Intanto c’è voluto un grande coraggio evangelico (“in sacris” si chiama parresìa) per mettere insieme patriarchi, cardinali, vescovi e religiosi di tutta la terra in una liturgia penitenziale ad accusare se stessi “come persone e come istituzione”, e indurli a passare da un “atteggiamento difensivo-reattivo a salvaguardia dell’Istituzione” a una ricerca sincera e decisa del bene della comunità “dando priorità alle vittime di abusi in tutti i sensi”. Così si sono visti i confessori che si confessano, i perdonatori che chiedono perdono, i ministri che impetrano per sé prima ancora che per i fedeli loro affidati: una cosa “affatto inusuale” nei Palazzi del “potere” terreno e celeste del Vaticano, dice con molto tatto Rosanna Virgili; diciamo pure mai accaduta prima.
C’è voluto coraggio a convocare non un Concilio e nemmeno un Sinodo, che sono cose riservate al clero, ma un inedito incontro mondiale che “in maniera sinodale” ha compreso in sé i laici, e tra questi le donne, quasi ad anticipare una Chiesa del futuro senza più “clericalismo”, ossia senza più il dominio riservato di una classe di ministri ordinati maschi e celibi il quale, secondo il papa, non è il volto migliore della Chiesa. Infatti “il volto migliore della Chiesa” ha detto Francesco nel discorso conclusivo “è il santo e paziente popolo di Dio; e sarà proprio questo santo popolo di Dio a liberarci dalla piaga del clericalismo, che è il terreno fertile per tutti questi abomini” ; gli abomini sono gli abusi sui bambini, che non sono solo abusi sessuali ma, come insiste a dire il papa, specie se commessi dal clero sono anche abusi di coscienza e di potere.
Sicché proprio in questo dramma che sta vivendo la Chiesa si affaccia, come ne ebbe presentimento il Concilio Vaticano II, non una Chiesa in cui il laicato è un personaggio in cerca d’autore, bisognoso di una teologia che lo giustifichi, ma una Chiesa non clericale, nella quale cade anche il presupposto della discriminazione delle donne.
E qui pure c’è voluto del coraggio a spiegare, come ha fatto il papa dopo aver sentito la relazione di una donna, la dottoressa Ghisoni, che ella non era stata invitata a parlare in virtù di un improbabile “femminismo ecclesiastico” (contro il divieto di far parlare le donne nelle chiese trasmesso da Paolo ai Corinti), ma perché invitare a parlare una donna sulle ferite della Chiesa è invitare la Chiesa a parlare su se stessa, sulle ferite che ha. “E questo è il passo che noi dobbiamo fare con molta forza”, ha detto il papa; riconoscere che “la donna è l’immagine della Chiesa che è donna, è sposa, è madre”, e ne porta lo stile; “senza questo stile parleremmo del popolo di Dio ma come organizzazione, forza sindacale, non come famiglia partorita dalla madre Chiesa”. Certo, bisogna dare più funzioni alla donna nella Chiesa, ma così non si risolve il problema, pensa il papa, “si tratta di integrare la donna come figura della Chiesa nel nostro pensiero, pensare la Chiesa con le categorie di una donna”. È il suggerimento che in prospettiva più generale già dava il filosofo e teologo Italo Mancini, quando di fronte ai guasti del mondo proponeva il contromovimento del “principio femminile”, il diritto di Antigone, il diritto del più umile, del più elementare, di quanto è più legato ai nutrimenti terrestri, di quanto è vincolato dalla pietà, di contro a quanto è faronico, zeusico e legato agli splendori del cielo, a quel dominio dell’alto che è tanto vicino al trono dei potenti: pietà contro maestà. Ma a questo punto come si potrebbe continuare ad escludere le donne dai ministeri ecclesiali con l’argomento che Gesù era maschio?
E c’è voluto del coraggio a cambiare l’oggetto dell’Incontro, che all’inizio doveva riguardare non solo la protezione dei minori ma anche degli “adulti vulnerabili”, cioè l’omosessualità, ma poi è stato concentrato sui bambini. Ne hanno approfittato i polemisti per accusare Francesco di sottovalutare l’impatto dell’omosessualità nel clero, ma la separazione dei due temi ha permesso al “summit” di non ridurre la violenza sui bambini a un problema interno alla Chiesa, quasi corporativo, banalmente spiegato col vincolo alla castità dei preti, come dice il volgo, ma di farne un grande tema di presa di coscienza mondiale, di porre il problema della protezione dei minori nell’umanità stessa, non solo nella Chiesa, perché ci sono quasi ottantacinque milioni di bambini, dimenticati da tutti, che sono vittime di ogni sorta di abuso: i bambini-soldato, i minori prostituiti, i bambini malnutriti, i bambini rapiti e spesso vittime del mostruoso commercio di organi umani, oppure trasformati in schiavi, i bambini vittime delle guerre, i bambini profughi, i bambini abortiti e così via.
L’Incontro promosso da papa Francesco ha così raggiunto l’estensione e la profondità dell’analisi e della denuncia che già nel 1995 erano state avanzate in tre sessioni del Tribunale Permanente dei popoli, a Trento, Macerata e Napoli; già allora erano state svelate le mostruose violazioni della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e il dolore dei bambini era stato assunto come indicatore del dolore del mondo, e monito contro il precipitoso degrado dello stato del mondo che poi sempre più si sarebbe manifestato fino ad ora.
Ma l’assunzione del problema nell’ambito ecclesiale ha permesso di andare oltre le spiegazioni e le prognosi di ordine sociologico o politico; ha permesso di ricordare le ideologie sacrificali che in religioni antiche giungevano all’offerta di esseri umani, spesso di bambini, e di riconoscere anche oggi in tanta crudeltà “un sacrificio al dio potere, denaro, orgoglio, superbia”, che va dunque abolito come lo furono i sacrifici antichi; ed ha permesso di cogliere quella che Francesco ha chiamato la “significazione esistenziale”, ulteriore di questo fenomeno criminale, che sta nell’irrompere del mistero del male e nella sua pretesa di dominio del mondo; “la mano del male che non risparmia neanche l’innocenza dei piccoli” (come fece in Erode) e trova reazione e risposta anche nell’ordine dei mezzi spirituali, delle misure suggerite dalla fede, nella salvezza che viene da Dio. E ciò ha permesso alla Chiesa disegnata dal papa di recuperare anche quel volto severo di Dio e quel “santo timore di Dio” che potevano sembrare dissolversi nella grande predicazione della misericordia; solo che l’ira di Dio non è più presentata come quella del Dies irae di Mozart e Tommaso da Celano che brucia “il secolo in faville” e che prelati tardo-farisei ancora individuano nei terremoti negli tsunami e in altre calamità naturali, ma è vista riflessa “nella rabbia, giustificata, della gente“, “nel grido silenzioso dei piccoli”, come Paolo Vi l’aveva individuata nella “collera dei poveri”.