venerdì 29 maggio 2020

ALLARME PALESTINA

Come sappiamo sulla via della costruzione di un’unica comunità umana capace di dotarsi di una Costituzione mondiale molti sono gli ostacoli che l’attuale crisi pandemica ha reso ancora più pressanti e tali da condizionare ogni futuro sviluppo. Uno di questi, il nodo palestinese, che il circuito informativo ha abbandonato a se stesso e che ignora come se non esistesse più, torna oggi drammaticamente in primo piano per il programma del governo Netanyau, risalito al potere in Israele, di annettersi i territori palestinesi della Cisgiordania e di Gerusalemme, con l’avallo di Trump che spaccia come un “piano di pace” la proposta di comprare la resa palestinese per un paio di dollari. I palestinesi, la Giordania, le Chiese cristiane e i vescovi di Terrasanta protestano e insistono per una soluzione politica che salvaguardi il popolo palestinese e la pace nel mondo, ma tutti gli altri, a cominciare dall’Italia e dall’Europa, stregati dal virus, tacciono e guardano dall’altra parte. Pateticamente ieri, 28 maggio, la Comunità palestinese di Roma ha tenuto un sit in davanti alla sede della RAI in viale Mazzini, perché in un programma chiamato “L’eredità” in onda su RAI 1 il 21 maggio scorso, il conduttore aveva corretto una concorrente che aveva indicato Tel Aviv come la capitale dello Stato d’Israele, affermando che la capitale era invece Gerusalemme. In realtà Gerusalemme è una città dilaniata e occupata, divisa in se stessa tra la sua parte dell’Ovest e quella dell’Est, e divisa dal resto del territorio di Palestina da presidi armati e da muri che non sono le storiche mura di Gerusalemme, ma muri e strade di separazione. Israele l’ha proclamata sua capitale per sempre, e Trump ha apposto su questa decisione il suo sigillo imperiale spostando a Gerusalemme l’ambasciata americana, mentre tutte le altre rappresentanze, a cominciare da quelle italiana ed europee sono rimaste a Tel Aviv. Ma oggi il dramma precipita ben al di là della questione della capitale, in mano a un Trump che non fa altro che giocare con le catastrofi, che si tratti del confronto nucleare con la Corea del Nord, o della sfida lanciata al disastro ambientale ed ecologico, o della gestione irresponsabile della pandemia, o dell’escalation dello scontro con la Cina e con le maggiori Istituzioni internazionali. Aggiungere a questo bizzarro e insano inventario il colpo di mano di una liquidazione iniqua della questione palestinese, dando fuoco alle polveri proprio là dove tutto è cominciato, getterebbe sull’equilibrio già precario del tempo presente un carico insopportabile creando una massa critica pronta ad esplodere.
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martedì 26 maggio 2020

L’UNIGENITA


Dopo quel tempo straordinario e di profondissima crisi marcato dalla pandemia, che svelò nei primi mesi dell’anno 2020 ciò che già da molto si sapeva e temeva ma che non si era voluto vedere, i discepoli cominciarono ad interrogarsi se non fosse stata resa vana la croce di Cristo. Essi in suo nome avevano annunciato la salvezza e la salvezza non c’era. A partire dal primo giorno dopo il sabato, quello della Pasqua, che quell’anno la Chiesa aveva celebrato nell’assoluta nudità dei riti senza potersi riunire a convegno, i discepoli, alla lettura degli Atti degli apostoli che la liturgia proponeva ogni mattina (e questa volta con un’udienza mondiale a partire da Casa Santa Marta) si domandavano dove avesse potuto determinarsi il corso delle cose che aveva portato alla triste situazione presente.
Stava scritto, in quegli Atti, che i primi discepoli avevano annunciato agli Ebrei increduli e scandalizzati la resurrezione di Gesù come una svolta nella storia della salvezza, tale per cui nel momento stesso in cui era confermata la promessa del Padre al popolo d’Israele – perché i doni di Dio non sono mai revocati – essa veniva estesa all’umanità tutta, senza alcuna distinzione di nomi e di identità pagane o credenti.
Così avevano detto Pietro, Giovanni, Stefano, Giacomo, Filippo, Barnaba e poi Paolo e questo si erano sentito dire tutti quelli che in quei febbrili anni della Chiesa nascente li ascoltavano e li perseguitavano, che si trattasse del Sinedrio, dell’eunuco etiope, di Cornelio, dei greci di Antiochia o dei beffardi ateniesi dell’areopago . Da Gerusalemme fino ai confini del mondo, dal popolo ebreo al “non popolo” di tutti gli  “abitanti del pianeta” (come scriverà duemila anni dopo papa Francesco nell’indirizzo della “ Laudato sì”), questa era l’intenzione inclusiva di Dio, incarnatosi in Gesù, che essi osavano annunciare e di cui volevano porsi al servizio fino al dono della vita.
Ma se questa novità trovò accoglienze diverse, di adesione o diniego,  per nessuno fu oggetto di un rifiuto così angosciato come per gli Ebrei delle Sinagoghe e del Sinedrio. Nella loro memoria storica c’era un dramma che essi non cessavano di rievocare ogni anno nella festa dell’espiazione, lo Yom Kippur. Ancor oggi quella celebrazione collettiva della “giornata del pentimento d’Israele”  comincia con una preghiera che dice: “Di tutti i voti, le rinunce, i giuramenti  gli anatemi, oppure delle promesse ammende od espressioni attraverso cui facciamo voti, ci impegniamo o promettiamo, di qui fino al prossimo giorno dell’espiazione noi ci pentiamo, in modo che siano tutti sciolti, rimessi e  condonati, nulli, senza validità e inesistenti. I nostri voti non sono voti, le nostre rinunce non sono rinunce, e i nostri giuramenti non sono giuramenti”. Come mai oggetto di pentimento non sono i peccati ma i giuramenti, gli impegni, i voti, le scomuniche? Secondo il filosofo ebreo Jacob Taubes, che ne diede conto in un corso sulla lettera di san Paolo ai Romani nel 1987 al Centro studi della comunità evangelica di Heidelberg[1],  ciò che gli Ebrei vogliono esorcizzare in quel rito è il giuramento, l’impegno, la decisione che Dio aveva preso di revocare la sua alleanza con Israele e anzi distruggerlo, quando il popolo uscito dall’Egitto gli aveva voltato le spalle e si era fatto il vitello d’oro (Es. 32,9-10).
Il rischio era stato terribile. Dio, che parlava con Mosè faccia a faccia, gli aveva detto:” ho osservato che questo è un popolo di dura cervice, lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga”. Di Mosè disse invece: “di te farò una grande nazione”. Dunque voleva sostituire l’elezione del popolo d’Israele con l’elezione di un altro popolo, di cui lo stesso Mosè sarebbe stato il capo e il principio. Se questo non avvenne è perché Mosè non accettò, implorò il Signore, lo convinse a desistere dal suo disegno, a non tradire il giuramento fatto ai Padri. Secondo una lettura talmudica Mosè “afferrò il Signore” e compì il rito dello scioglimento di Dio dal giuramento della distruzione; e a Dio che obiettava che proprio questo aveva giurato, Mosè replicò : ci hai insegnato che i giuramenti si possono sciogliere; e Dio abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo. L’interpretazione di Taubes è che il giorno dell’Espiazione trasponga nel rituale la controversia tra Dio e Mosè: la sera dello Yom Kippur è percorsa da questo brivido. 
Al tentativo di una lettura accomodante di questa preghiera, secondo la quale essa avrebbe semplicemente lo “scopo di annullare giuramenti e voti pronunciati in modo affrettato”, Taubes replica che “è pura follia credere che un brivido percorra un intero popolo fin nell’intimo della sua anima, dalle comunità dello Yemen fino a quelle della Polonia, solo perché sono in gioco un paio di voti affrettati”. Come dice un altro grande studioso ebreo, Franz Rosenzweig (“La stella della redenzione”), in quella preghiera per l’annullamento di tutti i voti, di tutte le autoconsacrazioni e dei buoni propositi, l’assemblea liturgica ebraica si pone davanti a Dio come “davanti a colui che la possa perdonare come ha perdonato l’intera comunità d’Israele e lo straniero che soggiornava in mezzo a essa”.
Secondo Jacob Taubes  quel trasferimento dell’elezione dal popolo ebreo a un altro popolo  (“di te farò una grande nazione”) che si scontrò col rifiuto di Mosè, è lo stesso problema di fronte a cui si trovò Paolo: il popolo aveva peccato  rinnegando il Messia giunto fino a lui; Paolo non si tira indietro (Damasco!) ma neanche lui ammette una sostituzione di quel popolo con un altro (perché anzi “tutto Israele” si salverà) bensì proclama l’estensione della sua elezione a tutti, senza distinzioni di identità, ponendo qui l’origine della vocazione per tutti i popoli.
Questo fu infatti l’annunzio dei primi testimoni. Dal giorno della resurrezione fino al Concilio di Gerusalemme, fino a quando i discepoli assunsero il nome di “Cristiani”, la predicazione degli apostoli e della prima Chiesa non contemplava affatto il passaggio dell’elezione dagli Ebrei ai Cristiani, ma l’estensione dell’elezione all’intera  “chiesa di Dio”, all’umanità tutta. Scrisse Paolo ai Corinti che si dividevano tra loro dicendo: “Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa e io di Cristo”: si può dividere il Cristo?
Qualcosa avvenne però al Concilio di Gerusalemme. Ciò che in quella occasione parve bene allo Spirito Santo e agli Apostoli fu di grandissima importanza per la liberazione della fede dalla prigionia della legge, però fece sì che essa la prima volta venisse definita  per differenza in rapporto all’ebraismo, col rischio di essere intesa come un’eresia ebraica. Il cristianesimo come ebraismo senza circoncisione. Questo fu l’inizio del tormentato rapporto tra le due religioni per tutta la storia successiva, prima che si giungesse al fraterno dialogo di ora. A ciò si aggiunga che proprio in quel Concilio di Gerusalemme il più giudaizzante, Giacomo, interpretò l’estensione dell’alleanza come l’atto con cui Dio aveva voluto scegliersi “tra gli stranieri un popolo consacrato al suo nome”, un altro popolo che non fosse Israele, cioè proprio quello che Mosè aveva scongiurato e di cui Dio si era pentito, e che per gli  Ebrei rimaneva come un incubo. Ad Antiochia quell’altro popolo aveva preso un nome: erano i Cristiani; non il popolo di tutta la Terra, ma un popolo accanto agli altri popoli della terra.
Nonostante la “Lettera a Diogneto” per secoli la Chiesa si è pensata così, come il vero popolo di Dio; ma, entrata nel regime costantiniano, divenuta “cristianità”, non ne ha avvertito l’aporia perché di fatto, tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente si è percepita come coestensiva al mondo allora conosciuto; certo, non esteso all’Estremo Oriente, ma per esso c’era stato all’inizio come un presagio quando alla partenza della missione di Paolo, Sila e Timoteo, “lo Spirito Santo aveva vietato loro di predicare la parola nella provincia dell’Asia” (At. 16,6), per cui essi si volsero verso la Macedonia e l’Occidente.
Ma poi quell’apparente universale comunione si ruppe. Apparve il popolo di Maometto, si divisero le Chiese d’Oriente e d’Occidente, nacquero Stati dentro la stessa Cristianità l’un contro l’altro armati, l’America “scoperta” svelò un nuovo mondo e i popoli conquistati furono considerati di dubbia umanità, dall’Africa si trassero schiavi, gli ebrei furono perseguitati e nuove nazioni si pretesero elette, partì la colonizzazione dell’India e dell’Asia; con tutto ciò i cristiani non potevano essere percepiti come la Parola unigenita di Dio partorita nella pienezza dei tempi nella storia di tutti,  ma furono società sempre più identitarie, magari “perfette”, popoli con altri popoli e contro altri popoli. Non solo era “il Cristo diviso”, ma l’umanità era frammentata, impedita - per spirito mondano ma anche per impossibilità religiosa - a ricomporsi, a trovare la sua unità. Sarebbe stato piuttosto l’altro principe, il denaro, a pretendere nel suo nome l’unificazione del mondo.
Questo il flashback della nostra storia che le circostanze eccezionali di questa Pasqua ci hanno evocato; certo sommario, come tutti i flashback.  E che dire oggi? Mai come oggi il mondo si è trovato di fronte alla necessità di unirsi o perire; mai come oggi si trova ad assumere questa istanza come un compito non solo etico ma politico, e financo costituzionale e giuridico, e anzi ha cominciato a farlo; mai la resurrezione traboccante come misericordia non su pochi, eletti o predestinati,  ma su tutti, è stata palpabile come nel vuoto di piazza san Pietro.
E allora forse si capisce il significato ultimo del pontificato di papa Francesco, in ripresa e a coronamento del Concilio Vaticano II: si capisce questo suo porsi all’incrocio delle due salvezze, questo abbracciare tutti, questa sua uscita dal “regime di cristianità”, questo suo ripartire da Lampedusa e da Bangui, questo suo amore per la pace della Siria e della Terra santa, questa correzione di rotta per cui la Chiesa non sia più una copia o una forma dell’Occidente; si capisce questo spogliarsi delle armi del proselitismo, questa fratellanza oltre ogni denominazione religiosa, questo suo annuncio della misericordia ricalcando nel suo messaggio petrino quello stesso di Gesù consistente nella rivelazione del Padre, del Dio inedito e ignoto, padre e pastore di tutti. È come se proprio ora, in un’età così avanzata della storia, fiorisse come fiore di mandorlo, il primo fiore della primavera, il gesto estremo di Dio che esce dalle sue altezze e si scambia col dolore del mondo, non solo con questo o quel popolo , ma con l’umanità tutta intera, l’Unigenita.

[1] Jacob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Milano, Adelphi, 1987.
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venerdì 15 maggio 2020

IN QUEL TEMPO


In quel tempo c’era stato un editto del governo per il quale nessuno si doveva baciare, certe regioni avevano mandato i malati fuori dai loro ospedali e i morti spedito ad altri cimiteri e c’era stato anche un concordatino tra Stato e Chiesa, a prova del fatto che nessuno voleva limitare la libertà di culto. Esso dettava minuziose norme sulla celebrazione delle messe: queste, come era noto ai contraenti, sono il modo simbolico (e per i teologi anche reale) in cui viene rappresentata quella cena in cui il Signore Gesù spezzò il pane lo scambiò con i suoi discepoli e lavò loro i piedi. Ma con le regole di oggi e perché il simbolo mantenga la sua verosimiglianza con l’evento, occorrerebbe  che Gesù avesse parlato attraverso la mascherina, avesse spezzato il pane con i guanti, lo avesse non dato nelle mani ma fatto balzare nei piatti dei Dodici, si fosse dimenticato di versare il vino, avesse lavato i piedi agli apostoli stando a distanza magari con una lunga spugna o, ancor meglio, non glieli avesse lavati affatto. E quanto a Leonardo da Vinci avrebbe dovuto dipingere una tavola di tredici metri uno per commensale o più se alla cena fosse stato ammesso qualche altro ospite contato.
Basta questo per dire come quello dovesse essere un tempo del tutto straordinario e anzi di profondissima crisi. In effetti c’era, rubando per sè tutta la scena, la crisi sanitaria suscitata dalla pandemia. Ma c’era anche la crisi dell’intero sistema globale che l’aveva provocata e incrudelita, la crisi del denaro creduto onnipotente ma prigioniero per altri scopi che non quello del bene comune e di altre persone che non quelle che con la fatica e il lavoro lo moltiplicavano sulla terra. E c’era una crisi nella Chiesa, perché non si era mai visto un Vangelo svelato ogni mattina al mondo da Santa Marta, un Vangelo che si pensava già saputo e risaputo e che invece giungeva come nuovo, come uno scoop; e per molti nella Chiesa quello appariva un discorso troppo duro tanto da non volercisi immischiare, o anche da volersene andare o magari, invece di andarsene, imperversare con i loro attacchi e distruggere.
Dunque un tempo di crisi. Ma forse era anche il tempo di un’altra cronologia, il tempo atteso, quello promesso in cui tutto sarebbe cambiato, un principio di vita nuova non più circoscritto al tempio di Gerusalemme né trattenuto nelle sue mura né imprigionato dal suo muro postumano e dai mille altri muri di separazione sparsi nel mondo. Il tempo è questo aveva detto Gesù alla Samaritana, il tempo è questo, stava scritto in testa al sito di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” e questa era la profezia di tutta la Chiesa.
Se dunque si incrociavano due tempi, quello atteso e quello della crisi, anche i segni del tempo apparivano contrastanti, segni di tormenta e segni di aurora.
Ma se davvero era quello un tempo così speciale, un duplice tempo, un tempo da cambio d’epoca, ci voleva una risposta straordinaria per accoglierlo, per lavorarlo, per viverlo. E per affrontarlo ci voleva una Chiesa profondamente rinnovata, quale mai era stata pensata dopo il tempo delle origini.
Essa era cresciuta e aveva preso la fisionomia attuale in un’altra epoca, detta di “cristianità” che ormai era finita e anzi licenziata. La riforma di cui essa aveva bisogno andava ben oltre il matrimonio dei preti e i ministeri femminili, ma in quello stato di cose la Chiesa questo non lo poteva fare. A compiere l’opera doveva essere il pontificato e la Chiesa di Francesco, in continuità col Concilio. Ma papa Francesco, mentre realizzava la riforma più radicale che è la pubblicazione del Dio ancora inedito, nella riscoperta trasfigurante della persona del Padre, ha spiegato da Santa Marta che dentro questa crisi, della Chiesa e del mondo, non era possibile fare i cambiamenti che pure si vorrebbero. Come dice un proverbio della sua Argentina, “quando passi un fiume non cambiare cavallo”: in tempi di pace si possono fare miracoli, come dicono gli Atti degli Apostoli, ma quando c’è la crisi e la gente non regge le parole di vita e se ne vuole andare, tanto che Gesù chiese agli apostoli se se ne volevano andare anche loro, non bisogna sfidarla con la necessaria discontinuità.
Ma allora se non era la Chiesa e neanche le religioni stabilite che potevano operare il cambiamento in quel tempo di crisi, chi doveva e poteva farlo perché il tempo nuovo caricasse le vele? Era il mondo che doveva farlo, lui era il soggetto della liberazione, l’umanità tutta intera, il popolo di Dio nella sua dimensione più ampia che abbraccia tutta la Terra. Questo è il popolo amato dal Padre e chiamato alla salvezza, il popolo di Dio, dentro e fuori le Chiese, di ogni denominazione e senza denominazione. È il vasto popolo del mondo che non ha un suo nome che lo distingua, come è dei Greci o degli Spagnoli, perché il suo nome sarebbe quello di Dio, ma il nome di Dio non è esprimibile in termini umani. Perciò i musulmani invocano i 99 bei nomi di Dio ma non giungono all’ultimo, perciò nell’ebraismo esso è nascosto nel tetragramma sacro, perciò nel cristianesimo non c’è altro nome al di sopra del nome di Gesù, perché il nome di Dio è il suo stesso essere, “Io sono”. Perciò non si può nominare il nome di Dio invano, perché nessuno possa appropriarsene per distinguersi gli uni dagli altri. Non si può spartire. Si può essere buddisti, confuciani, animisti, maomettani, anche cristiani, ma col nome di Dio nessuno si può far differenziare. La tunica non si divide.
Ma in che modo il popolo di Dio che è l’umanità tutta intera poteva e può farsi protagonista dell’avvento del tempo nuovo?
La formula è semplice: convertitevi e credete al Vangelo, è l’invito rivolto da Gesù alle folle all’inizio della sua predicazione.  Ma quale Vangelo? Per noi i vangeli sono i quattro ben noti, di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, ma c’è anche un quinto vangelo, il vangelo di Gesù. Naturalmente è lo stesso Vangelo, e quello di Gesù è contenuto e anche nascosto negli altri quattro.
Ma c’è una differenza: i quattro Evangelisti parlano di Gesù, e questi
sono i pilastri su cui è costruita la Chiesa; il quinto vangelo, il Vangelo di Gesù parla del Padre, e anche quando parla di sé lo fa per far vedere il Padre e lo rivela, ne fa l’esegesi come Padre e pastore di tutti senza discriminazione di lingua di religione o di peccato.
Il Vangelo di Gesù è dunque un Vangelo non denominazionale e ad esso davvero possono convertirsi tutti i popoli della Terra: paternità, fraternità, grazia di Dio, tutto, tutto, come diceva papa Giovanni nel suo discorso della luna. E pace, mitezza, servizio ai poveri, pane spezzato, lavoro non schiavo; e come pastori, dice Francesco, non solo i ministri del culto ma i medici, i governanti, e le donne, anello più alto della congiunzione tra uomo e natura.
Papa Francesco è all’incrocio di questi processi: conversione della Chiesa nel rinnovato annuncio del vangelo di Gesù sul Padre e conversione del mondo nell’apertura al vangelo narrato da Gesù anche senza conoscerlo o magari scoprendone nei cristiani la memoria al loro spezzare il pane.
In ciò forse consiste il mistero Bergoglio. Si parlò ai tempi del Vaticano secondo di un “mistero Roncalli”, perché senza mai averci pensato prima, aveva indetto il Concilio per mettere a nuovo la Chiesa. Ora il mistero Bergoglio, la sua missione di papa sembra essere quella di mettere a nuovo il mondo. In questo c’è la vera continuità con Francesco d’Assisi. Francesco ebbe la visione che dovesse restaurare la Chiesa. Fu interpretato che dovesse restaurare la chiesa di san Damiano, poi che dovesse restaurare la Chiesa romana. Ma lui non la prese così; il suo vero orizzonte fu il servizio a tutte le creature, fu il restauro del mondo, anche in nome di un Vangelo, quel quinto vangelo, ai più sconosciuto. Per questo si spogliò delle armi della crociata, e per questo andò dal Sultano. Dopo di ciò “pace e bene” è stato l’augurio uscito da milioni di bocche.
Papa Francesco è in questa linea di successione. Predica il vangelo di Gesù, ossia il vangelo sul Padre; vorrebbe, a saperle, dire le parole corse sulla strada di Emmaus, quando era Gesù a spiegare le Scritture ai discepoli. E nel far questo nello stesso tempo indica e promuove la restaurazione del mondo. Nella giustizia. È come se respirasse con due polmoni, quello del popolo della Chiesa e quello del popolo del mondo, la diastole e la sistole di un unico cuore da cui procede un unico respiro; la Chiesa dei santi, dei richiedenti asilo nel Regno, e quella degli uomini tutti, la vera Chiesa.
Sarà questa la nuova “cristianità”, che non avrà questo nome, e anzi alcun nome, perché non si può né possedere né spartire il nome di Dio? Perché la secolarizzazione è irreversibile.

Raniero La Valle

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