celebrarlo 50 anni dopo dal suo inizio non trovò di meglio che unire i due anniversari, i 50 anni dal Concilio e i vent’anni dalla pubblicazione del catechismo della Chiesa cattolica, ciò che voleva dire mettere la catechesi del Concilio nella scansia dei catechismi papali e rovesciare l’autorità delle fonti facendo del catechismo il vaglio del Concilio, invece di fare del Concilio lo scrigno da cui far scaturire il catechismo, come peraltro è avvenuto almeno per il catechismo della Chiesa italiana.
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giovedì 18 luglio 2013

Dal foglio e dalla matita

di Raniero La Valle
Se l'Italia è ancora un Paese normale, se la magistratura non è politicizzata, se la Cassazione non è più quel "porto delle nebbie" che fu durante il regime democristiano e se la legge è uguale per tutti, il 30 luglio la Suprema Corte confermerà il verdetto pronunciato nei primi due gradi di giudizio contro Berlusconi. Non che la Cassazione condanni Berlusconi: essa dirà che il suo processo è stato regolare, che i suoi giudici sono stati fedeli al diritto. Non ci sarebbe nulla di strano e sconvolgente: è quello che la Cassazione fa in una miriade di altri casi, e l'argomento che questa volta il reo può vantare otto milioni di voti (che del resto non sono suoi ma della destra), non è un argomento migliore di quello per cui Mussolini poteva contare su otto milioni di baionette per vincere la sua personale guerra contro le grandi democrazie.
Dunque se questa ipotesi si avvera, con la sentenza della Cassazione passerà  in giudicato il fatto che quel capo politico che aveva promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani, ha loro sottratto milioni di euro di tasse trafugate, e quel che è peggio -sul piano non giudiziario ma politico - dopo vent'anni della sua cura li lascia non solo spogliati e impoveriti, e con un debito pubblico giunto a 2074 miliardi, ma anche frastornati e incapaci di reagire.
Sarebbe, questa, la fine politica di Berlusconi, causata non dalla magistratura (che non crea i fatti, ma li rivela e ne "dice" il diritto, onde il nome di "giurisdizione"), ma causata da lui stesso, dalla sua sconfitta politica finalmente non graziata da mani amiche e non scongiurata da una profusione di denaro privato e pubblico, speso in corruzione  di giudici, di senatori, di personale politico e di cittadini elettori cui è stata più volte promessa la Caporetto del fisco in cambio dei voti (e il governo è ancora fermo lì, impiccato a un'IMU che non può né "restituire " né "superare").
È chiaro che questa fine politica di Berlusconi ci sarà fatta pagare, con scenate e pantomime di cui la recente vita politica italiana non è avara.
Ma sarà bene non indugiarvi troppo e passare subito all'opera più necessaria dopo il disastro: la ricostruzione. Non c'è da illudersi che sia facile, né si può pensare  che basti mettere mano al restauro della facciata della politica. Occorre ripartire dalle fondamenta, perché i guasti sono stati profondi. Istituzioni, partiti, fisco, culture, linguaggi, modelli etici, obblighi di verità, abitudini di rispetto reciproco e di convivenza, tutto è stato travolto da un imbarbarimento della lotta politica venduto come bipolarismo, dall'innalzamento del potere a unico altare, dalla divisione della società tra privilegiati ed esuberi, dalla globalizzazione della diseguaglianza prima ancora che dell'indifferenza.   
Si teme che il governo Letta non possa sopravvivere alla crisi; in realtà il suo venir meno sarebbe il primo passo della ricostruzione, che non può non partire dal ripudio di alleanze incestuose e dall'interruzione di quella congiura contro l'ordinamento costituzionale che ha già ottenuto il primo voto al Senato nel silenzio del Paese.
Ripartire dai fondamenti vuol dire prendere in mano un foglio una matita e un libro, come  Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana ferita dai Talebani perché andava a scuola, ha avuto il coraggio di dire rivendicando nella sede dell'ONU il diritto universale all'alfabetizzazione. Per noi ripartire da matita e libro vuol dire prendere in mano la Costituzione, perché è questa l'alfabetizzazione che ci manca. C'è anzi un analfabetismo di ritorno, perché nei giovani anni della nostra Repubblica la Costituzione è stata il sogno di una cosa, e insieme la grammatica per la realizzazione di quel sogno e di quella cosa. Perciò essa è stata odiata e combattuta dalla Trilaterale, dalla P 2, dalle agenzie di rating ed è oggi tenuta in forte sospetto dai poteri che coniano l'Euro, dalla Morgan e dai partiti, di ogni tradizione, divenuti funzionari della Ragione economica e della dittatura del tabulato. E a neutralizzare le nostre difese, ci sono piombati addosso i corsi di analfabetismo fondati sull'orrore per le "ideologie", ossia per le idee, sul rifiuto delle dottrine politiche, e ci sono state imposte le scuole serali delle TV (non solo quelle commerciali) con la falsa par condicio e i talk show e le tavole rotonde dove tutti hanno ragione e tutti hanno torto, ma il vero persuasore e "dominus"ideologico è il conduttore e l'editore che gli sta dietro.
Ripartire dal libro e dalla matita vuol dire ripartire dalla Costituzione e dai diritti, dal religioso rispetto per l'avversario, dal culto della politica esercitata "con disciplina ed onore", dalla conversione della mentalità e della cultura della polizia, il settore pubblico più esposto alla contaminazione del fascismo, dalla interdizione della tortura, delle espulsioni, dei respingimenti e dell'ergastolo, e da una restituzione a tutti del diritto e della gioia di guadagnarsi il pane col lavoro e di non pagare il prezzo della moneta scarsa, che per decisione politica dei grandi poteri sottrae ai cittadini la giusta partecipazione alla ricchezza della nazione.

                           Raniero La Valle
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lunedì 8 luglio 2013

LAMPEDUSA


di Raniero La Valle

Non era affatto facile andare a Lampedusa. L’aveva detto qualche giorno prima papa Francesco in un’omelia a Santa Marta, parlando dei modi per raggiungere Dio: non serve un corso di aggiornamento, aveva detto, “per toccare il Dio vivo bisogna uscire per la strada, andando a cercare, a trovare, ad accostarsi alle piaghe di chi è povero, debole, emarginato. Una cosa non semplice, né naturale”.
No, non era semplice, né naturale, come primo viaggio fuori diocesi prendere la strada del mare, solcare con i pescatori quelle acque divenute tomba dei poveri, spargervi i fiori della pietà, sbarcare al molo Favarolo, incontrare quei migranti, quei superstiti che per molti non dovrebbero nemmeno esistere: per le leggi dello Stato italiano, gestite da quel ministro degli interni che voleva andare a pavoneggiarsi a Lampedusa accanto al papa, si tratta di “clandestini”, contro cui è in corso “una lotta”, per gestire la quale è stata creata apposta una “direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera”; si tratta di gente che viene ad arenarsi sul bagnasciuga di quell’ultimo lembo di terra su cui l’Europa è attestata per difendere il suo privilegio, si tratta di profughi, del popolo delle barche, di disperati che fuggono i tormenti dei loro Paesi, che si affidano al ricatto dei battellieri, che si aggrappano a un gommone, e che se sopravvivono sono salvati per essere tradotti in quei campi di detenzione che prima abbiamo chiamato “centri di permanenza temporanea” e poi, con la chiarezza tipica del linguaggio della Lega, “centri di identificazione e di espulsione”: i respingimenti, altro che andare a baciare le piaghe del povero.
Perciò ha fatto bene il papa a non volere né governo, né ammiragli, né altre autorità  a far da corona alla sua trasferta; non solo perché i viaggi papali devono tornare ad essere visite pastorali di un vescovo, e non visite di Stato e vetrine di potenti, ma anche perché noi e il nostro Stato non siamo innocenti di quelle vittime e di quelle piaghe.
Ma che sta facendo il papa? Sta cambiando il papato e di conseguenza, data l’invasività di questa istituzione, sta cambiando la Chiesa, prima ancora di metter mano alla sua riforma. E lo fa rendendo visibile il Vangelo; questa è la sua specificità o, se si vuole, il suo carisma; altri predicano il Vangelo, ne fanno l’esegesi; quello che fa Francesco è che il Vangelo ce lo fa vedere. Ce lo fa vedere a Roma, ce lo fa vedere a Lampedusa. Non è una novità, anche Gesù faceva così, e se uno era cieco, ecco che lo guariva perché vedesse anche lui. Ma nello stesso tempo quella che fa Francesco è una cosa modernissima: ha capito che la parola da sola non crea l’evento, è il gesto che porta la parola; l’icona non parla, ma rivela, il mezzo è il messaggio. Del resto proprio questo è lo statuto, “l’economia della rivelazione”, come la chiama la Costituzione “Dei Verbum”del Concilio: essa comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che gli eventi, operati da Dio nella storia della salvezza, manifestano e confermano le parole, mentre le parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
I “gesti” così ammirati di papa Francesco, da quel suo primo apparire senza orpelli e senza insegne al balcone di San Pietro, non sono le immagini del cambiamento, e le parole non ne sono la didascalia: sono essi il cambiamento, ne sono la teologia. Quando il papa dice, in quell’omelia a Santa Marta, che il Dio cristiano non possiamo trovarlo attraverso la strada della meditazione, e di una sempre più alta meditazione, e che anzi molti “si sono persi” in quel cammino; e nemmeno lo possono trovare quelli che per arrivarci pensano di essere “mortificati, austeri, e hanno scelto la strada della penitenza, del digiuno”; e nemmeno lo si trova facendo una fondazione filantropica, ma arrivi a Dio se trovi le piaghe di Gesù nel corpo – e sottolinea “il corpo” – “del tuo fratello piagato, perché ha fame, perché ha sete, perché è nudo, perché è umiliato, perché è schiavo, perché è in carcere, perché è in ospedale”o, possiamo ora aggiungere, perché sta nei “centri di espulsione” di Trapani o di Brindisi, papa Francesco trascende la legge dell’etica, della perfezione, della mortificazione, e rende visibile la fede.
Non a caso, nei giorni stessi in cui preparava il viaggio a Lampedusa, papa Bergoglio riprendeva l’eredità dell’enciclica sulla fede che aveva preparato Benedetto XVI, e la pubblicava col suo nome, in una nuova sintesi di cui è difficile dire che cosa sia di Benedetto che cosa sia di Francesco. Di certo la fede che balza fuori da questa enciclica non è la fede passata attraverso la glaciazione dell’ellenismo, ma è la fede del Concilio, inteso finalmente come “un Concilio sulla fede”, è la fede che non è solo professione di una verità, la quale da sola “diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona”, ma è inseparabile dall’amore; è una fede che “non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro” e non guarda solo alla città futura, ma anche all’edificazione, alla preparazione “di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri”, dove si costruiscano la giustizia, il diritto e la pace. Anche a Lampedusa? Sì, se si crede, con l’enciclica, che “il Dio affidabile dona agli uomini una città affidabile”.
  Raniero La Valle

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giovedì 27 giugno 2013

La vera relazione al d.d.l.

di Raniero La Valle

È in corso un attacco alla Repubblica e alla Costituzione; non parlo del precipitare verso il presidenzialismo che è di tutto il PDL, degli ex fascisti e di una parte consistente anche del Partito democratico: questo si discuterà quando si entrerà nel merito delle riforme costituzionali. Parlo della legge costituzionale che detta nuove e fantasiose procedure per la modifica della Costituzione, che il governo Letta d'accordo con Napolitano ha purtroppo presentato come uno dei punti fondamentali del suo programma e che, con arbitraria procedura d'urgenza, è in questo momento in discussione al Senato. Tale legge non è una legge che direttamente modifica la Costituzione, ma la "deroga", in quanto prescrive una procedura non costituzionale per la revisione costituzionale; è una legge di modifica che sarà la madre di tutte le modifiche e che perciò giustamente dai Comitati  Dossetti è stata chiamata "legge grimaldello".
Si tratta infatti dell'arma che mancava per le agognate riforme della Seconda parte della Costituzione, la quale, finora, grazie agli strumenti di garanzia che la presidiano, ha resistito a tutti i venti e le maree. Il grimaldello sta per l'appunto nel disegno di legge costituzionale che, accantonando l'art. 138 della Carta che la protegge, scardina le porte d'ingresso della revisione costituzionale e mette la Costituzione, resa in tal modo "flessibile" da rigida che è, alla mercé dell'attuale maggioranza parlamentare, innaturale e iconoclasta; e nello stesso tempo impedisce che si facciano, rispettando le regole, le vere e puntuali riforme che sono opportune e coerenti (a cominciare dalla differenziazione del bicameralismo, con la novità di un Senato della Repubblica e delle autonomie).
La battaglia per far fallire questa legge interrompendone l'iter parlamentare, è dunque la battaglia estiva da fare, e la più urgente. La normativa che sancisce la deroga dovrebbe essere infatti approvata in seconda lettura (trattandosi di una legge costituzionale) tra l'ottobre e il novembre prossimi, e il tempo è poco  perché si tratta di convincere il Parlamento a far cadere la legge, o almeno a non approvarla con la maggioranza dei due terzi, ciò che permetterebbe il ricorso al referendum popolare per una sua conferma o bocciatura.
Il tempo è poco anche perché in questi mesi, prima che la legge grimaldello vada in vigore, bisognerebbe modificare la legge elettorale "Porcellum"; dopo non sarà più possibile perché la riforma elettorale entrerà nel pacchetto delle riforme costituzionali e quindi se ne parlerà tra due anni, e nel frattempo il "Porcellum"sarà blindato come immodificabile, sicché o non si potranno sciogliere le Camere o si dovrà votare ancora una volta con la legge vigente, che ci ha procurato i Parlamenti deformi che sappiamo.
Ma perché questo accanimento per cambiare la Costituzione, che giunge fino al tradimento dei principi e delle regole su cui essa è fondata?
Il governo, che si è autoproclamato dominus e arbitro della riforma costituzionale, ha presentato al Senato una relazione che accompagna il disegno di legge grimaldello, dicendone tutto il bene possibile.
Ma la vera relazione, negli stessi giorni, è quella che si ricava da un documento della Jp Morgan, la famosa banca d'affari americana che ha così grandi responsabilità nelle speculazioni che innescarono nel 2008 la crisi mondiale. Per quanto la si possa accusare di avventatezza, la Morgan di capitalismo se ne intende. E in un documento del 28 maggio scorso ha scritto, nero su bianco, che la colpa del dissesto economico europeo è delle Costituzioni nate dopo la caduta delle dittature, e "rimaste segnate da quell'esperienza": insomma delle Costituzioni antifasciste. Esse mostrerebbero una forte influenza delle "idee socialiste" (l'apporto dei cattolici e dei liberali è ignorato) ragion per cui è oggi difficile applicare le misure di austerità; infatti a causa di quelle Costituzioni i Parlamenti sono troppo forti nei confronti dei governi, le regioni troppo influenti sui poteri centrali, ci sono le tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori e - addirittura! - c'è "la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo".
Già si era detto che la convinzione dominante a Bruxelles e a Francoforte (cioè nella Banca e nelle istituzioni europee e nella Banca tedesca) fosse che per affrontare la concorrenza internazionale si dovrebbero abbandonare "molte delle conquiste della civiltà europea degli ultimi cinquant'anni", ed ecco che i banchieri americani danno il nome a queste conquiste da cancellare: sono le Costituzioni.
in Italia si sta provvedendo. Glielo lasceremo fare?

                                                                                      Raniero La Valle 
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mercoledì 19 giugno 2013

LA FEDE CHE I NOSTRI TEMPI RICHIEDONO


Raniero La Valle: la mia rilettura del Concilio

Relazione tenuta il 17 maggio 2013 nella Biblioteca di San Gregorio al Celio

Per la prima volta riprendo la parola dopo una convalescenza, e non so se ancora ne sarò adesso capace.  Se no, vorrete scusarmi.
Per parlare del Concilio, come del resto di qualsiasi altra cosa, bisogna prima di tutto aver chiaro qual è il luogo da cui si parla; perché il luogo determina anche la qualità del discorso.
Noi ne parliamo da San Gregorio, che è stato precisamente uno dei luoghi del Concilio. Il Concilio non si svolgeva infatti solo in San Pietro, ma era sparso per tutta la città; e anche la gratia loci del Concilio non era solo quella che si sprigionava dalla Basilica Vaticana, ma quella che scaturiva da molti altri luoghi di Roma e del mondo; e uno di questi luoghi era San Gregorio; c'era una gratia loci di San Gregorio a partire da Padre Benedetto, da don Dossetti e dai vescovi che lo frequentavano, e don Innocenzo se lo ricorda.
Allora per ritrovare in questo luogo la grazia del Concilio dopo cinquant'anni,  io vorrei partire da una delle ultime massime di San Gregorio Magno, che don Innocenzo ci trasmette con così fedele cura attraverso il blog intitolato a papa Gregorio, di cui vorrei qui ringraziarlo.
Questa massima tratta dalle Omelie sui Vangeli”, giuntaci qualche giorno fa, dice: otiosus est sermo docentis, si praebére non valet incendium amoris; cioè “la parola di chi insegna è sprecata se non innesca in chi ascolta l’incendio dell’amore".
Che significa questo?
Significa che è inutile parlare del Concilio se questo non accende in noi l’amore; e soprattutto che non si può parlare del Concilio se non se ne parla con amore.
Ora però proprio qui c’è una delle più grandi difficoltà riguardo al Concilio. Il Concilio è stato un grandissimo atto di amore, di Dio, della Chiesa, di papa Giovanni, e anche dei vescovi e dei periti che si azzuffavano per far prevalere una tesi o un’altra, naturalmente sempre per il maggior bene di Dio e della Chiesa.
Ma poi la ricezione del Concilio è stata una ricezione senza amore. E’ stata una ricezione nella paura, come se si fosse messo in movimento un meccanismo che non si riusciva più a controllare, come è accaduto con la riforma liturgica, che è stata bloccata; è stata una ricezione nella reticenza e nella censura, perché ci furono delle cose di cui definitivamente non si doveva parlare, il celibato dei preti, il sacerdozio delle donne, il diaconato femminile, il controllo delle nascite; è stata una ricezione per alcuni nel risentimento e nella ribellione, come clamorosamente è avvenuto con Lefebvre e più discretamente con tutti i lefebvriani nascosti nella Chiesa, il cui numero veniva intanto sistematicamente accresciuto ad ogni infornata di nuovi vescovi o cardinali; è stata una ricezione restauratrice tendente a ripristinare lo stato di cose passate, come se il Concilio non ci fosse stato; questa restaurazione non è riuscita per esempio quando si è tentato di inumare la Chiesa del Concilio nel sarcofago giuridicistico di una Lex Ecclesiae fundamentalis in cui si voleva ridurre in formule normative tutto il Concilio - quella restaurazione Bologna e San Gregorio riuscirono a sventarla, informandone e allertando, con un grande movimento di comunione, tutta la Chiesa – però  è riuscita in molteplici altri campi: nella controriforma liturgica dopo la liquidazione di Lercaro e Bugnini, nello svuotamento della collegialità finita nella fiction del Sinodo dei vescovi, nel rilancio del papa come vescovo universale e epitome della Chiesa attraverso i grandi viaggi epocali e la bolla mediatica creata attorno a Giovanni Paolo II; restaurazione è stata anche  la revoca alle Chiese protestanti della qualifica di Chiese sorelle operata dalla Congregazione di Ratzinger, e la comunione ristabilita con i vescovi scismatici di Lefebvre.
Quanto al rapporto con le grandi religioni dell’umanità, dopo l’apertura del primo incontro interreligioso di Assisi, è stata una restaurazione il secondo incontro celebrato apparentemente allo stesso modo vent’anni dopo, ma con la riserva che ciascuno chiuso nella propria stanza a una data ora pregasse separatamente il proprio Dio.
Inserita in questo discorso accidentato, la ricezione del Concilio è stata sbattuta tra negazioni e nostalgie, tra involuzioni e fughe in avanti, tra calcoli e rassegnazioni; tutto, fuorché  l’amore.
Io credo, tuttavia, che l’amore acceso dal Concilio abbia continuato a correre incoercibile nelle vene segrete della Chiesa, nelle missioni, nelle nuove teologie, nelle nuove forme di volontariato e di vita cristiana, nel rinnovamento del monachesimo, ma a livello di Chiesa intesa come nomenclatura, come struttura gerarchica, cioè a livello di quella Chiesa che è descritta al cap. III della Lumen Gentium, quella Chiesa che sta al terzo posto dopo la Chiesa come mistero e dopo la Chiesa come popolo di Dio, insomma al livello di quella Chiesa che è raccontata dai media, il Concilio è stato vissuto come un segno di contraddizione, come qualcosa con cui fare i conti, non come qualcosa da amare. I papi che hanno ereditato il Concilio magari lo hanno adottato con lealtà, ma senza amore.
Paolo VI pensò addirittura che il diavolo ci si fosse messo di mezzo. Ha detto il 29 giugno 1972 nel giorno solennissimo di San Pietro, che mentre si era creduto che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa, era “venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza”.
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giovedì 13 giugno 2013

SOLO MISERICORDIA


di Raniero La Valle

Finalmente abbiamo un pastore che invece di parlare di principi non negoziabili (con cui non si mangia, direbbe Berlusconi) o condannare "comportamenti devianti" (ciò che già non gli perdonano), ci dà una buona notizia, una buonissima notizia. Quel pastore è il papa Francesco, e la buona notizia, l' "evangelo", è che Dio è misericordia.
Questa di per sé è una buona notizia, ma non sensazionale, perché è di dominio comune, almeno nel cristianesimo, che Dio sia misericordioso. La straordinarietà della notizia consiste nel fatto che Dio è "solo misericordia". E questa non è affatto una convinzione comune, anzi è rarissima, e c'è moltissima gente che all'idea di un Dio giustiziere, punitivo, vendicativo, che arriva a colpire inesorabilmente anche quei malvagi che a noi sfuggono, non vuole rinunziare.
Papa Francesco dice invece che Dio è solo misericordia, e che "perdona sempre". Non vorrei citare i discorsi specifici in cui egli ha fatto questa affermazione, sia che l'abbia fatta nelle straordinarie omelie mattutine di Santa Marta (nelle quali fa pensare allo stile delle "Omelie sui Vangeli" di San Gregorio Magno), sia che l'abbia fatta in  altre occasioni, perché in realtà questo annuncio del Dio che perdona è presente sempre nel suo magistero. Potrei citare in particolare l'Angelus della domenica dedicata al cuore di Gesù, nel quale l'invito all'immensa folla a credere che Dio ci perdona sempre, sempre, e lo fa per amore, era particolarmente insistente e accorato.
Cosa, appunto, singolare. Perché senza dubbio questa idea di un Dio che è solo misericordia sta nella tradizione sia ebraica che cristiana, ma è pochissimo frequentata, mentre prevale l'idea di un Dio che giudica, e poi perdona, ma anche punisce e condanna in questa vita e nell'altra. Il giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina pesa come una cappa di piombo sulla nostra fede, e l'inferno di Dante è ormai padrone del nostro immaginario religioso.
Si respira quando ci si imbatte in un Talmud babilonese (uno scritto ebraico del XII secolo), in cui si dice che quando il mondo è messo male per le sue colpe, "Dio si alza dal trono della giustizia e si siede sul trono della misericordia". Sui "due troni" si ricorda una bellissima omelia di padre Balducci alla Badia Fiesolana. La stessa idea della "sola" misericordia, che è essa stessa giustizia, percorre una "corrente calda" del cristianesimo d'Occidente e d'Oriente, di cui Isacco di Ninive, almeno a mia conoscenza, è una delle massime espressioni.
Che ora questa certezza venga tranquillamente e ripetutamente predicata dal Papa, nella misura in cui non si riduca a una pia iperbole ma se ne riconosca lo spessore teologico, è un evento per la fede degli uomini e delle donne del nostro tempo. Lo è perché certamente il Dio raccontato dal Concilio Vaticano II era così, ma così non era il Dio permaloso che era annunciato, anche nelle preghiere della Messa, prima del Concilio: un Dio offeso, che doveva essere "placato", doveva essere "soddisfatto", e aveva voluto essere risarcito col sacrificio del Figlio, che proprio per questo, "discendendo dai cieli", sarebbe stato mandato a morire sulla croce. Ed è straordinario l'annuncio del Dio di sola misericordia di papa Francesco, perché neanche dopo il Concilio il Dio annunziato dalla Chiesa è così, non è così il Dio del catechismo della Chiesa cattolica, che è ancora quello che ha cacciato gli uomini dal giardino dell'Eden infliggendo loro una quantità di deprivazioni e di dolori a causa di un peccato ancora chiamato "originale".
Dunque questo è un evento, ed è una festa. Allora ricominciamo ad annunciare la fede da qui, e le chiese, e forse anche i seminari, torneranno a riempirsi, come si riempie la piazza San Pietro.
Naturalmente resta un problema. Se Dio non giudica alla maniera umana, chi giudicherà e tratterrá i malvagi dalle loro nequizie, e non li lascerà "impuniti"? È evidente che ciò toccherà alla giustizia degli uomini, che perciò è tra le più alte, e decisive e difficili delle incombenze umane e dei poteri pubblici. La storia della giustizia lo dimostra, con i suoi orrori (compresa l'Inquisizione) e con le sue straordinarie illuminazioni e conquiste degli ultimi secoli nel tempo del costituzionalismo.
Ma come fare giustizia? Se non ha a che fare con la giustizia di Dio essa però, nella sua diversità laica, non deve porsi in contraddizione con la giustizia e la misericordia di Dio, il quale sempre resta il modello da imitare. Perciò la giustizia umana dovrà comunque essere intrisa di carità, mirare non alla distruzione ma alla "rieducazione" del colpevole, non ammettere torture e "trattamenti contrari al senso di umanità", proprio come dice la nostra oggi oltraggiata Costituzione, non compiacersi della prigione, aborrire la pena di morte.
Ma siamo appena all'aurora.
                                                             Raniero La Valle
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