mercoledì 7 giugno 2023

 LA RICONQUISTA E LA DIGA

Una proposta di pace per l’Ucraina è venuta da quel Sud del mondo che guarda con sgomento le strategie di guerra e di dominio dei Paesi del Nord e dell’Occidente, e avanza invece la visione di un nuovo ordine multipolare. In un “summit” a Singapore sulla sicurezza nella regione dell’Indo-Pacifico, tale proposta è stata formulata dall’Indonesia, che insieme al Brasile, alla Cina, ad altri Paesi del Sud e alla Santa Sede hanno mantenuto la lucidità e la magnanimità di cercare alternative alla guerra.
Il piano indonesiano prevede un immediato “cessate il fuoco”, il ritiro delle truppe russe ed ucraine di 15 chilometri per parte, il territorio così smilitarizzato presidiato da forze di pace delle Nazioni Unite e nei territori contesi un referendum indetto dall’ONU per accertare la volontà delle popolazione interessate sul loro futuro.
Illustrando la sua proposta il ministro della Difesa indonesiano ha detto che misure di questo tipo si sono mostrate efficaci nel corso della storia, come in Corea, dove certo non si è raggiunta una soluzione definitiva, ma “da cinquant’anni abbiamo almeno un po’ di pace, che è molto meglio della distruzione e della morte di persone innocenti”: concetti questi fruibili anche da un bambino se non da illustri e maturi statisti. Ha anche aggiunto che le nazioni asiatiche (si pensi al Giappone!) “conoscono i costi della guerra altrettanto e meglio delle loro controparti europee”, mentre oggi da questa sono già colpiti nella loro economia e sufficienza alimentare.
La proposta indonesiana è stata immediatamente respinta a Singapore dall’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri della Commissione von der Leyen, perché non introdurrebbe un discrimine tra aggressore e aggredito e non postulerebbe la pace “giusta” che “l’Europa vuole”.
La proposta è stata anche immediatamente respinta a Kiev dal presidente Zelensky che ha ribadito, come già aveva fatto riguardo al Papa, di non aver bisogno di mediatori, e ha dichiarato imminente la tanto annunciata controffensiva, del cui successo si è detto certo ottenendo la riconquista dei territori perduti anche se al costo di una gran numero di soldati uccisi.
In questo triangolare gioco con la morte si sono così delineate tre posizioni su guerra e pace che è bene indagare anche al di là della contingenza immediata.
La prima, quella indonesiana, non promette la luna ma ha cura di porsi al di sopra di un livello pur minimo di razionalità, preferendo una pace imperfetta e magari provvisoria (50 anni?) alla distruzione e alla morte di persone “innocenti”.
La seconda, quella dell’Unione Europea, si fa giudice della pace altrui e rovescia completamente quella rigenerazione ideale a cui deve la sua nascita. Essa doveva essere una comunità di popoli e di ordinamenti giuridici che andando oltre gli Stati nello stesso tempo li demitizza e li depone dal trono, ed ecco che si erge invece come un SuperStato, che reprime le differenze, si dà un’identità contrapponendosi a un Nemico (la Russia, o “il resto del mondo”, come scrive il “Corriere della Sera”), vuole crearsi un esercito, si immerge in un’alleanza militare e si pavoneggia nel mondo come una Potenza tra le Potenze. O l’Europa non è questa, e il Rappresentante non rappresenta nessuno?
La terza è quella dell’Ucraina di Zelensky che di fronte a due valori che sono in gioco, i confini supposti come suoi e la vita di un gran numero di soldati, li mette in scala gerarchica l’uno sull’altro e sceglie i confini a spese – come dice in modo più diretto il ministro indonesiano – “della distruzione e della morte di persone innocenti”.
La scelta sarebbe quindi tra una nuova spartizione dei territori, e la vita di persone e di popoli. Per il diritto internazionale la scelta è chiara: al centro ci sono i popoli, il bando della guerra, la condanna del genocidio.
L’Europa dovrebbe ricordare con orrore la sua storia di guerre per ridisegnare i confini, da cui, unendosi, ha voluto uscire; dovrebbe ricordarsi dell’Alsazia e Lorena nel 1870-71, di Danzica nel 1939, del Kosovo nel 1999, per non parlare delle “terre irredente” della propaganda fascista per l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Per contro gli accordi di Helsinki proclamavano l’intangibilità dei confini ma ne ammettevano il cambiamento pacifico e si appellavano all’autodeterminazione (i referendum?) dei popoli.
Ma più ancora si può dire che la lotta per la spartizione delle terre appartiene a un’epoca primitiva e pregiuridica della storia umana: come ha spiegato Carl Schmitt il “nomos”, che si è poi tradotto nel diritto e nella legge, viene da un verbo, “nemein”, che significa tre cose, appropriarsi, dividere e sfruttare, per cui il “nomos della Terra” da allora, consisterebbe nel processo di appropriazione, spartizione e produzione che giunge, come diceva il filosofo economista Claudio Napoleoni, fino all’attuale espropriazione e alienazione dell’uomo ridotto a merce, a prodotto ed a cosa.
La lotta per stabilire il dominio su territori spartiti, la lotta per i confini, senza tener conto dalla vita e dalla pace degli uomini e delle donne che vi sono inclusi, è dunque una lotta ferina, barbarica, di età tribale, ben diversa dalle lotte per la liberazione dei popoli, che ha a che fare con la pace se - come Giovanni l’anniversario della morte scriveva nella “Pacem in Terris” - questa liberazione appartiene ai “segni del tempo” che annunciano la pace: “Non più popoli dominatori e popoli dominati”. Ed è fuorviante e puerile intendere questa guerra innescata dalla disputa sulla NATO, non come una guerra in cui ne va della vita dei popoli, che siano ucraini, russi o del Donbass, ma per stabilire confini tra territori che intanto vengono contaminati, resi inabitabili e distrutti. E oggi salta in aria la diga.
La riconquista non vale un genocidio, non del proprio stesso popolo.
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venerdì 2 giugno 2023

 INVECE DELL’ARMAGEDDON

Meno male che Kissinger ha cento anni, perché se ne avesse cinquanta di meno farebbe dell’Ucraina un Vietnam, dettando tutto da solo le scelte della politica estera americana, come oggi dice di aver sempre fatto in passato. Il Vietnam costò agli Stati Uniti 60.00 morti e 153.000 feriti, per non parlare dei milioni di Vietcong e civili vietnamiti che in quella guerra persero la vita. Ma Biden nonostante le promesse di sostenere l’Ucraina fino alla fine, si guarda bene dal farne il suo Vietnam, e per suo mezzo debellare la Russia. Questo si sta rivelando come un bluff, nel momento in cui l’Ucraina, illusa dalla schiera dei suoi alleati di poter vincere la guerra contro la Russia, si accorge che questo è impossibile e non ha come uscirne: deve rinunziare alla promessa controffensiva di primavera, non riesce a riconquistare le terre irredente, non ha la strada dei negoziati che essa stessa ha precluso, né può dettare la pace alle sue condizioni, come le fanno credere i suoi partners europei; e allora passa a forme di guerra non convenzionale, che per i Grandi è l’atomica, per gli sconfitti è il terrorismo. E così si mette in conto di uccidere Putin, si attacca Mosca con i droni, si fanno saltare i ponti, si bombarda il Nemico oltre il confine e l’Ucraina stessa dice che si tratta di terrorismo, ma che non è il suo.
Ma a questo punto a entrare in crisi sono gli Stati Uniti, che dopo il trauma delle Due Torri hanno fatto del terrorismo di Stato il loro nemico assoluto. E sarebbe contro natura per l’America giungere a uno scontro armato e finale con la Russia, come ha dimostrato con ben diversa sapienza durante tutto il corso della guerra fredda: e ci sono illustri reduci di quella vecchia America che ormai lo gridano sui tetti lanciando appelli alla diplomazia sul “New York Times”.
Se finisce il bluff del “morire per l’Ucraina”, finisce anche il bluff, o l’illusione, del “nuovo secolo americano” e dell’Impero globale dominato dagli Stati Uniti, che non dovevano essere superati, ma nemmeno eguagliati, come dicevano, da alcuna altra Potenza.
Possiamo così sperare che il conflitto in Europa si concluda prima che il suo contagio si diffonda, secondo l’avvertimento che viene dal Kosovo.
M, per noi è troppo poco che questa guerra finisca, innescando magari un lungo periodo di guerra virtuale e di “competizione strategica” fino alla “sfida culminante” con la Cina, come preannunciano i documenti sulla “Strategia nazionale” degli Stati Uniti. Dobbiamo invece uscire dal sistema di dominio e di guerra e passare a un’altra idea del mondo, come un molteplice mondo di mondi in relazione tra loro, fondato sulla pace, sulla cura della Terra e sulla dignità di tutte le creature.
Tutte le reazioni:
Angela Marchini, Lucio Barone e altri 24

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giovedì 11 maggio 2023

 L'AMBASCIATORE, LE STRAGI E LA DONNA SOLA AL COMANDO

1) Il “Corriere della Sera” dell’8 maggio, forse con qualche imbarazzo, ha pubblicato un clamoroso articolo dell’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano in cui si chiede lo scioglimento della NATO, oggi priva delle ragioni per cui è nata. L’articolo dell’autorevole esperto di politica internazionale  dice infatti così: “L’Alleanza atlantica ha avuto una parte utile e rispettabile. Ma la Guerra fredda è finita, il comunismo è sepolto, gli Stati Uniti hanno avuto un presidente come Trump e sarebbe giunto il momento di fare a meno di un’istituzione, la Nato, che ha ormai perduto le ragioni della sua esistenza”. L’accenno a Trump sembra dire che gli Stati Uniti non sono più affidabili, Per giungere a tale conclusione l’articolo richiama l’accordo “fondatore”  Nato-Russia del 27 maggio 1997 in cui era scritto che “Nato e Russia non si considerano nemiche e intendono lavorare insieme per  contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale in conformità ai principi dell’ONU” . Invece è accaduto il contrario: facendo proprie  le parole dello storico Giovanni Buccianti,  l’ambasciatore ricorda che  “in seguito all’implosione dell’URSS (e non alla vittoria degli Usa nella Guerra Fredda)  la NATO prese a svolgere una costosa campagna acquisti di tanti Paesi portandoli tutti a giocare contro la Russia e arrivando ai confini del suo territorio. Possibile che nessuno abbia ancora detto  che così facendo si stava favorendo lo scoppio della Terza guerra mondiale?”. Così Sergio Romano e il “Corriere della sera”. Ma  allora chi ha aggredito chi? 

2) La Siria è stata riammessa nella Lega Araba. Ciò, insieme alla rappacificazione tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla diplomazia cinese, sta cambiando gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti che perseguono altri progetti , e l’Unione Europea, “continuano ad opporsi – scrive lo stesso “Corriere della Sera” - a qualsiasi regolarizzazione dei rapporti”. L’idea sembra essere che alla guerra non si può rinunziare.

3) In Texas ci sono state altre due stragi, che hanno provocato in tutto 16 morti.  Dall’inizio dell’anno ce ne sono state più di 200, cioè più di una al giorno, mentre nel Paese in mani private ci sono più armi (393,3 milioni) che Americani.  Questi corpi del reato in mano a tutti i cittadini sono protetti dal secondo emendamento della Costituzione americana.  Biden ha detto: “perché continuare con questa carneficina?”. Già, perché continuare? Il problema è che a garantire che dalla “Libera Impresa” – uno dei tre cardini del modello di società che gli Stati Uniti vogliono installare in tutto il mondo - non sia escluso il business delle armi, non c’è solo  la Costituzione, ma soprattutto la cultura del Paese. Questa è ancora quella del West, del “chi spara per primo”, ma è anche la cultura che discende dal potere, e che lo stesso Biden e i governi degli Stati Uniti adottano nei rapporti col resto del mondo.  È in forza di questa cultura che, riguardo al nucleare, gli Stati Uniti hanno deciso di passare alla dottrina del “first use”: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare, sta scritto, perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva.

4) Sono partite con una fittizia consultazione delle opposizioni le riforme costituzionali. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando.  Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. Si tratta di un’illusione, quando il Paese, a parte l’establishment, non è affatto di destra. Né si fida di una “destra costituente”, anche per le prove che su questo versante la destra sta dando di sé.   

5) I riformatori costituzionali, di ieri e di oggi, non capiscono che il Paese ama le sue istituzioni; il meno amato è proprio il governo. Da quando Mussolini ha detto che voleva fare della Camera un bivacco di manipoli, il Parlamento è il bene da difendere, non si può profanare.  Ora, su regia del suo presidente La Russa, l’aula del Senato è stata trasformata, come scrive “Critica liberale”, in un  “bivacco pop”,  per far «cantare a Gianni Morandi  “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e altre canzonette da discoteca di paese». La Russa si è anche fatto dare dall’Archivio di Stato l’originale della Costituzione che è inserito negli atti ufficiali delle leggi della Repubblica. Tomaso Montanari se ne indigna, ma nota che una profanazione ben maggiore della Costituzione si sta preparando “con  la manovra a tenaglia del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, due armi letali che se sommate diventano una bomba nucleare capace di annichilire la Repubblica disegnata dai costituenti”. 


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mercoledì 26 aprile 2023

IL 25 APRILE


Che cosa celebriamo il 25 aprile? Celebriamo la nascita di una Repubblica. Potremmo anche dire: la nascita di una Costituzione, perché Repubblica e Costituzione sono per noi dei sinonimi, “simul stabunt et simul cadent” dicono i giuristi, stanno insieme o cadono insieme, non possono stare l’una senza l’altra. Per questo quelli che tradiscono la Costituzione, che la deformano, che la violano, tradiscono la Repubblica o, come dicono loro, la Nazione.
Ma, come tutte le creature, anche la nostra Repubblica ha avuto una gestazione, ha sofferto le doglie del parto, e questa lunga e dolorosa gestazione fu l’antifascismo e la Resistenza. Durante la Resistenza ci fu l’azione partigiana contro le truppe di occupazione tedesche che marciavano in via Rasella a Roma. Per rappresaglia il giorno dopo, il 24 marzo 1944, i Tedeschi uccisero 335 uomini alle Fosse Ardeatine, che stanno a Roma, non stanno a Praga. Chi erano questi 335 uccisi, 10 per ognuno dei 33 tedeschi caduti, poiché questo era il calcolo della loro equazione tra Tedeschi e Italiani?
Io ne conoscevo uno, che abitava nel mio palazzo, in via Bosio 2, avevo allora 13 anni. Lui, la vittima, si chiamava Genserico Fontana, fu prelevato dai Tedeschi dal carcere di Regina Coeli, sotto gli occhi della moglie in lacrime, anch’ella detenuta per ragioni politiche. Chi era Genserico Fontana? Un italiano, certo, ma era un carabiniere di 26 anni, aveva organizzato un gruppo di partigiani per la Resistenza, catturato, si era rifiutato di svelarne i nomi, dopo mesi di carcere finì alle Fosse Ardeatine, di lui è rimasta una medaglia d’oro alla memoria e una targa sulla casa di via Bosio. Era dunque un italiano? Sì, ma era un carabiniere del Regio Esercito, un antifascista, un partigiano, un combattente per la libertà. Perché bisogna dire che anche dal Regio Esercito molti si schierarono contro i Tedeschi e si unirono ai partigiani. Dopo l’8 settembre l’esercito fu chiamato a combattere contro i Tedeschi, ci furono scontri a porta San Paolo, a Roma, a Cefalonia, nell’Egeo, a Corfù, a Spalato, in Sardegna, 87.300 furono i militari italiani caduti tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945.
Questo glielo diciamo a Giorgia Meloni, perché sappia da dove è nato il suo governo, sappia perché lei oggi può governare dopo il lungo tragitto fatto da “underdog”, come dice lei, dalla Garbatella a palazzo Chigi. Può governare perché in questo Paese con la lotta contro il fascismo abbiamo conquistato la democrazia, perchè con la Liberazione anche le donne sono state liberate, hanno ottenuto i diritti politici e sono state chiamate votare, non a dare figli alla Patria, anche senza lavoro, senza asili e senza cure adeguate, e se tutti oggi sono cittadini è perché abbiamo fatto una Costituzione che non è “afascista”, come voleva il monarchico on. Lucifero alla Costituente, ma antifascista.
Perché non possiamo dimenticare l’antifascismo? Per due ragioni. Perché l’antifascismo non è un’ideologia, ma è una categoria interpretativa della storia come il Rinascimento, come il Risorgimento, come la decolonizzazione.
E la seconda ragione è che, proprio per questo, i fascisti li avremo ancora con noi, come è successo anche dopo la Liberazione. Oggi il presidente del Senato La Russa si ferma a Trieste nel suo viaggio per Praga per recarsi ad altri luoghi di sterminio, ma a Trieste egli dovrà fare i conti col ricordo di Ettore Messana che era stato questore fascista di Trieste ma prima aveva installato e diretto la Questura di Lubiana in Slovenia durante l’occupazione italiana, organizzando camere di tortura, espulsioni, internamenti e persecuzioni di ebrei e di altri cittadini sospetti : fu indicato come criminale di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite ma poi riciclato e inviato come Ispettore generale di Polizia in Sicilia, dove ha trescato con la mafia favorendo nei processi i padroni espropriati dei feudi e rapportandosi con la banda Giuliano fino alla strage di Portella della Ginestra.
Ma la Resistenza non è stata solo italiana. È stata anche la Resistenza europea. E basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e di quelli della Resistenza europea per vedere come gli ideali degli uni e degli altri, il sogno per cui morivano, erano gli stessi, era il sogno della libertà, della giustizia, della pace per l’Italia e per ognuno dei Paesi europei coinvolti nel “flagello della guerra” che per due volte nel corso di quella generazione, come dice lo Statuto dell’ONU, aveva portato indicibili afflizioni all’umanità.
È per questa ragione che noi possiamo dire che non solo l’Italia, ma l’Europa, sta tradendo oggi il suo passato, che essa tradisce le ragioni per cui è nata, che sono la pace e l’accoglienza, l’apertura agli altri mondi. Lo ha fatto con la guerra in Jugoslavia, lo ha fatto sobillando e partecipando alla guerra del Golfo per la distruzione dell’Iraq, lo ha fatto abbandonando per 70 anni i palestinesi al loro destino di oppressione e di apartheid, e lo sta facendo ora come dispensiera di armi e partecipe di una guerra ad oltranza con la Russia, che è anch’essa Europa. Una guerra devastante che nella sua forma più cruenta certamente è stata iniziata l’anno scorso dalla Russia ma come guerra etnica era in corso dal 2014 nel Donbass ed è stata stimolata dalla NATO , andata ad abbaiare alle ultime frontiere rimaste sicure della Russia, come ha detto papa Francesco. Ed è questa una guerra che non può finire, perché essa non si può concludere con una vittoria, ma con una vera pace, con negoziati equi e capaci di mediare le ragioni degli uni e degli altri. La guerra si confermerà altrimenti come strutturante dell’ordine internazionale, e la prossima partita, una volta messa fuori gioco la Russia, come dicono i recenti documenti ufficiali pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono, sarà con la Cina, e questacomunque la si dovrà giocare e vincere, se inevitabile anche con la guerra, perché l’idea del mondo è che esso debba essere unificato sotto un unico potere, un solo dominio; questa è la “sfida suprema”, e a questa dovremmo partecipare anche noi, l’Occidente.
Ma noi per questo celebriamo il 25 aprile. Perché noi abbiamo un’altra idea del mondo. La nostra scelta è per la pace, è per la fedeltà ai valori e agli ideali della Resistenza italiana e della Resistenza europea. Noi pensiamo piuttosto che si debbano sviluppare le istituzioni e l’ “acquis communautaires” dell’ordinamento delle Nazioni Unite.
Nella Costituzione italiana c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra. È un termine forte, vuol dire rompere un legame indissolubile, che nella storia c’è sempre stato, della politica con la guerra. Non c’è scritto che l’Italia ripudia una guerra sì e l’altra no, ripudio la guerra di aggressione ma non la guerra umanitaria, ripudia la guerra come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali ma non la guerra per la democrazia, per affermare i valori dell’Occidente, per distruggere la Russia, la Cina e fare un unico Impero.
C’è scritto che ripudiamo la guerra e tutte le guerre, compresa la guerra contro i migranti che stiamo combattendo quando impediamo i soccorsi nel Mediterraneo e quando ai migranti togliamo la protezione che chiamiamo “speciale” e invece dovrebbe essere ordinaria e senza limiti, perché l’immigrazione è un fenomeno strutturale, e se 10 anni fa c’erano 60 milioni di migranti oggi ce ne sono 100 milioni. La nuova lotta di Liberazione la dobbiamo fare oggi, guardando il mare, che dobbiamo rendere un mare di umanità e di accoglienza.
Certo i migranti sono diversi da noi, parlano altre lingue, praticano altre religioni, spesso hanno anche un altro colore. Ma la pace si fa appunto con quelli che sono diversi da noi, perché l’alternativa è una sola: o gli altri li riconosciamo come eguali, come compagni, come “fratelli” della stessa umanità, tutti “nati da donna”, come noi, oppure li trattiamo come nemici. La pace vuol dire non avere nemici. Cutro non si deve ripetere, la domanda di vita, di libertà, di accoglienza, di giustizia, viene oggi da lì.

(Discorso tenuto il 25 aprile a Reggio Calabria)
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giovedì 30 marzo 2023

 

In balia di armi, denaro e potenti


Ahi serva Europa


“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà, un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a stare senza guerra.

Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio al fine di costruire, e non ai cannoni e ai carri armati al fine di distruggere, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente a quelli di altre comunità e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua  sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’”idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come aveva ispirato le lettere dei condannati antifascisti (l’identità cancellata da Giorgia Meloni) della Resistenza europea.

Ed ora che cosa è diventata? Sono i segni di questo suo tempo che ce lo hanno rivelato e l’ultimo Consiglio europeo ce l’ha mostrato con la massima evidenza. L’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del  25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità  e lo sguardo sul mondo, Ursula Von der Leyne e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro, dimentico della storia, andato a chiedere di votare i  “crediti di guerra” ai partiti socialisti a Bruxelles, come alla vigilia della prima guerra mondiale.

Ma non solo: l’Europa non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitore” sono gli Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative: l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale” che la loro sicurezza, la loro difesa e  l’obiettivo della loro bulimia militare  stanno nel fatto che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.   

Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta sociale ad oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di Zelenski, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali  per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi  vecchi e bambini costretti a morire anche loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta ad unirsi.  È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, ad Est, alla Russia e alla Turchia, e ad Ovest, non solo a un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? E quanto dobbiamo aspettare per  vedere arrivare qui una vera Schlein,  non il dominio del passato ma il coraggio del cambiamento?

Articolo pubblicato su Il fatto quotidiano del 29 marzo 2023

 

 

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giovedì 22 dicembre 2022

CHE GUERRA  E' 

 Zelenski non è Churchill e  Churchill non andava in giro vestito da soldato, ma come Churchill andò nel 1941 nella baia di Terranova per invocare l’intervento di Roosevelt  nella II guerra mondiale, così ora Zelensky è andato in America per chiedere a Biden e al Congresso – che lo ha festosamente accolto – il pieno coinvolgimento degli Stati Uniti nella sua guerra personale contro la Russia. Ne ha avuto piena assicurazione, in pensieri opere ed armi, ma con l’esclusione dei dolori e del sangue lasciati al patimento del solo popolo ucraino.  Questo è il prezzo della vittoria, se a tutti i costi la si vuole invece che la pace; questa la vorrebbero i popoli ma purtroppo non gli Stati e le loro organizzazioni collettive, militari, politiche  e giuridiche.

Se guerra è,  sotto mentite spoglie essa è già una guerra mondiale. È importante allora riconoscerla. È la stessa guerra che è stata combattuta nelle forme della guerra fredda nei decenni intercorsi tra la vittoria antifascista del 1945 e la rimozione del muro di Berlino nel 1989, e anche  il Nemico è lo stesso, benché  non più con la motivazione del comunismo, mentre il Muro, non più di pietra, non ci divide  meno di allora.  Per una residua saggezza delle classi dirigenti dell’epoca e la resistenza dei movimenti popolari allora si evitò che la guerra fredda precipitasse in una guerra totale. Oggi non si vedono precauzioni  che vengano assunte contro questa eventualità. È possibile però che la guerra sia stata assicurata e resa libera all’esercizio da un accordo stabilito tra i Servizi segreti per cui non si giunga fino all’uso delle armi nucleari. Così racchiuso nel segreto il futuro non può essere controllato da noi  mentre la politica è irrisa, il diritto impotente e la democrazia è sospesa. Dal canto suo l’Europa è distratta dalla corruzione, e l’Italia promuove la caccia ai cinghiali nelle ZTL.
In tale situazione ognuno deve prendere le sue responsabilità e decidere in che cosa deve sperare.
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mercoledì 16 novembre 2022

 LA LEZIONE


Naturalmente si può ammettere che il missile ucraino che ha colpito la Polonia, Paese la cui protezione è garantita dalla totalità degli armamenti convenzionali e nucleari di tutti i Paesi della NATO, non sia stato lanciato da Kiev per provocare una indignazione universale contro la perfida Russia (come peraltro è avvenuto), né per suscitare una ritorsione militare e politica contro di essa, né per bloccare i timidi tentativi americani di forzare Zelensky alla trattativa per un “cessate il fuoco”, ma che, come ha detto Erdogan a Bali, sia stato lanciato “per un errore tecnico”. Dunque nessuna volontà perversa, tutti possono sbagliare, tutti sono innocenti.
Resta il fatto che per molte ore l’ipotesi o addirittura l’opzione di una guerra mondiale nucleare è stata sui tavoli delle Cancellerie, dei Consigli di guerra, dei Comitati di difesa, dei Quartieri generali, dell’intera schiera dei Capi del mondo riuniti per tutt’altri motivi a Bali, oltre che essere avanzata nelle tifoserie dei nostri giornali e TV. Se questo fosse accaduto, sarebbe avvenuto contro l’intenzione, le previsioni e la volontà di tutti, perché tutti dicono, e con grandissima probabilità ne sono convinti, che una tale guerra non si deve fare. Tutti tranne uno, Zelensky, che addirittura voleva sciogliere l’ONU, perché di ostacolo a una guerra mondiale fatta ad uso dell’Ucraina. In ogni caso egli ci prova in altri modi: non per errore pone dieci condizioni impossibili come pregiudiziali a un negoziato con la Russia; né per errore si presenta a Kherson come “il condottiero” (Corriere della Sera) che si fa tributare il trionfo per la ritirata dei Russi dalla città, e con i soldati celebra le “vittorie sul campo grazie alle armi dell’Occidente e pagate col sangue ucraino”, con la mano sul petto e gli occhi alla bandiera, salendo, come diceva Joseph De Maistre, “su un mucchio di cadaveri da cui si vede più lontano”: 100.000 Ucraini, 100.000 Russi che sono i morti in questa guerra fin qui, e centinaia di migliaia di famiglie devastate; mentre altrettante e altrettanti ce ne saranno nei prossimi mesi, se questi saranno come quelli che abbiamo gestito finora. “Una inutile strage” secondo il lessico di un Papa come Benedetto XV, “fuori della ragione”, secondo il lessico di un Papa come Giovanni XXIII, “una sconfitta di fronte alle forze del male”, nel lessico di Papa Francesco, “una vittoria di David contro Golia” e “l’odio per l’invasore che non si placherà” nel lessico del Corriere della Sera.
Ce n’è abbastanza per dire che a una situazione parossistica come questa, capace di portarci per un errore alla fine del mondo, occorrerebbe porre al più presto rimedio.
Tutto ciò però oltre che farci misurare la portata etica della nostra delittuosa partecipazione, armi e bagagli, a tale assassinio di massa, si presta a una lettura geopolitica degli eventi come quella che si trova nelle riviste bene informate, e ci fornisce una lezione.
La lettura è che questa guerra europea, come tutte le guerre europee a cominciare dalla prima guerra mondiale e fino alla guerra della NATO per il Kosovo, in realtà ha come posta in gioco il potere mondiale: le guerre che si combattono in Europa non sono mai solamente delle guerre europee. Questa è in effetti solo un episodio, dislocato nella “martoriata Ucraina” (Francesco), della lunga partita che si è aperta con l’evento del 9 novembre 1989 di cui nel recente anniversario si sono impadroniti la nostra presidente del Consiglio e l’ignaro (di politica e storia) ministro della ex Pubblica Istruzione: la rimozione del muro di Berlino. La partita che allora si aprì non fu, come avevamo sperato, quella per instaurare un ordine non più nucleare e diarchico ma pluralistico e pacifico, ma quella per istituire un sovrano universale di un mondo ormai globalizzato e obbediente al modello unificato di “Libertà Democrazia e Libera Impresa”. Gli Stati Uniti avanzarono la pretesa di essere loro questo sovrano e l’hanno teorizzato nella loro “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, “sicurezza” che venne ufficialmente identificata col governo del mondo. L’investimento americano a questo fine, (“nessuno deve avere una forza non solo superiore, ma nemmeno pari a quella degli Stati Uniti”), è di quasi 1000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti. Noi come Europa, divenuta area “euro-atlantica”, siamo chiamati a partecipare a questa sovranità, traendone vantaggio, al prezzo della perduta identità e del rinnovato rischio nucleare.
La lezione che ora si può trarre dalla guerra in corso, che tiene in scacco la Russia e dovrebbe intimidire la Cina, è che questo processo verso il dominio mondiale di una sola grande Potenza non si può fermare con la guerra. Esso pertanto deve essere fermato in un altro modo: con la politica, l’economia, le culture, il diritto, le fedi.
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