giovedì 29 novembre 2018

IL TAGLIANDO



Sono già passati 18 anni dall’inizio del secolo, e anzi del millennio, e le cose avvenute sono tali per cui è diventato urgente fargli il primo tagliando, per capire dove sta andando, e se bisogna lasciarlo andare così.
Era cominciato, il  millennio, nella percezione di un grande cambiamento. Con  molta retorica era stato celebrato l’Anno Santo del Duemila, stava cominciando l’euro e stava debuttando, col suo nuovo nome di Eurozona, l'Europa, il comunismo non c’era più e il capitalismo stava prendendo il potere in tutto il mondo promettendo libertà e benessere, all’occidentale, per tutti. Grandi (e piccoli) uomini e donne avevano chiuso il passato, ancora appartenendovi, senza sapere o poter aprire il futuro: Paolo VI, papa Wojtyla, Berlinguer, Gorbaciov, e ancora la signora Thatcher, quella che voleva far tornare l’Iraq all’età della pietra, cioè a prima di Babilonia e di Ninive, il Bush del “nuovo secolo americano”, gli autori del Trattato di Maastricht che avevano scelto l’economia al posto della politica e come sovrano il denaro al posto del popolo. In ogni caso però c’era la sensazione profonda di un principio: a Roma si era istituito addirittura un Assessorato che si chiamava “Roma cambia millennio” e si fecero studi e un convegno internazionale per vedere che cosa si dovesse lasciare e che cosa portare con sé nel passaggio dall’una all’altra epoca; poi Rutelli e il cardinale Ruini decisero che bastava così e tutto fu chiuso.
Ma da allora sono successe cose mai viste che hanno travolto le speranze: la guerra ripristinata come giudice universale e perpetuo; il terrorismo di osservanza islamica e le Due Torri di quell’11 settembre; la devastazione dell’Iraq, dell’Afghanistan, di tutto il Vicino Oriente fino alla Siria; la liquidazione della questione palestinese; la dittatura dei mercati e delle relative Agenzie: le nuove tecnologie guidate e finanziate dal potere per distruggere lavoro umano in tutto il mondo e progettare il “transumano”; il genocidio del popolo dei migranti fino a Trump, fino ad ora, fino al grande Gattopardo dei populismi per cui tutto cambi perché tutto resti com’è.
L’unica grande differenza, l’unica novità che ha fatto irruzione sulla soglia dell’incipiente millennio è stata la nuova narrazione di Dio, delle religioni e delle Chiese intrapresa da un papato non a caso venuto dalla fine del mondo, o forse prima della fine del mondo. Papa Francesco ha indicato almeno i punti all’ordine del giorno perché questa strana società dell’umano possa conservarsi e incedere nel futuro: che si faccia l’unità della famiglia umana e si accolga lo straniero; che il denaro non regni e non governi; che si ascolti il grido dei poveri per la dignità del lavoro, che finisca il pensiero del Dio violento e della guerra che gli è congeniale, che si assuma la custodia della terra, e si restituiscano la donna e l’uomo alla loro vera forma, l’immagine di Dio che li rende indissolubili.
Questi punti dell’agenda per il XXI secolo corrispondono tutti a dei grandi beni umani che abbiamo perduto o stiamo perdendo, ma sono così primari e universali che sempre sono stati cercati  e anche sono stati promessi come beni messianici: la grande assemblea dei popoli sulla montagna santa, ognuno nel nome del suo Dio; che  non siate l’uno all’altro straniero perché foste stranieri in Egitto; la giustizia e il diritto che si baciano; i poveri riempiti di beni e i ricchi mandati a mani vuote; il lavoro “molto buono” compiuto da Dio nel creare, e quello nostro a partire dal suo riposo; i popoli che disimparano l’arte della guerra, l’arcobaleno che annuncia la fine del diluvio e la chiusura del chiavistello delle acque; Dio che non ruggisce nel vento che spacca i monti e devasta gli alberi, ma viene in una brezza  leggera; la differenza benedetta tra l’uomo e la donna nell’unità di una sola carne;  l’uomo, per quanto “potenziato”, irriducibile a un robot.
La nostra idea è che i per i nati in questo millennio, in questo secolo, non basti affacciarsi al parapetto aspettando di vedere come tutto questo andrà a finire, ma che essi debbano decidere come deve andare a finire e a partire da ciò, come diceva Bonhoeffer, pensare e sperare solo ciò di cui risponderanno agendo.
È su questi punti all’ordine del giorno che getterà lo sguardo la prossima assemblea nazionale di Chiesa di tutti Chiesa dei poveri che si terrà il 6 aprile prossimo a Roma.
Dato il suo scopo, dovrà essere un incontro intergenerazionale, perché l’oggetto dell’incontro è esso stesso intergenerazionale e non potrebbe neanche pensarsi o avviarsi il discorso senza uno scambio di saperi e di vissuti tra una generazione e l’altra.

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martedì 20 novembre 2018

TERRORISTI E SICARI


 Ci vuole il coraggio del papa per andare alla finestra domenica, nella giornata mondiale dei poveri, ad annunciare la fine del mondo: non la catastrofe ecologica che avverrebbe per colpa nostra, e che possiamo ancora evitare, ma la fine escatologica che sta nei piani di Dio, quando i cieli e la terra passeranno e il Signore verrà nella gloria e tutti vedranno il suo volto raggiante d’amore. Si trattava in realtà del coraggio di annunciare il Vangelo, opportuno o importuno che possa apparire.  Nessuno però avrebbe potuto accusare il papa di proporre ai poveri l’alienazione di una ricompensa futura nei cieli ferma restando oggi la loro infelicità sulla terra, perché in tutti i modi egli sostiene la causa della loro liberazione e della loro lotta per avere giustizia già qui sulla terra.
Questo ci suggerisce un criterio per intendere il messaggio evangelico che papa Francesco sta riformulando nella sua globalità, in questo momento di svolta della storia umana e della Chiesa. E il criterio è che come nel Vangelo - se si vuole coglierne il senso profondo di rovesciamento rispetto al senso mondano e comune - non si possono prendere le singole parole separate dal contesto dell’insegnamento globale di Gesù, che è quello dell’amore, così si deve fare coi predicatori del Vangelo che lo trasmettono non solo col loro corredo di parole, ma attraverso la loro intera testimonianza. Tanto più questo avviene con papa Francesco, che parla con un linguaggio vivido e figurato, e che per far entrare il Vangelo nella testa e nel cuore della gente dice anche cose sorprendenti e paradossali, come del resto erano paradossali le parabole. Dice per esempio che la Chiesa è un ospedale da campo, che deve occuparsi degli infarti prima che del colesterolo, o che il confessionale non è una sala di tortura, o che la povertà è una prigione. Lo fa nel suo intento di rendere la predicazione di Gesù come se fosse a noi contemporanea, come se il Vangelo fosse scritto oggi.
Spesso, come anche nel Vangelo, le parole o i termini di paragone sono tratti dal campo penale. Succede per esempio nella rilettura sapienziale che nella catechesi del mercoledì egli sta facendo di tutti e dieci i comandamenti, “le dieci parole”. Anzi, parlando dell’ottavo, “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, ha detto che sono parole che appartengono proprio al linguaggio forense, e sono quelle che Gesù ha realizzato dando testimonianza alla verità nel processo dinanzi a Pilato; in questa luce papa Francesco ha legato la verità più all’amore che alla conoscenza, perché false relazioni impediscono l’amore,  “dove c’è bugia non c’è amore, non può esserci amore”. E qui il papa ha fatto ricorso a una delle sue iperboli quando ha detto che “chiacchierare è uccidere” e che un chiacchierone o una chiacchierona è un terrorista, perché getta la bomba e se ne va, ma quella bomba distrugge una vita. È evidente che il papa non intendeva dire qui che bisogna consegnare i maldicenti all’Antiterrorismo.
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martedì 13 novembre 2018

IL MONACO E IL GESUITA


Raccontare padre Benedetto a Camaldoli

Paternità, esodo e amore. Nell’itinerario del camaldolese Benedetto Calati una singolare anticipazione del magistero profetico di papa Francesco. La Chiesa come pedagogia, la Bibbia non come un simulacro, la “benedetta differenza” nell’unità di maschile e femminile non ridotta al rapporto di coppia
Raniero La Valle

Pubblichiamo il “racconto” che a partire da due fonti inedite è stato fatto a Camaldoli su padre Benedetto Calati il 2 novembre 2018 nell’ambito del colloquio “Abitare il futuro”, ovvero “I robot a immagine di Dio”, promosso dal gruppo “Oggi la parola”, e dedicato all’intelligenza artificiale e al “potenziamento” dell’umano. 

Sono grato per l’invito a parlare stasera di padre Benedetto Calati, nell’ambito di un colloquio che esplora il tema “Abitare il futuro”. Mi sono chiesto però che ragione c’è di parlare di padre Benedetto proprio qui a Camaldoli, dove si sa tutto di lui, se non altro perché ha passato 70 anni della sua vita in questi monasteri ed è stato Superiore generale dei camaldolesi per 18 anni; dunque si direbbe che almeno per i monaci non c’è niente di nuovo che si possa dire di lui.
Per quanto riguarda invece i partecipanti al Colloquio ci si può chiedere che cosa c’entra padre Benedetto con un convegno in cui si parla del futuro, di quello che sarà questo millennio, che si annuncia così diverso dai millenni precedenti perfino nella  concezione dell’umano, un futuro che non sembra corrispondere a nessuna delle visioni profetiche e delle promesse messianiche su cui padre Benedetto ha impostato tutta la vita, un futuro che semmai sembra rientrare piuttosto nel genere della letteratura apocalittica.
Per poter svolgere con una certa tranquillità il mio intervento, devo perciò prima rispondere a queste due domande.
Quanto alla prima, vorrei dire che di padre Benedetto non è mai esaurito il discorso. Ciò vale del resto per ciascuno di noi. Noi siamo un mistero anche per noi stessi; come per Dio di cui siamo immagine c’è per ciascuno di noi un apofatismo, un’impossibilità di descriverci e di definirci fino al più profondo di noi stessi. Così anche per padre Benedetto; non se ne può archiviare l’eredità come se fosse in se stessa conclusa, non c’è un lascito oggettivo che, una volta ricevuto, si possa mettere negli scaffali dell’Antica Farmacia. Vorrei dire che la Parola vivente che è stata la sua vita più la si legge, più cresce con chi la legge, come lui diceva della Parola di Dio con la famosa citazione di san Gregorio Magno.
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martedì 6 novembre 2018

LA LIBERTÀ RINASCA DAL MARE


Un incontro a Milazzo con i giovani “nati nel terzo millennio” di un Istituto tecnico multidisciplinare. Che cosa abbiamo ricevuto dal mare e che cosa buttiamo a mare. Le promesse da realizzare in questo secolo: l’unità di tutti gli uomini, la pace, la tutela della terra
Raniero La Valle

Stralci della conversazione tenuta agli studenti dell’Istituto tecnico economico tecnologico Leonardo da Vinci di Milazzo il 24 ottobre 2018
         
“Che la libertà rinasca dal mare e non ci siano più porti chiusi, muri e frontiere sulla terra”
La ragione di partire dal mare per fare il nostro ragionamento stamattina, è che il mare è parte della nostra vita. Per molti continentali il mare non esiste, o è solo un panorama, o è un luogo dove fare il bagno e le vacanze. Ma il mare non è solo questo. Il mare è causa di vita e parte della vita. Senza il mare la nostra vita, ma anche la nostra storia sarebbe completamente diversa.
          Intanto per alcuni di voi, che frequentate l’Istituto Nautico, sarà anche la vostra professione, il vostro lavoro, il compagno della vita quotidiana. Ma per tutti il mare è un po’ il nostro creatore. Prima di tutto perché qui viviamo in un’isola, che è emersa dalle acque, cioè è stata restituita dal mare. E poi perché dal mare sono arrivati tutti gli apporti che hanno dato forma alla nostra civiltà. Dal mare sono arrivati qui i Fenici, dal mare vengono i grandi miti fondatori, che hanno trovato la loro espressione epica nell’Iliade, nell’Odissea, nell’Eneide, sul mare si è affacciata una delle più grandi civiltà antiche, quella egiziana, a cui forse dobbiamo il monoteismo, dal mare sono arrivati Pietro, Paolo, il cristianesimo che da Roma si è diffuso in tutto il mondo, dal mare sono venuti i primissimi fondamenti di un diritto mite, quello che per esempio ha trovato poi posto nella Costituzione Italiana: il codice di Ur, il codice di Hamurabi, le leggi che nelle società dell’antico Medio Oriente interpretavano il potere come padre del povero, marito della vedova, la forza che compensava la debolezza del debole, il re che faceva giustizia, e così via. Perciò il mare è e deve essere riconosciuto e conservato come un luogo di vita, e non un luogo di morte.
          Ora la tragedia è che da alcuni anni a questa parte, da quando è esploso il fenomeno delle migrazioni, il nostro mare, il mare che sta in mezzo alle nostre terre e perciò si chiama Mediterraneo, è diventato un luogo di morte.
          Solo nel 2016 i morti sono stati 5.000, l’anno precedente erano stati 3.771, l’anno successivo 3.081. Potete vedere voi stessi quali sono le ultime cifre. Ma ora c’è una cosa peggiore dei morti: quelli che morivano era perché non c’era nessuno che li salvasse, quelli che muoiono oggi è perché nessuno deve salvarli, e se salvati non devono toccare terra, devono rimanere per giorni e giorni in una condizione di naufragio e di esclusione: sono gli scarti che il mondo ricco non vuole, che l’Europa non vuole. Ed è successa una cosa che non era mai accaduta prima e che abbiamo visto accadere proprio da qui dalla Sicilia, da Catania, da Pozzallo.
Perché naufragi e naufraghi ci sono sempre stati. Ma non era mai successo che quando un naufrago finalmente avvistasse la terra, e potesse gridare: terra, terra!, non era mai successo che a quella terra gli fosse impedito di approdare, che quella terra gli chiudesse i porti in faccia.
Ma è quello che ha fatto, quello che sta facendo non un qualsiasi privato spietato, è quello che sta facendo la Repubblica Italiana, è quello che stiamo facendo noi come cittadini. E proprio in questo momento si sta discutendo al Senato un decreto che si chiama decreto sulla sicurezza, che è tutto rivolto a far passare il messaggio che qui gli stranieri non devono venire, qui gli stranieri non ci devono stare, che se ne stiano a casa loro, casomai li aiutiamo a casa loro. Ma siamo noi che di casa loro abbiamo fatto degli inferni.
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