di Raniero La Valle
Fu Pio XII che per primo fece un
timidissimo accenno a un’opinione pubblica nella Chiesa, alludendo a una
qualche voce in capitolo dei fedeli, ma la cosa non ebbe alcun seguito. Arrivò
poi il Concilio, e la parola la diede ai vescovi, ma poi fu tolta anche a loro:
Paolo VI decise da solo sulla contraccezione e ne blindò il divieto nella “Humanae vitae”, e poi si inventò un
Sinodo dei vescovi senza alcun potere, senza collegialità e con i dibattiti
tenuti segreti, e riservati al buon uso del papa. Così per cinquant’anni la
grande idea riformatrice del Concilio di una Chiesa identificata col popolo di
Dio e governata dal papa e dai vescovi in comunione con lui è rimasta lettera
morta, e non a caso la compagine cattolica è giunta alla crisi devastante che
ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI.
Ed ecco che ora riappare il
popolo di Dio nella sua identificazione con la Chiesa, a lui sono rivolte 38
domande e si innesca un grandioso processo sinodale e collegiale che dalla attuale consultazione dei fedeli
(ma anche, se vogliono, degli infedeli) giungerà fino al Sinodo straordinario
del 2014, dedicato ai problemi più urgenti, e a quello ordinario del 2015, in cui si
prenderanno determinazioni pastorali ed evangeliche più mature e a lungo
termine riguardanti cruciali problemi della vita umana sulla terra.
È la svolta che ci si aspettava
da papa Francesco, dopo le grandi parole da lui dette nei primi sette mesi di
pontificato, da cui già si poteva capire quale sarebbe stato il cammino. Come
il Concilio, evento altrettanto innovatore, il processo sinodale e collegiale
oggi avviato ha la finalità di un annuncio della fede in quei modi “che la
nostra età esige” (un’età in cui è mutata l’autocomprensione dell’uomo), ma ha
esteso la platea dei chiamati a prendere la parola per dire quali sono le
esigenze che la nostra età pone alla fede.
Dal punto di
vista teologico sono chiari i fondamenti di questa svolta: la fede trasmessa
dagli apostoli è anche la fede degli uomini della “cerchia degli apostoli”, di
cui parla il Concilio, ovvero la fede dei discepoli che attraverso una
ininterrotta successione di secoli, tramandata e arricchita dalla universalità
dei fedeli, è giunta fino a noi. È giusto quindi che ad essere interrogati sui
problemi della sopravvivenza della fede nel nostro tempo non siano solo i
successori degli apostoli ma anche i discepoli e, come destinatari
dell’annuncio, anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Se se ne
vuole trovare un indizio nelle precedenti esternazioni di papa Francesco, si
può trovare nell’osservazione da lui fatta nelle omelie a Santa Marta, riguardo
a quelle comunità cristiane del Giappone che nel XVII
secolo, dopo la cacciata dei missionari stranieri, erano rimaste senza
sacerdoti per più di duecento anni. “Ma
quando dopo questo tempo sono tornati di nuovo altri missionari, hanno trovato
tutte le comunità a posto: tutti battezzati, tutti catechizzati, tutti sposati
in chiesa, e quelli che erano morti, tutti sepolti cristianamente. Non c’erano
preti. E chi aveva fatto tutto questo? I semplici battezzati!”.
Nell’intervista alla Civiltà Cattolica, ricordando il “sentire cum Ecclesia” di S. Ignazio, Francesco
ha spiegato che «il popolo è soggetto. E la Chiesa è il popolo di Dio in
cammino nella storia, con gioie e dolori.
E l’insieme dei fedeli è infallibile nel credere… Non è dunque un sentire
riferito ai teologi». Poi ha chiarito che questo non significa dimenticare “la
santa madre Chiesa gerarchica”, ma ha sottolineato: «Io vedo la santità nel popolo
di Dio paziente: una donna che fa crescere i figli, un uomo che lavora per
portare a casa il pane, gli ammalati, le suore che lavorano tanto e che vivono
una santità nascosta. Questa per me è la santità comune”. Ed è per questo che
Francesco ha detto più volte che i vescovi non devono stare soltanto davanti o
in mezzo al gregge, ma anche dietro al gregge, perché c’è “un fiuto del gregge”
e spesso è lui ad aprire il cammino e a indicare nuove strade.
Questa è la ragione della consultazione indetta da papa
Francesco per tutta la
Chiesa. Durante il Concilio i moderatori proposero ai vescovi
quattro domande per sapere cosa ne pensavano della collegialità, dell’episcopato,
del diaconato e di altri problemi interni alla Chiesa, e sulle risposte
impostare i documenti. Successe un putiferio, ma così il Concilio prese la sua
strada. Oggi le domande sono 38, perché le questioni da dirimere sulla terra
sono ancora di più di quelle da dirimere nella Chiesa, e le domande sono
rivolte a tutti. Non è populismo, né demagogia,
né democrazia; è che la salvezza, come canta la liturgia del Natale, scende
dall’alto ma anche germina dalla terra, è che il popolo di Dio, come diceva la Lumen
Gentium , nell’aderire alla fede trasmessa ai santi una
volta per tutte “con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più
pienamente l'applica nella vita”. Per questo ad essere interpellati sono i
membri del gregge, perché il gregge è diventato un popolo, e anche il pastore
ora se n’è accorto; e se nel popolo “cresce la speranza, si moltiplicano anche
le energie”come ha detto il papa al Quirinale. Allora, per favore, rispondiamo.
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