di Raniero La Valle
Nonostante il luogo comune
secondo il quale un discorso laicamente corretto non dovrebbe mettere in
relazione politica e religione, ci sono due o tre cose che vengono dalla Chiesa
che sarebbero assai utili se venissero prese in considerazione anche dalla
politica.
Una di queste è il valore
salvifico delle dimissioni. Nessuno poteva immaginare che le dimissioni di
Benedetto XVI si sarebbero rivelate così benefiche per la Chiesa; esse oltre a
dimostrare la sapienza di Ratzinger che ha capito sia quando doveva prendere in
mano il governo petrino sia quando doveva lasciarlo, hanno trasformato quello
che appariva come un crepuscolo della Chiesa in una nuova promettente aurora.
Anche in politica c’è un tempo in
cui un governo deve nascere, e un tempo in cui deve morire. In democrazia la
fine di un governo non ha niente di drammatico, è del tutto fisiologico che un
governo cada quando non è più utile o è addirittura dannoso; l’istituto della
fiducia è una magnifica invenzione della democrazia e, al di là della sua
tecnicalità parlamentare, dice che un governo vive di fiducia, e deve avere la
fiducia non solo delle nomenclature, spesso del resto insincere, ma dei
cittadini. Esso perciò non può galleggiare su una società sfiduciata né tanto
meno voler durare a qualsiasi costo a scanso di chissà quali catastrofi.
La società italiana è oggi immersa
nella più profonda sfiducia. Non che sia tutta colpa del governo, ma certo la
crescente infelicità del Paese non trova nei palazzi del potere né lenimento e
nemmeno vera accoglienza e comprensione. Dopo la manifestazione del 19 ottobre a Roma, dove era sfilata
un’umanità dolente, non di “antagonisti”, ma di mamme con bambini, disoccupati,
senza casa, disabili, immigrati; dopo la notizia che i poveri in Italia sono
cinque milioni (e sempre più “poveri assoluti”); dopo che gli operai sardi
licenziati sono tornati da un viaggio della speranza a Roma “senza niente in mano”, come
moltissimi altri nelle loro stesse condizioni; dopo che ai figli non sappiamo
più cosa dire, governare questo Paese dovrebbe essere sentito come la gestione
di una tragedia; e neanche ai francesi, alla Sorbona, si dovrebbe dire che con
la politica in Italia “ci si diverte sempre”.
Giustamente il presidente del
Consiglio Letta aveva asserito che quando fossero venute meno le condizioni per
un buon governo se ne sarebbe accorto per primo e gli avrebbe posto fine lui
stesso. Il momento è venuto. Oggi il governo sta in piedi (di ventiquattrore in
ventiquattrore) solo perché e finché Berlusconi lo considera utile a propria
difesa; e il suo partito, mentre lo sostiene, si scatena contro tutto ciò che
un governo costituzionale dovrebbe tutelare, affermando che non è uno Stato di
diritto quello in cui le sentenze vengono eseguite, e che in Italia si dovrebbe
ristabilire la democrazia “perduta” ripristinando Berlusconi come un sovrano
impunito sovrastante la
legge. E così dalla indecente alleanza di governo, imposta
dai grillini, si irradia una cultura devastante, per cui i cittadini perderanno
ogni cognizione del bene e del male per la Repubblica, e non avranno più la
forza morale e politica per risollevarla, nè sapranno più per che santo votare.
Le dimissioni del premier,
arrestando l’inquinamento e ridando agibilità alla politica, sarebbero un atto
da vero statista.
L’altra idea che viene dalla
Chiesa (anzi dal papa) è che i capi (i vescovi) dovrebbero essere proprio
quelli che non vogliono diventarlo, quelli che non hanno una “mentalità da
principi” e che non sono così bigami da voler lasciare una Chiesa per sposarne
un’altra più grande e più ricca. Se questo consiglio si applicasse alla
politica si vedrebbe che non basta che un ciclista antiproporzionalista di
Firenze voglia fortissimamente essere capo di partito, capo del governo e poi
chissà che, per considerarlo adatto a
tali ruoli e metterlo subito sul piedistallo del vincente. E anche bisognerebbe
scoraggiarne la bigamia; perché non si può sposare nello stesso tempo Firenze e
la guida di un partito, né sta bene abbandonare Firenze per prendersi l’Italia.
La terza idea viene dal vescovo
di Verona, quando dice che un’impresa, se deve chiudere e licenziare per pagare le tasse, “allora è giusto
che non le paghi”. “È lo Stato – ha
spiegato mons. Zenti - che dev'essere al servizio del cittadino. Si paga fino
al limite dove si può arrivare, poi si chieda di venire a vedere com'è la
situazione».
Qui l’idea non è di evadere il
fisco, l’idea è che lo Stato salvi le imprese. È vero che a Bruxelles non
vogliono, perché lì ci sono le vestali del dogma della competitività. Ma ad
avere ragione non è Bruxelles, non è Maastricht, non è il “fiscal compact”, non
è il 3 per cento: qui ad avere ragione era il Sindaco Giorgio La Pira quando,
purché non chiudesse e non mettesse in mezzo alla strada gli operai, sequestrò
la Pignone, e fece ritirare il passaporto al suo padrone.
Raniero La Valle
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