venerdì 28 febbraio 2020

CHIEDIAMOLO AL PENSIERO. LE RAGIONI DI UNA SCUOLA


L’inaugurazione alla Biblioteca Vallicelliana della “Scuola della Terra”. Due aporie da superare: la confusione tra laicità e ateismo, frutto di un Dio frainteso e mal predicato, e la sovranità assoluta dell’economia e della politica. Una Terra non solo da abitare ma da amare

Si è inaugurata a Roma il 21 febbraio alla Biblioteca Vallicelliana  la “Scuola della Terra” il cui scopo è di promuovere un costituzionalismo e una Costituzione mondiale. Qui pubblichiamo  il discorso inaugurale di Raniero La Valle, cui ha fatto seguito la “lectio magistralis” tenuta dal prof.  Luigi Ferrajoli.

Dopo una lunga gestazione e confronto, noi siamo qui oggi per fare una scuola. Ma non è solo una scuola, è anche un’antiscuola,  Ivan Illich, di cui esce ora l’opera omnia in Italia[1] ne sarebbe contento. Perché la scuola è fatta per insegnare e per imparare. Ma noi non vogliamo insegnare niente a nessuno, e quanto a imparare non sappiamo nemmeno se ci sono maestri per quello che vorremmo imparare, per quello che vorremmo sapere. Perciò dobbiamo cercare ancora[2].
Noi vorremmo sapere come si fa a salvare la Terra. Se ci fosse solo da salvarla dai terremoti, dagli tsunami, dalle inondazioni, dalle cavallette, dai virus, forse gli scienziati con la loro “scienza esatta” potrebbero arrivare a dirci come si fa, forse la tecnologia potrebbe approntare rimedi. Ma noi la dobbiamo salvare da noi stessi. Per salvarla da noi stessi non solo dovremmo imparare del nuovo, ma anche cessare di imparare dal vecchio; dovremmo smettere per esempio di imparare come uno può rubare i mercati dell’altro, come si può distruggere lavoro per far lavorare le macchine, come fare armi il cui criterio di perfezione  è di essere sempre più letali. Dalle prime mitragliatrici, cinquecento colpi al minuto, usate nella prima guerra mondiale, alle bombe di Hiroshima e Nagasaki sono passati solo trent’anni[3]. Abbiamo imparato troppo presto. Come dicevano i profeti, i popoli non dovrebbero più imparare l’arte della guerra, ma ormai questo non basta più, noi  dovremmo disimparare quello che abbiamo imparato fin troppo bene, Abbiamo imparato  guerre dove si muore da una parte sola, abbiamo imparato a uccidere con i droni, a decine di migliaia di chilometri di distanza, stando seduti a casa nostra, nei nostri Studi ovali, a goderci lo spettacolo in televisione, coi lustrini sulla divisa, pronte le bottiglie di champagne.

Uscire dalla dialettica

E per un’altra ragione la nostra scuola sarà anche un’antiscuola, perché una scuola è lì per trasmettere i saperi da una generazione all’altra, e dunque è un potente fattore di continuità, un mezzo di riproduzione della società così com’è, così come l’abbiamo ricevuta. Invece noi dovremmo trasmettere un sapere che ancora non c’è, perché col sapere che c’è la società che abbiamo ricevuto non solo non va bene, ma nemmeno può continuare. Prendete la dialettica, questa vetta della filosofia occidentale. Ci abbiamo fatto cattedrali e rivoluzioni, democrazie governanti e reti digitali, siamo tutti nipotini di Hegel. Ma lui è stato il primo a farci vedere gli effetti anche perversi della sua onnipresente dialettica, lui che estasiato salutava Napoleone come lo “spirito del mondo” quando  a Jena lo vedeva uscire a cavallo in perlustrazione nella città occupata; lui, Hegel, che teorizza l’inferiorità degli Indios scoperti in America, e dice che sono quasi scomparsi al soffio dell’attività europea, e dice che sono inferiori a noi “perfino quanto a statura”; quello stesso Hegel, filosofo dello Stato prussiano, che celebra la guerra come “la salute etica dei popoli”, perché, dice,  “come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole”, così “vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, anzi perpetua”.[4]
Per questo ci vuole non solo una conversione dei cuori, ma una revisione del pensiero, di molto pensiero di cui pur ci siamo nutriti fin qui.
Quello che ora chiediamo al nuovo pensiero è come salvare la Terra, le sue acque, i suoi mari, l’asciutto, le foreste, i tramonti, “questa bella famiglia d’erbe e d’animali”, come è celebrata in un canto che, ahimé, ha per titolo “I sepolcri”.
Tutto questo ci preme, perché l’ecologia è giunta fra noi, e già da molti decenni, almeno dagli anni Settanta del secolo scorso, da quel profetico rapporto dell’ MIT e del Club di Roma che rivelò i “Limiti dello sviluppo”. Tuttavia noi non siamo creatori di mondi, perciò non tocca a noi preoccuparci se un mondo, sia pure bellissimo come questo, scompare dall’universo, dove sono altri milioni di mondi e lune e soli e comete che possono fare anche a meno del nostro. Ma a noi ci preoccupa la Terra, ci preme questa Terra qui, perché su di essa è fiorita la storia, perché essa è rigata dalle sofferenze e dal pianto della storia, perché su questa Terra c’è un’umanità dolente in cammino, che siamo noi, e perché su questa Terra ora pende un giudizio. Ma questo giudizio non è quello del clima. Questo giudizio è quello della decisione che noi dobbiamo prendere su noi stessi. Una decisione che non può essere lasciata nelle mani di questo o quel sovrano, di questa o quella City, di questo o quell’algoritmo di Intelligenze artificiali che non conoscono uomo.
Dobbiamo decidere tutti insieme.

La contraddizione della “cristianità”

Per fare questo dobbiamo superare due aporie, due strozzature proprie della modernità, che finora sono apparse insormontabili e che ora però possono essere rimosse, ed è per questo che oggi possiamo sperare di salvare la storia e passare all’epoca nuova.
La prima aporia o strozzatura è quella che ha sciupato la laicità facendone una controfigura dell’ateismo, mettendo fuori gioco il Dio che era stato dei padri. La laicità è stata la grande carta giocata dalla storia, è stata la decisione assunta dall’umanità, agli albori dell’età moderna, di prendere in mano il proprio destino. Questo comportava però, almeno per l’Europa, di uscire dal regime di cristianità che non lo permetteva, che non dava spazio all’età adulta del mondo, La cristianità è quel regime inaugurato da Costantino e instaurato da Teodosio che nell’intreccio di politica e religione ha dato forma all’ “idea di Europa“. Un’Europa che secondo lo storico austriaco Friedrich Heer, ben noto a papa Francesco, “intesa in senso stretto”, è l’ “Europa occidentale post-greca da Costantino a Hitler”[5]. Ma poiché il regime di cristianità era il risultato, la proiezione di un Dio mal predicato, un Dio geloso dell’uomo, fautore delle guerre di religione e intralcio al progresso storico, era necessario o che questo Dio non ci fosse oppure, se si era credenti, bisognava  fare come se Dio non ci fosse.  La formula della laicità promulgata dal cristianissimo Grozio, fu perciò per i credenti quella di una finzione, di una ipotesi data per non vera, eppure obbligante. Tutto quello che abbiamo detto (il diritto), scriveva Grozio nel 1625, sussisterebbe ugualmente anche ad ammettere, ciò che pur sarebbe un’empietà, “che Dio non ci fosse o che non si occupasse dell’umanità”[6]: “Etsi Deus non daretur”, lo diceva in latino, che voleva dire rinchiudere Dio nel privato e nel tempio: perciò si disse laicità ed era ateismo: perché un Dio ristretto nel tempio e nel privato, un Dio che non patisce, non è neanche un Dio. La Chiesa reagì con durezza, si arroccò nel rifiuto della modernità, fino al Concilio Vaticano II, e per parte sua continuò ad annunciare un Dio partigiano, che salvava gli uni e scomunicava gli altri, Dio fu quindi un fattore di divisione e di guerra, nella religione e tra le religioni, e l’unità umana non poteva essere pensata. Ma con il Concilio Vaticano II e ora con papa Francesco la Chiesa esce dal regime di cristianità, Dio è diversamente compreso e ad Abu Dhabi si giunge tra cattolici e musulmani a riconoscere che il pluralismo e la diversità delle religioni sono nel desiderio stesso e nel piano di Dio, la fratellanza umana è proclamata e perciò su questo fronte cade l’impedimento a un’umanità indivisa. La novità, dice il documento fondativo della nostra Scuola, è che adesso un popolo della Terra può esserci, può essere istituito; lo reclama la condizione del mondo, dilaniata da sovranità in lotta tra loro, lo reclama l’oceano di sofferenza in cui siamo immersi; lo consente e chiede un Dio diversamente percepito e annunciato. In tal modo laicità e ateismo non sono inseparabili, sono reciprocamente liberi, l’aporia viene a cadere, e paradossalmente diventa interesse anche dei non credenti che Dio non sia più mal predicato.
La contraddizione delle sovranità
La seconda aporia o strozzatura che ancora ci lega è quella per cui si è spodestata e infirmata la politica e sul trono si è messa l’economia, e anzi il danaro. Nel nostro sito c’è una pagina ad apertura di una delle aree tematiche della nostra ricerca, che pone la domanda cruciale: se a stare al di sopra di tutto, se a decidere della nostra vita, del nostro futuro, se a essere sovrana debba essere l’economia o debba essere la politica. Questo infatti è il grande dilemma dell’epoca della globalizzazione. Ebbene il logo, la fotografia che illustra questa pagina del sito rappresenta due pifferai, identici e giustapposti l’uno all’altro. Uno è vestito di un abito fatto di faccine che ridono, le faccine del whatsapp, l’altro è vestito di un abito fatto di faccine che piangono. E la didascalia che è anche il titolo dell’intera sezione tematica è: I due sovrani: il Mercatro o la Politica? Perché questa è la sfida; è come se dovessimo scegliere tra due sovrani: il Mercato, che poi vuol dire, a capitalismo vincente, che non c’è altra economia al di fuori di questa, o la Politica che poi, a democrazia non realizzata , vuol dire il dominio, lo scarto, la guerra.
Dunque quale sovrano scegliere, quale padrone? Istintivamente si sarebbe portati a dire che una delle risposte sia di destra, l’altra di sinistra. Economia o politica? Il problema però è che non si sa quale delle due sia il pifferaio delle faccine che ridono, e quale delle due sia il pifferaio delle faccine che piangono. Infatti sono simili. Questo vuol dire che la domanda è sbagliata. Spesso ci facciamo la domanda sbagliata, e questo è un guaio, perché solo le domande giuste ci portano a risposte giuste.
La domanda è sbagliata perché quei due pifferai non sono e non devono essere i nostri sovrani, i nostri padroni. Ambedue li dobbiamo deporre dai troni, non sono loro a dover possedere la terra, a doverne avere il dominio; bisogna stare attenti, perché  Il pifferaio magico ci può irretire e portare alla morte, come ha fatto con i topi della favola, come fa l’economia che uccide, oppure il pifferaio ci può illudere, incantare, per farci uscire dalla città a correre dietro a lui, come ha fatto con i bambini della favola, come fa la politica quando strega le menti e indurisce i cuori per asservirli e prendersi tutto il potere.
In realtà economia e politica non sono i nostri sovrani, devono essere invece i nostri ministri, i nostri servitori. Noi siamo qui  a un passo dalla casa di via della Chiesa Nuova 14 dove il giovane Giuseppe Dossetti con gli altri professorini ha scritto alcuni degli articoli più importanti della Costituzione italiana, e noi abbiamo qui tra noi due eredi di quella casa e tramiti di quella memoria, Grazia e Stefania Tuzi. Ebbene Dossetti, che mi piace ricordare in questo momento fondativo, in una relazione rimasta famosa ai giuristi cattolici su “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”, ricordava che nella lettera ai Romani l’apostolo Paolo definisce i poteri pubblici come “diakonoi”, cioè come coloro che servono, e i poteri che imponevano i tributi destinati all’utilità comune, addirittura come i “liturghi di Dio”.
Dunque la politica e l’economia ci devono servire come strumenti e come risorse per la vita comune e il governo del mondo. Ci vogliono tutti e due, come servi fedeli, e ci vuole la loro unione virtuosa, che è l’economia politica.
Il popolo della Terra
Ma se non sono questi i sovrani, chi è dunque sovrano, chi sta sopra tutti e non riconosce altri sopra di sé? Le Costituzioni hanno detto che è il popolo. Ma questo va bene a casa propria. Se le case sono molte, anche i sovrani sono molti, come possono mettersi insieme, se ognuno ha la propria ragione, la propria ragion di Stato? I sovrani del passato hanno risolto la questione o col dominio degli uni sugli altri, o con i patti tra loro o con la guerra.
Ma man mano che il mondo si faceva più complesso, più appetibile e le ricchezze crescevano c’è stato sempre più dominio e più guerre, e guerre di grado in grado più grandi e mostruose. Oggi si è aperta la partita per il dominio non solo di questa o quella parte del mondo, ma del mondo tutto, i patti sono stracciati e la guerra di nuovo si fa mondiale ma, per ora, a pezzi, e non per questo è meno mostruosa, perché le armi ci sono e la guerra è ormai solo terrore.
A questo punto si scopre l’aporia, non si può non venirne fuori. Perché questo mondo di sovrani è divenuto impossibile. Non è possibile che uno si dichiari l’unico sovrano e voglia  aggiudicare a sé un secolo intero, imporgli la sua divisa, e lo proclami come fece Bush il nuovo secolo americano. Non è possibile che uno si pretenda sovrano e decida per tutti che la crisi climatica non c’è, e così mandare a picco la terra. non è possibile che uno si dichiari sovrano sui fiumi, sulle foreste dell’Amazzonia, il polmone del mondo, e ne attizzi. gli incendi. Non è possibile che qualcuno pretendendosi sovrano decida dei ghiacciai della Groenlandia, dei fuochi  dell’Africa, o decida che i Curdi non devono esistere, che gli Armeni non abbiano subito genocidio, che i Palestinesi non devono esserci. Non è possibile che un solo sovrano si faccia arbitro di come gestire una malattia invasiva, come mettere in stato di quarantena la Terra. Non è possibile che questo o quel  sovrano chiuda i mari, intercetti i profughi, perseguiti i migranti e faccia passare sui social l’idea che meglio morti che sbarcati. Non è possibile che molti sovrani gareggino per colonizzare lo spazio per farsene scudo o base di lancio per la decisiva stoccata nucleare sulla terra.
Non è possibile, e sono proprio i sovranisti, i suprematisti, gli identitari, quelli che dicono “prima noi”, cioè “solo noi”, sono proprio loro, ed è paradossale che siano proprio loro, a dimostrare che questo turpe gioco dei sovrani è finito, che deve essere chiuso.
E l’aporia si risolve intronizzando un nuovo e tutt’altro sovrano. e questo sovrano è il popolo della Terra, che giunga ad unità, che si riconosca nella sua soggettività anche giuridica e politica, soggetto costituente del nomos della Terra. Non per mettersi sopra al mondo, per disporne in modo assoluto, per governarlo con editti e con armi e con leggi come facevano i vecchi sovrani. Non si tratta di un governo del mondo, ognuno deve continuare a governarsi da sé. Ma si tratta di una Costituzione del mondo, con il suo “non ancora” che deve diventare realtà, con i suoi principi universali e supremi, con i suoi strumenti di attuazione e istituti di garanzia; Ferrajoli ora ci dirà come si fa.
Non solo abitarla, ma amarla
Noi, come scuola, vorremmo aprirle la strada, perché il popolo della Terra possa continuare ad abitare la sua casa, l’oikόs, per questo si parla di ecologia. Questa casa, con i due pifferai al suo servizio, ha bisogno di qualcosa di più di una mano invisibile che ne amministri il mercato, ha bisogno di qualcosa di più di una politica che la governi, ha bisogno di qualcosa di più di una ragione scientifica che ne sveli i segreti e i processi, ha bisogno di essere amata. Finora abbiamo pensato di dominare, di abitare, di sfruttare la Terra; ora dobbiamo decidere di amarla; finora abbiamo pensato che la Terra portasse noi, qualunque cosa facessimo, qualunque ferita le arrecassimo; ora sappiamo che siamo noi che dobbiamo portare la Terra, e se non la portiamo, se non ce la carichiamo addosso, la perdiamo. Non basta essere i geologi, i geografi della Terra, dobbiamo esserne i geofili, gli amanti.
Perciò noi vorremmo che questa fosse una Scuola disseminata e diffusa, telematica e frontale, non una sola scuola, ma cento scuole, così come Walter Tocci ci ricorda che a Roma si inventarono le cento piazze per l’incontro dei cittadini. E anzi vorremmo che ogni casa diventasse una scuola, ciascuno maestro e maestra l’una dell’altro, e allora più che una scuola sarebbe una scholé, come si diceva in antico, ossia l’ozio operoso, il contrario del negozio, lo studio, il pensiero, la vita pienamente vissuta, la contemplazione, il Sabato, come diceva l’economista Claudio Napoleoni[7].
Ora questa Scuola è al suo esordio e già da questo pubblico, dalle diversità di luoghi e di culture qui rappresentate, sembra piena di vigore. Noi siamo arrivati a questo punto attraverso un cammino difficile, con pochissime forze, e non sappiamo come lo potremo fare ancora, in ogni caso non troppo  a lungo. Ma non importa, perché quello che veramente speriamo è che questa Scuola ci sia tolta di mano, che molti altri se ne approprino e la moltiplichino, che diventi un’impresa comune, un principio speranza per tutti. Dovrete essere voi, nel pomeriggio, a dirci come continuare. Grazie.

Raniero La Valle 





[1] Ivan Illich, Celebrare la consapevolezza, Scritti 1951-1971, a cura di Fabio Milana, prefazione di Giorgio Agamben, pp. 894, euro 35.
[2] Claudio Napoleoni, Cercate ancora, Editori Riuniti, Roma, 1990.
[3] Giuliano Pontara, L’antibarbarie, Abele, Torino, 2019, p. 22.
[4] Hegel, Filosofia del diritto, II, cit. in Italo Mancini, Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia, 1986, p.276
[5] F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, Stuttgart 1953, p. 6.
[6] Grozio, Prolegomena al De iure belli ac pacis, 1625, par. 11.
[7] Claudio Napoleoni, op. cit., pp. 107 seg.
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venerdì 14 febbraio 2020

UNA LETTERA D’AMORE


C’è delusione per l’”esortazione postsinodale” del papa a conclusione del Sinodo per l’Amazzonia. Ci si aspettava un’apertura sul ministero sacerdotale di uomini sposati e anche sull’accesso delle donne al sacro ordine del diaconato, che invece non c’è stata nonostante che il documento finale votato dal Sinodo dei vescovi al n. 111 proponesse l’ordinazione di uomini sposati “idonei e riconosciuti dalla comunità” e al n. 102 riconoscesse "la ministerialità che Gesù ha riservato alle donne”.
Sarebbe sbagliato però ridurre l’attenzione a questi due soli punti quando lo scritto del papa “Querida Amazonia”, Cara Amazzonia, è di una ricchezza straordinaria ed esprime un’intensità di coinvolgimento e di amore per una terra e per i poveri che la abitano quale nessun papa aveva mai manifestato finora. Si tratta di un testo intriso di poesia, e si sa che la poesia apre spazi che vanno ben oltre le parole, il che è un buon criterio ermeneutico per intendere anche ciò che nel testo non viene detto. Non si era mai visto un papa che in un documento magisteriale facesse propria una poesia così: “Del fiume fà il tuo sangue… Poi piantati, germoglia e cresci, che la tua radice si aggrappi alla terra perpetuamente  e alla fine sii canoa, scialuppa, zattera, suolo, giara, stalla e uomo” (da “Llamado” del peruviano Javier Yglesias).
Bisogna dire piuttosto che la rinuncia del papa ad affrettare la riforma della Chiesa su questi due temi cruciali certamente risponde alla preoccupazione di non dare pretesti a uno scisma nella Chiesa, dopo l’intimidazione del libro del cardinale Sarah avallata da un ex papa che secondo la dottrina romana era stato infallibile fino al 28 febbraio dell’anno scorso e da un cardinale che senza essere infallibile era stato presidente dei vescovi della Chiesa italiana dal 1991 al 2007.  Certamente si trattava di una situazione nuova: non era mai successo che un papa infallibile ieri interferisse sulle decisioni di un papa infallibile oggi; è una cosa che poteva succedere solo dopo il 1870, e infatti oggi è accaduta, perciò ci vorrebbe ora una bella norma canonica a regolare la statuto degli ex papi. 
In ogni caso Francesco ha scelto con saggezza, sotto ricatto, scontentando i fedeli, ma pago di aver attivato un processo, che è molto più che occupare uno spazio. E il papa è stato ben attento a lasciarlo aperto proprio attraverso la scelta che ha fatto con la sua Esortazione. Questa infatti non sostituisce e perciò non cancella il documento finale del Sinodo dove quelle aperture erano contenute. Infatti scrive il papa nella sua Esortazione  apostolica di non voler “ripetere e sostituire” le conclusioni del Sinodo, ma esprimerne le risonanze provocate in lui, e insieme “presentare ufficialmente” quel documento finale “a cui hanno collaborato tante persone che conoscono meglio di me e della Curia romana la problematica dell’Amazzonia”, che è come dire: state a sentire loro.
A corroborare questa lettura è venuta la dichiarazione del cardinale Czerny, segretario speciale del Sinodo per l’Amazzonia, nella conferenza stampa in Vaticano di presentazione dello scritto del papa. Egli ha detto che si tratta di “una lettera d’amore”. Ė un documento del magistero, appartiene al magistero ordinario del successore di Pietro. Il documento finale del Sinodo è invece costituito da proposte che i Padri hanno votato ed hanno affidato al Santo Padre. Ebbene, il papa ha autorizzato la sua pubblicazione con i voti espressi, lo ha presentato ufficialmente e ha incoraggiato a leggerlo per intero. Ciò vuol dire, ha concluso il cardinale, che esso, al di là dell’autorità magisteriale formale, assume “una certa autorità morale e ignorarla sarebbe una mancanza di obbedienza alla legittima autorità del Santo Padre, mentre – ha aggiunto sornione - trovare difficili alcuni punti non sarebbe considerata una mancanza di fede”. Che è come dire che se il card. Sarah trova difficile il far preti uomini sposati, non per questo si deve pensare che manchi di fede. Il segretario speciale del Sinodo ha concluso che “le lezioni” che vengono dal documento sinodale e dall’Esortazione “Querida Amazonia” sono da applicare oltre l’Amazzonia, “esse toccano tutta la Chiesa e tutto il mondo anche se in modo non uniforme”.
Mai un Sinodo dei Vescovi, tanto meno un Sinodo locale, aveva avuto un simile riconoscimento della sua autorità e della sua autonomia. Questo vuol dire che la partita non è chiusa, e quando nell’Esortazione del papa si trova scritto che i popoli amazzonici hanno bisogno della celebrazione dell’eucarestia, ed è urgente fare in modo che non siano privati di essa come del sacramento del perdono, è chiaro che la strada resta aperta al sacerdozio senza celibato. Non a caso il papa precisa che la sola cosa che distingue il sacerdozio cattolico è l’ordine sacro, e non è certo, come alcuni pensano,”il potere, il fatto di essere la massima autorità della comunità”; allo stesso modo, si potrebbe continuare, a distinguerlo non è il celibato.
E quanto alle donne, è sorprendente la motivazione edificante e femminista data dal papa del non cooptarle all’ordine sacro: sarebbe riduzionista, sarebbe un pensarle solo in modo funzionale se si ritenesse che la Chiesa, per godere del loro carisma, le debba ordinare, quando “senza le donne essa crolla”, sono loro che anche in Amazzonia hanno tenuto in piedi la Chiesa, e tutto ora bisogna fare tranne che clericalizzarle. C'è qui l’eco di una discussione, aperta anche tra le donne .
La lettera del papa può apparire perciò non come un momento di ripiegamento nel conflitto aperto nella Chiesa, ma come uno straordinario atto di governo.
Venerdì prossimo, 21 febbraio alle 11 prenderà avvio  a Roma, alla Biblioteca Vallicelliana, in via della Chiesa Nuova 18, la Scuola “Costituente Terra”, che si propone di far crescere il pensiero dell’unità della famiglia umana, come soggetto politico e di storia, e di promuovere l’adozione  di una Costituzione della Terra. Ė una scuola ma pure un’antiscuola, perché si tratta anche di dismettere culture obsolete e di disimparare arti perverse, a cominciare dall’arte della guerra. L’evento prevede una presentazione della Scuola e una relazione del prof. Luigi Ferraioli sul perché di un costituzionalismo mondiale. Tutti sono invitati a intervenire.
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venerdì 7 febbraio 2020

LA CANZONE DELLE CANZONI



Pubblico questo post per darvi il link al video di Raiplay con l’intervento di Roberto Benigni al festival di Sanremo e la sua esegesi e lettura della Cantica biblica:
La performance dell’attore ha suscitato reazioni diverse, ma di sicuro è un evento che non può essere ignorato. Non era mai accaduto che un libro della Bibbia facesse un’irruzione così potente in un mondanissimo e frequentatissimo festival della canzone, in base all’esile appiglio del suo titolo, il Cantico dei Cantici, che tradotto in inglese, ha spiegato Benigni, “Song of Songs”, suona come “la canzone delle canzoni”.
Ma quale canzone! Aveva detto il rabbi Aquiba nel Sinodo di Iamnia, nel I secolo, che il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici fu dato ad Israele, perché “tutte le Scritture sono sante ma il Cantico dei Cantici è il santo dei santi”. Nella Cantica l’amore anche fisico non è spiritualizzato ed estenuato ma potenziato dall’essere preso a parabola dell’amore di Dio, e ciò che è rilevante è che l’iniziativa e il desiderio d’amore sono perfettamente reciproci, della sposa e dello sposo: ambedue sono figure di Dio. lo sposo e anche la sposa, perciò la Cantica sembra scritta dalla parte delle donne.
L’idea di Benigni di portare un compendio  di queste pagine millenarie tra le luci e i lustrini di Sanremo è stata geniale, e per quaranta minuti l’evento televisivo è diventato un’altra cosa. Benigni ha giocato tutta la sua lettura sul registro del canto di amore, nel senso anche più fisico e disinibito del termine, proponendo una versione del testo più antica di quella accolta nel canone delle Scritture, precedente perciò a ogni adattamento e censura, una versione in cui abbondano riferimenti puntuali ed espliciti al sesso, ai suoi organi ed alle sue espressioni anche più intensamente erotiche. Per questa operazione esegetica l’artista ha detto di essersi affidato ad alte competenze letterarie e bibliche, compreso il cardinale Ravasi, e di certo gli esperti avranno di che discuterne. In ogni caso ciò ha permesso a Benigni di insistere sull’apparente paradosso della presenza nella Bibbia di questo libro d’amore, in cui Dio è nominato una sola volta, contro la tradizione sessuofobica della letteratura religiosa (non senza rilevanti eccezioni, basta pensare a san Bernardo e ai suoi nove sermoni sul bacio) e contro secoli di morale cattolica in cui l’amore sessuale, sub specie del “De sexto” (il sesto comandamento) è stato girato e rigirato in tutti i modi come peccato. L’effetto è stato dirompente, e drastica è stata da parte di Benigni la liquidazione dell’attribuzione assolutoria del testo a Salomone, come delle interpretazioni allegoriche e spiritualistiche, ricorrenti nei Padri della Chiesa e nell’apologetica anche moderna, che hanno cercato di disinnescare il verismo del dialogo amoroso leggendovi l’amore incorporeo e trascendente di Dio, prima verso Israele e poi, con la buona notizia portata da Gesù, verso l’umanità tutta senza distinzioni tra Giudeo e Greco. In tal modo Benigni ha fatto un duplice svelamento; ha svelato agli spiritualisti la carica erotica del Cantico, e ha svelato ai cantanti e agli spettatori di Sanremo di che cosa parlano davvero, al di là delle cautele perbeniste, le loro canzoni d’amore.
Non si può negare che la presentazione di Benigni abbia avuto una forte, anche se nascosta, intenzionalità religiosa, per nulla dissacrante, ed anzi questo amore – forse addirittura scritto da una donna, ha ipotizzato Benigni – è stato definito “santissimo”. Perché tutto portava, pur nella crudezza del linguaggio, a far emergere la natura di infinitezza, di mistero svelato, di assoluto, di necessario dell’amore umano in tutte le sue forme.
Benigni ha chiamato in causa tutti, dicendo che tutti, nell’amore, hanno vissuto i loro momenti di immortalità. Sarebbe stato bello se avesse reso più esplicito il perché un libro così profano, così umano, così terreno, ha preso posto incontestato nella Bibbia, ossia in quella che la Chiesa proclama ogni giorno come “parola di Dio”. Certo, perché quell’amore là, per la sua profondità, intensità ed estasi, è un simbolo potente dell’amore di Dio per le sue creature. Ma anche, e ancora di più, oltre il simbolo, perché un Dio che, come diceva l’epistola agli Ebrei delle letture di domenica scorsa, ha condiviso in Cristo “il sangue e la carne” che i figli hanno in comune, condivide anche il loro amore nella carne e nel sangue, ed è “tipo” di ogni autentico amore umano; nella tradizione biblica egli è infatti padre (“padre nostro”) ma altresì madre (“come una madre consola suo figlio così Io…”), e anche negli amori più tormentati è figura di chi ama (“amerò non-Amata dice il Signore…”), e anzi  il rapporto stesso prende il nome di Dio, come scriveva Dietrich Bonhoeffer dal carcere di Tegel: “Anche il rivedersi è un Dio”.
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