venerdì 22 novembre 2013

LA CHIESA DI FRANCESCO METTE IN QUESTIONE IL SISTEMA: E NOI?

di Raniero La Valle
“Era una cosa molto comune: uno che lavorava con i poveri era comunista… E anche se non è vero, sono già tutti convinti, è già scritto che i preti che lavorano con i poveri sono comunisti”. Queste parole fanno parte della deposizione che l’8 novembre 2010 il cardinale Jorge Mario Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires e oggi papa Francesco, fece alla Corte argentina che indagava sui crimini della dittatura militare. In particolare la Corte si stava occupando delle torture e dei delitti perpetrati nella Escuela superior de mecánica  de la Armada, la scuola degli ufficiali della Marina militare argentina a Buenos Aires, dove erano stati tenuti sotto sequestro e tormentati due religiosi della Compagnia di Gesù, della quale all’epoca dei fatti, nel 1977, Bergoglio era il padre provinciale.
In quell’interrogatorio, pubblicato ora nel libro di Nello Scavo, “La lista di Bergoglio, i salvati da Francesco durante la dittatura”, il cardinale di Buenos Aires spiegava che questa idea per la quale tutti i preti che operavano per i poveri sarebbero stati comunisti, era presente in Argentina anche prima dell’avvento del regime militare; né l’accusa di comunismo colpiva solo i cristiani che seguivano quel filone della “teologia della liberazione” che si diceva facesse ricorso a un’ermeneutica marxista: non era questa la posizione dei gesuiti perseguitati dal regime militare, secondo l’arcivescovo di Buenos Aires, né si poteva far risalire unicamente al Concilio Vaticano II il fatto che vi fossero preti particolarmente impegnati con i poveri, come i cosiddetti “curas villeros” (preti delle baraccopoli).  In realtà, diceva Bergoglio,

“la scelta dei poveri risale ai primi secoli del cristianesimo. È nello stesso Vangelo. Se io oggi leggessi come omelia alcuni dei sermoni dei primi Padri della Chiesa, del II-III secolo, su come si debbano trattare i poveri, direste che la mia omelia è da marxista o da trotzkista. La Chiesa ha sempre onorato la scelta di preferire i poveri. Considerava i poveri il tesoro della Chiesa. Durante la persecuzione del diacono Lorenzo che era amministratore della diocesi, quando gli chiesero di portare tutti i tesori della Chiesa, si presentò con una marea di poveri e disse: “Questi sono i tesori della Chiesa”[1]… Durante il Concilio Vaticano II si riformulò la definizione della Chiesa come popolo di Dio ed è da lì che questo concetto si rinforza e, nella seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Medellin, si trasforma nella forte identità dell’America Latina”.

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venerdì 15 novembre 2013

LA SVOLTA


di Raniero La Valle  

Fu Pio XII che per primo fece un timidissimo accenno a un’opinione pubblica nella Chiesa, alludendo a una qualche voce in capitolo dei fedeli, ma la cosa non ebbe alcun seguito. Arrivò poi il Concilio, e la parola la diede ai vescovi, ma poi fu tolta anche a loro: Paolo VI decise da solo sulla contraccezione e ne blindò il divieto nella “Humanae vitae”, e poi si inventò un Sinodo dei vescovi senza alcun potere, senza collegialità e con i dibattiti tenuti segreti, e riservati al buon uso del papa. Così per cinquant’anni la grande idea riformatrice del Concilio di una Chiesa identificata col popolo di Dio e governata dal papa e dai vescovi in comunione con lui è rimasta lettera morta, e non a caso la compagine cattolica è giunta alla crisi devastante che ha portato alle dimissioni di Benedetto XVI.
Ed ecco che ora riappare il popolo di Dio nella sua identificazione con la Chiesa, a lui sono rivolte 38 domande e si innesca un grandioso processo sinodale e collegiale  che dalla attuale consultazione dei fedeli (ma anche, se vogliono, degli infedeli) giungerà fino al Sinodo straordinario del 2014, dedicato ai problemi più urgenti, e a quello ordinario del 2015, in cui si prenderanno determinazioni pastorali ed evangeliche più mature e a lungo termine riguardanti cruciali problemi della vita umana sulla terra.
È la svolta che ci si aspettava da papa Francesco, dopo le grandi parole da lui dette nei primi sette mesi di pontificato, da cui già si poteva capire quale sarebbe stato il cammino. Come il Concilio, evento altrettanto innovatore, il processo sinodale e collegiale oggi avviato ha la finalità di un annuncio della fede in quei modi “che la nostra età esige” (un’età in cui è mutata l’autocomprensione dell’uomo), ma ha esteso la platea dei chiamati a prendere la parola per dire quali sono le esigenze che la nostra età pone alla fede.
Dal punto di vista teologico sono chiari i fondamenti di questa svolta: la fede trasmessa dagli apostoli è anche la fede degli uomini della “cerchia degli apostoli”, di cui parla il Concilio, ovvero la fede dei discepoli che attraverso una ininterrotta successione di secoli, tramandata e arricchita dalla universalità dei fedeli, è giunta fino a noi. È giusto quindi che ad essere interrogati sui problemi della sopravvivenza della fede nel nostro tempo non siano solo i successori degli apostoli ma anche i discepoli e, come destinatari dell’annuncio, anche tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Se se ne vuole trovare un indizio nelle precedenti esternazioni di papa Francesco, si può trovare nell’osservazione da lui fatta nelle omelie a Santa Marta, riguardo a quelle comunità cristiane del Giappone che nel XVII secolo, dopo la cacciata dei missionari stranieri, erano rimaste senza sacerdoti per più di duecento anni. “Ma quando dopo questo tempo sono tornati di nuovo altri missionari, hanno trovato tutte le comunità a posto: tutti battezzati, tutti catechizzati, tutti sposati in chiesa, e quelli che erano morti, tutti sepolti cristianamente. Non c’erano preti. E chi aveva fatto tutto questo? I semplici battezzati!”.
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lunedì 4 novembre 2013

DUE O TRE COSE


di Raniero La Valle

Nonostante il luogo comune secondo il quale un discorso laicamente corretto non dovrebbe mettere in relazione politica e religione, ci sono due o tre cose che vengono dalla Chiesa che sarebbero assai utili se venissero prese in considerazione anche dalla politica.
Una di queste è il valore salvifico delle dimissioni. Nessuno poteva immaginare che le dimissioni di Benedetto XVI si sarebbero rivelate così benefiche per la Chiesa; esse oltre a dimostrare la sapienza di Ratzinger che ha capito sia quando doveva prendere in mano il governo petrino sia quando doveva lasciarlo, hanno trasformato quello che appariva come un crepuscolo della Chiesa in una nuova promettente aurora.
Anche in politica c’è un tempo in cui un governo deve nascere, e un tempo in cui deve morire. In democrazia la fine di un governo non ha niente di drammatico, è del tutto fisiologico che un governo cada quando non è più utile o è addirittura dannoso; l’istituto della fiducia è una magnifica invenzione della democrazia e, al di là della sua tecnicalità parlamentare, dice che un governo vive di fiducia, e deve avere la fiducia non solo delle nomenclature, spesso del resto insincere, ma dei cittadini. Esso perciò non può galleggiare su una società sfiduciata né tanto meno voler durare a qualsiasi costo a scanso di chissà quali catastrofi.
La società italiana è oggi immersa nella più profonda sfiducia. Non che sia tutta colpa del governo, ma certo la crescente infelicità del Paese non trova nei palazzi del potere né lenimento e nemmeno vera accoglienza e comprensione. Dopo la manifestazione del 19 ottobre a Roma, dove era sfilata un’umanità dolente, non di “antagonisti”, ma di mamme con bambini, disoccupati, senza casa, disabili, immigrati; dopo la notizia che i poveri in Italia sono cinque milioni (e sempre più “poveri assoluti”); dopo che gli operai sardi licenziati sono tornati da un viaggio della speranza a Roma “senza niente in mano”, come moltissimi altri nelle loro stesse condizioni; dopo che ai figli non sappiamo più cosa dire, governare questo Paese dovrebbe essere sentito come la gestione di una tragedia; e neanche ai francesi, alla Sorbona, si dovrebbe dire che con la politica in Italia “ci si diverte sempre”.
Giustamente il presidente del Consiglio Letta aveva asserito che quando fossero venute meno le condizioni per un buon governo se ne sarebbe accorto per primo e gli avrebbe posto fine lui stesso. Il momento è venuto. Oggi il governo sta in piedi (di ventiquattrore in ventiquattrore) solo perché e finché Berlusconi lo considera utile a propria difesa; e il suo partito, mentre lo sostiene, si scatena contro tutto ciò che un governo costituzionale dovrebbe tutelare, affermando che non è uno Stato di diritto quello in cui le sentenze vengono eseguite, e che in Italia si dovrebbe ristabilire la democrazia “perduta” ripristinando Berlusconi come un sovrano impunito sovrastante la legge. E così dalla indecente alleanza di governo, imposta dai grillini, si irradia una cultura devastante, per cui i cittadini perderanno ogni cognizione del bene e del male per la Repubblica, e non avranno più la forza morale e politica per risollevarla, nè sapranno più per che santo votare.
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