L’inaugurazione alla Biblioteca Vallicelliana della
“Scuola della Terra”. Due aporie da superare: la confusione tra laicità e
ateismo, frutto di un Dio frainteso e mal predicato, e la sovranità assoluta
dell’economia e della politica. Una Terra non solo da abitare ma da amare
Si
è inaugurata a Roma il 21 febbraio alla Biblioteca Vallicelliana la “Scuola della Terra” il cui scopo è di
promuovere un costituzionalismo e una Costituzione mondiale. Qui
pubblichiamo il discorso inaugurale di
Raniero La Valle, cui ha fatto seguito la “lectio magistralis” tenuta dal
prof. Luigi Ferrajoli.
Dopo una lunga gestazione e
confronto, noi siamo qui oggi per fare una scuola. Ma non è solo una scuola, è
anche un’antiscuola, Ivan Illich, di cui
esce ora l’opera omnia in Italia[1] ne sarebbe contento.
Perché la scuola è fatta per insegnare e per imparare. Ma noi non vogliamo
insegnare niente a nessuno, e quanto a imparare non sappiamo nemmeno se ci sono
maestri per quello che vorremmo imparare, per quello che vorremmo sapere. Perciò
dobbiamo cercare ancora[2].
Noi vorremmo sapere come si
fa a salvare la Terra. Se ci fosse solo da salvarla dai terremoti, dagli
tsunami, dalle inondazioni, dalle cavallette, dai virus, forse gli scienziati con
la loro “scienza esatta” potrebbero arrivare a dirci come si fa, forse la
tecnologia potrebbe approntare rimedi. Ma noi la dobbiamo salvare da noi
stessi. Per salvarla da noi stessi non solo dovremmo imparare del nuovo, ma
anche cessare di imparare dal vecchio; dovremmo smettere per esempio di
imparare come uno può rubare i mercati dell’altro, come si può distruggere
lavoro per far lavorare le macchine, come fare armi il cui criterio di
perfezione è di essere sempre più
letali. Dalle prime mitragliatrici, cinquecento colpi al minuto, usate nella
prima guerra mondiale, alle bombe di Hiroshima e Nagasaki sono passati solo
trent’anni[3]. Abbiamo imparato troppo
presto. Come dicevano i profeti, i popoli non dovrebbero più imparare l’arte
della guerra, ma ormai questo non basta più, noi dovremmo disimparare quello che abbiamo
imparato fin troppo bene, Abbiamo imparato
guerre dove si muore da una parte sola, abbiamo imparato a uccidere con
i droni, a decine di migliaia di chilometri di distanza, stando seduti a casa
nostra, nei nostri Studi ovali, a goderci lo spettacolo in televisione, coi
lustrini sulla divisa, pronte le bottiglie di champagne.
Uscire dalla dialettica
E per un’altra
ragione la nostra scuola sarà anche un’antiscuola, perché una scuola è lì per
trasmettere i saperi da una generazione all’altra, e dunque è un potente
fattore di continuità, un mezzo di riproduzione della società così com’è, così come
l’abbiamo ricevuta. Invece noi dovremmo trasmettere un sapere che ancora non
c’è, perché col sapere che c’è la società che abbiamo ricevuto non solo non va
bene, ma nemmeno può continuare. Prendete la dialettica, questa vetta della
filosofia occidentale. Ci abbiamo fatto cattedrali e rivoluzioni, democrazie
governanti e reti digitali, siamo tutti nipotini di Hegel. Ma lui è stato il
primo a farci vedere gli effetti anche perversi della sua onnipresente dialettica,
lui che estasiato salutava Napoleone come lo “spirito del mondo” quando a Jena lo vedeva uscire a cavallo in
perlustrazione nella città occupata; lui, Hegel, che teorizza l’inferiorità
degli Indios scoperti in America, e dice che sono quasi scomparsi al soffio
dell’attività europea, e dice che sono inferiori a noi “perfino quanto a
statura”; quello stesso Hegel, filosofo dello Stato prussiano, che celebra la
guerra come “la salute etica dei popoli”, perché, dice, “come il movimento dei venti preserva il mare
dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole”, così “vi
ridurrebbe i popoli una pace durevole, anzi perpetua”.[4]
Per questo ci vuole
non solo una conversione dei cuori, ma una revisione del pensiero, di molto
pensiero di cui pur ci siamo nutriti fin qui.
Quello che ora chiediamo
al nuovo pensiero è come salvare la Terra, le sue acque, i suoi mari, l’asciutto,
le foreste, i tramonti, “questa bella famiglia d’erbe e d’animali”, come è
celebrata in un canto che, ahimé, ha per titolo “I sepolcri”.
Tutto questo ci
preme, perché l’ecologia è giunta fra noi, e già da molti decenni, almeno dagli
anni Settanta del secolo scorso, da quel profetico rapporto dell’ MIT e del
Club di Roma che rivelò i “Limiti dello sviluppo”. Tuttavia noi non siamo
creatori di mondi, perciò non tocca a noi preoccuparci se un mondo, sia pure
bellissimo come questo, scompare dall’universo, dove sono altri milioni di
mondi e lune e soli e comete che possono fare anche a meno del nostro. Ma a noi
ci preoccupa la Terra, ci preme questa Terra qui, perché su di essa è fiorita
la storia, perché essa è rigata dalle sofferenze e dal pianto della storia, perché
su questa Terra c’è un’umanità dolente in cammino, che siamo noi, e perché su
questa Terra ora pende un giudizio. Ma questo giudizio non è quello del clima.
Questo giudizio è quello della decisione che noi dobbiamo prendere su noi
stessi. Una decisione che non può essere lasciata nelle mani di questo o quel
sovrano, di questa o quella City, di questo o quell’algoritmo di Intelligenze
artificiali che non conoscono uomo.
Dobbiamo decidere
tutti insieme.
La contraddizione della
“cristianità”
Per fare questo
dobbiamo superare due aporie, due strozzature proprie della modernità, che finora
sono apparse insormontabili e che ora però possono essere rimosse, ed è per
questo che oggi possiamo sperare di salvare la storia e passare all’epoca
nuova.
La
prima aporia o strozzatura è quella che ha sciupato la laicità facendone una controfigura
dell’ateismo, mettendo fuori gioco il Dio che era stato dei padri. La laicità è
stata la grande carta giocata dalla storia, è stata la decisione assunta
dall’umanità, agli albori dell’età moderna, di prendere in mano il proprio
destino. Questo comportava però, almeno per l’Europa, di uscire dal regime di
cristianità che non lo permetteva, che non dava spazio all’età adulta del
mondo, La cristianità è quel regime inaugurato da Costantino e instaurato da
Teodosio che nell’intreccio di politica e religione ha dato forma all’ “idea di
Europa“. Un’Europa che secondo lo storico austriaco Friedrich Heer, ben noto a
papa Francesco, “intesa in senso stretto”, è l’ “Europa occidentale post-greca
da Costantino a Hitler”[5]. Ma poiché il regime di
cristianità era il risultato, la proiezione di un Dio mal predicato, un Dio geloso
dell’uomo, fautore delle guerre di religione e intralcio al progresso storico,
era necessario o che questo Dio non ci fosse oppure, se si era credenti,
bisognava fare come se Dio non ci fosse.
La formula della laicità promulgata dal
cristianissimo Grozio, fu perciò per i credenti quella di una finzione, di una
ipotesi data per non vera, eppure obbligante. Tutto quello che abbiamo detto
(il diritto), scriveva Grozio nel 1625, sussisterebbe ugualmente anche ad
ammettere, ciò che pur sarebbe un’empietà, “che Dio non ci fosse o che non si
occupasse dell’umanità”[6]: “Etsi Deus non daretur”,
lo diceva in latino, che voleva dire rinchiudere Dio nel privato e nel tempio: perciò
si disse laicità ed era ateismo: perché un Dio ristretto nel tempio e nel
privato, un Dio che non patisce, non è neanche un Dio. La Chiesa reagì con
durezza, si arroccò nel rifiuto della modernità, fino al Concilio Vaticano II, e
per parte sua continuò ad annunciare un Dio partigiano, che salvava gli uni e
scomunicava gli altri, Dio fu quindi un fattore di divisione e di guerra, nella
religione e tra le religioni, e l’unità umana non poteva essere pensata. Ma con
il Concilio Vaticano II e ora con papa Francesco la Chiesa esce dal regime di
cristianità, Dio è diversamente compreso e ad Abu Dhabi si giunge tra cattolici
e musulmani a riconoscere che il pluralismo e la diversità delle religioni sono
nel desiderio stesso e nel piano di Dio, la fratellanza umana è proclamata e
perciò su questo fronte cade l’impedimento a un’umanità indivisa. La novità, dice il documento fondativo
della nostra Scuola, è che adesso un popolo della Terra può esserci, può essere
istituito; lo reclama la condizione del mondo, dilaniata da sovranità in lotta
tra loro, lo reclama l’oceano di sofferenza in cui siamo immersi; lo consente e
chiede un Dio diversamente percepito e annunciato. In tal modo laicità e
ateismo non sono inseparabili, sono reciprocamente liberi, l’aporia viene a
cadere, e paradossalmente diventa interesse anche dei non credenti che Dio non sia
più mal predicato.
La
contraddizione delle sovranità
La seconda aporia o strozzatura che ancora ci
lega è quella per cui si è spodestata e infirmata la politica e sul trono si è
messa l’economia, e anzi il danaro. Nel nostro sito c’è una pagina ad apertura
di una delle aree tematiche della nostra ricerca, che pone la domanda cruciale:
se a stare al di sopra di tutto, se a decidere della nostra vita, del nostro
futuro, se a essere sovrana debba essere l’economia o debba essere la politica.
Questo infatti è il grande dilemma dell’epoca della globalizzazione. Ebbene il
logo, la fotografia che illustra questa pagina del sito rappresenta due
pifferai, identici e giustapposti l’uno all’altro. Uno è vestito di un abito
fatto di faccine che ridono, le faccine del whatsapp, l’altro è vestito di un
abito fatto di faccine che piangono. E la didascalia che è anche il titolo
dell’intera sezione tematica è: I due sovrani: il Mercatro o la Politica? Perché
questa è la sfida; è come se dovessimo scegliere tra due sovrani: il Mercato,
che poi vuol dire, a capitalismo vincente, che non c’è altra economia al di
fuori di questa, o la Politica che poi, a democrazia non realizzata , vuol dire
il dominio, lo scarto, la guerra.
Dunque quale sovrano scegliere, quale padrone? Istintivamente
si sarebbe portati a dire che una delle risposte sia di destra, l’altra di
sinistra. Economia o politica? Il problema però è che non si sa quale delle due
sia il pifferaio delle faccine che ridono, e quale delle due sia il pifferaio
delle faccine che piangono. Infatti sono simili. Questo vuol dire che la
domanda è sbagliata. Spesso ci facciamo la domanda sbagliata, e questo è un
guaio, perché solo le domande giuste ci portano a risposte giuste.
La domanda è sbagliata perché quei due pifferai
non sono e non devono essere i nostri sovrani, i nostri padroni. Ambedue li
dobbiamo deporre dai troni, non sono loro a dover possedere la terra, a doverne
avere il dominio; bisogna stare attenti, perché
Il pifferaio magico ci può irretire e portare alla morte, come ha fatto
con i topi della favola, come fa l’economia che uccide, oppure il pifferaio ci
può illudere, incantare, per farci uscire dalla città a correre dietro a lui,
come ha fatto con i bambini della favola, come fa la politica quando strega le
menti e indurisce i cuori per asservirli e prendersi tutto il potere.
In realtà economia e politica non sono i nostri
sovrani, devono essere invece i nostri ministri, i nostri servitori. Noi siamo
qui a un passo dalla casa di via della
Chiesa Nuova 14 dove il giovane Giuseppe Dossetti con gli altri professorini ha
scritto alcuni degli articoli più importanti della Costituzione italiana, e noi
abbiamo qui tra noi due eredi di quella casa e tramiti di quella memoria,
Grazia e Stefania Tuzi. Ebbene Dossetti, che mi piace ricordare in questo
momento fondativo, in una relazione rimasta famosa ai giuristi cattolici su
“Funzioni e ordinamento dello Stato moderno”, ricordava che nella lettera ai
Romani l’apostolo Paolo definisce i poteri pubblici come “diakonoi”, cioè come
coloro che servono, e i poteri che imponevano i tributi destinati all’utilità
comune, addirittura come i “liturghi di Dio”.
Dunque la politica e l’economia ci devono servire
come strumenti e come risorse per la vita comune e il governo del mondo. Ci
vogliono tutti e due, come servi fedeli, e ci vuole la loro unione virtuosa,
che è l’economia politica.
Il popolo
della Terra
Ma se non sono questi i sovrani, chi è dunque
sovrano, chi sta sopra tutti e non riconosce altri sopra di sé? Le Costituzioni
hanno detto che è il popolo. Ma questo va bene a casa propria. Se le case sono
molte, anche i sovrani sono molti, come possono mettersi insieme, se ognuno ha
la propria ragione, la propria ragion di Stato? I sovrani del passato hanno
risolto la questione o col dominio degli uni sugli altri, o con i patti tra
loro o con la guerra.
Ma man mano che il mondo si faceva più complesso,
più appetibile e le ricchezze crescevano c’è stato sempre più dominio e più
guerre, e guerre di grado in grado più grandi e mostruose. Oggi si è aperta la
partita per il dominio non solo di questa o quella parte del mondo, ma del
mondo tutto, i patti sono stracciati e la guerra di nuovo si fa mondiale ma,
per ora, a pezzi, e non per questo è meno mostruosa, perché le armi ci sono e
la guerra è ormai solo terrore.
A questo punto si scopre l’aporia, non si può non
venirne fuori. Perché questo mondo di sovrani è divenuto impossibile. Non è
possibile che uno si dichiari l’unico sovrano e voglia aggiudicare a sé un secolo intero, imporgli la
sua divisa, e lo proclami come fece Bush il nuovo secolo americano. Non è
possibile che uno si pretenda sovrano e decida per tutti che la crisi climatica
non c’è, e così mandare a picco la terra. non è possibile che uno si dichiari
sovrano sui fiumi, sulle foreste dell’Amazzonia, il polmone del mondo, e ne
attizzi. gli incendi. Non è possibile che qualcuno pretendendosi sovrano decida
dei ghiacciai della Groenlandia, dei fuochi
dell’Africa, o decida che i Curdi non devono esistere, che gli Armeni
non abbiano subito genocidio, che i Palestinesi non devono esserci. Non è
possibile che un solo sovrano si faccia arbitro di come gestire una malattia
invasiva, come mettere in stato di quarantena la Terra. Non è possibile che
questo o quel sovrano chiuda i mari,
intercetti i profughi, perseguiti i migranti e faccia passare sui social l’idea
che meglio morti che sbarcati. Non è possibile che molti sovrani gareggino per
colonizzare lo spazio per farsene scudo o base di lancio per la decisiva
stoccata nucleare sulla terra.
Non è possibile, e sono proprio i sovranisti, i
suprematisti, gli identitari, quelli che dicono “prima noi”, cioè “solo noi”, sono
proprio loro, ed è paradossale che siano proprio loro, a dimostrare che questo
turpe gioco dei sovrani è finito, che deve essere chiuso.
E l’aporia si risolve intronizzando un nuovo e
tutt’altro sovrano. e questo sovrano è il popolo della Terra, che giunga ad
unità, che si riconosca nella sua soggettività anche giuridica e politica,
soggetto costituente del nomos della Terra. Non per mettersi sopra al mondo,
per disporne in modo assoluto, per governarlo con editti e con armi e con leggi
come facevano i vecchi sovrani. Non si tratta di un governo del mondo, ognuno
deve continuare a governarsi da sé. Ma si tratta di una Costituzione del mondo,
con il suo “non ancora” che deve diventare realtà, con i suoi principi
universali e supremi, con i suoi strumenti di attuazione e istituti di
garanzia; Ferrajoli ora ci dirà come si fa.
Non solo
abitarla, ma amarla
Noi, come scuola, vorremmo aprirle la strada, perché
il popolo della Terra possa continuare ad abitare la sua casa, l’oikόs, per
questo si parla di ecologia. Questa casa, con i due pifferai al suo servizio,
ha bisogno di qualcosa di più di una mano invisibile che ne amministri il
mercato, ha bisogno di qualcosa di più di una politica che la governi, ha
bisogno di qualcosa di più di una ragione scientifica che ne sveli i segreti e
i processi, ha bisogno di essere amata. Finora abbiamo pensato di dominare, di
abitare, di sfruttare la Terra; ora dobbiamo decidere di amarla; finora abbiamo
pensato che la Terra portasse noi, qualunque cosa facessimo, qualunque ferita
le arrecassimo; ora sappiamo che siamo noi che dobbiamo portare la Terra, e se
non la portiamo, se non ce la carichiamo addosso, la perdiamo. Non basta essere
i geologi, i geografi della Terra, dobbiamo esserne i geofili, gli amanti.
Perciò noi vorremmo che questa fosse una Scuola
disseminata e diffusa, telematica e frontale, non una sola scuola, ma cento
scuole, così come Walter Tocci ci ricorda che a Roma si inventarono le cento
piazze per l’incontro dei cittadini. E anzi vorremmo che ogni casa diventasse
una scuola, ciascuno maestro e maestra l’una dell’altro, e allora più che una
scuola sarebbe una scholé, come si diceva in antico, ossia l’ozio operoso, il
contrario del negozio, lo studio, il pensiero, la vita pienamente vissuta, la
contemplazione, il Sabato, come diceva l’economista Claudio Napoleoni[7].
Ora questa Scuola è al suo esordio e già da
questo pubblico, dalle diversità di luoghi e di culture qui rappresentate,
sembra piena di vigore. Noi siamo arrivati a questo punto attraverso un cammino
difficile, con pochissime forze, e non sappiamo come lo potremo fare ancora, in
ogni caso non troppo a lungo. Ma non
importa, perché quello che veramente speriamo è che questa Scuola ci sia tolta
di mano, che molti altri se ne approprino e la moltiplichino, che diventi
un’impresa comune, un principio speranza per tutti. Dovrete essere voi, nel
pomeriggio, a dirci come continuare. Grazie.
Raniero La Valle
[1] Ivan
Illich, Celebrare la consapevolezza, Scritti 1951-1971, a cura di Fabio
Milana, prefazione di Giorgio Agamben, pp. 894, euro 35.
[2] Claudio
Napoleoni, Cercate ancora, Editori
Riuniti, Roma, 1990.
[3] Giuliano
Pontara, L’antibarbarie, Abele,
Torino, 2019, p. 22.
[4] Hegel, Filosofia del diritto, II, cit. in Italo
Mancini, Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia, 1986, p.276
[5] F. Heer, Europäische Geistesgeschichte,
Stuttgart 1953, p. 6.
[6] Grozio, Prolegomena al De iure belli ac pacis,
1625, par. 11.
[7] Claudio
Napoleoni, op. cit., pp. 107 seg.