mercoledì 27 febbraio 2019

L'IRA DI DIO

“Il papa immobile”, come lo  qualificano i suoi critici “da sinistra”, ha dimostrato uno straordinario coraggio nel costruire l’evento che si è svolto in questi giorni a Roma su “La protezione dei minori nella Chiesa”. Lasciando stare Pietro, che come si sa era un pauroso, è difficile trovare tra i suoi predecessori un papa coraggioso come lui, se non forse Gregorio Magno e pochi altri.  Egli ha avuto infatti il coraggio di ripensare a fondo la Chiesa, e di mostrarla con parole e gesti semplici come una Chiesa possibile. E forse qui c’è una chiave per intravedere un futuro che oggi ci appare ancora così velato e coperto.
Intanto c’è voluto un grande coraggio evangelico (“in sacris” si chiama parresìa) per mettere insieme patriarchi, cardinali, vescovi e religiosi di tutta la terra in una liturgia penitenziale ad accusare se stessi “come persone e come istituzione”, e indurli a passare da un “atteggiamento difensivo-reattivo a salvaguardia dell’Istituzione” a una ricerca sincera e decisa del bene della comunità “dando priorità alle vittime di abusi in tutti i sensi”. Così si sono visti i confessori che si confessano, i perdonatori che chiedono perdono, i ministri che impetrano per sé prima ancora che per i fedeli loro affidati: una cosa “affatto inusuale” nei Palazzi del “potere”  terreno e celeste del Vaticano, dice con molto tatto Rosanna Virgili; diciamo pure mai accaduta prima.
C’è voluto coraggio a convocare non un Concilio e nemmeno un Sinodo, che sono cose riservate al clero, ma un inedito incontro mondiale che “in maniera sinodale” ha compreso in sé i laici, e tra questi le donne, quasi ad anticipare una Chiesa del futuro senza più “clericalismo”, ossia senza più il dominio riservato di una classe di ministri ordinati maschi e celibi  il quale, secondo il papa, non è il volto migliore della Chiesa. Infatti “il volto migliore della Chiesa” ha detto Francesco nel discorso conclusivo “è il santo e paziente popolo di Dio; e sarà proprio questo santo popolo di Dio a liberarci dalla piaga del clericalismo, che è il terreno fertile per tutti questi abomini” ; gli abomini sono gli abusi sui bambini, che non sono solo abusi sessuali ma, come insiste a dire il papa, specie se commessi dal clero sono anche abusi di coscienza e di potere.
Sicché proprio in questo dramma che sta vivendo la Chiesa si affaccia, come ne ebbe presentimento il Concilio Vaticano II, non una Chiesa in cui il laicato è un personaggio in cerca d’autore, bisognoso di una teologia che lo giustifichi, ma una Chiesa non clericale, nella quale cade anche il presupposto della discriminazione delle donne.
E qui pure c’è voluto del coraggio a spiegare, come ha fatto il papa dopo aver sentito la relazione di una donna, la dottoressa Ghisoni, che ella non era stata invitata a parlare in virtù di un improbabile “femminismo ecclesiastico” (contro il divieto di far parlare le donne nelle chiese trasmesso da Paolo ai  Corinti), ma perché invitare a parlare una donna sulle ferite della Chiesa è invitare la Chiesa a parlare su se stessa, sulle ferite che ha. “E questo è il passo che noi dobbiamo fare con  molta forza”, ha detto il papa; riconoscere che “la donna è l’immagine della Chiesa che è donna, è sposa, è madre”, e ne porta lo stile; “senza questo stile parleremmo del popolo di Dio ma come organizzazione, forza sindacale, non come famiglia partorita dalla madre Chiesa”. Certo, bisogna dare più funzioni alla donna nella Chiesa, ma così non si risolve il problema, pensa il papa, “si tratta di integrare la donna come figura della Chiesa nel nostro pensiero, pensare la Chiesa con le categorie di una donna”.  È il suggerimento che in prospettiva più generale già dava il filosofo e teologo Italo Mancini, quando di fronte ai guasti del mondo proponeva il contromovimento del “principio femminile”, il diritto di Antigone, il diritto del più umile, del più elementare, di quanto è più legato ai nutrimenti terrestri, di quanto è vincolato dalla pietà, di contro a quanto è faronico, zeusico e legato agli splendori del cielo, a quel dominio dell’alto che è tanto vicino al  trono dei potenti: pietà contro maestà. Ma a questo punto come si potrebbe continuare ad escludere le donne dai ministeri ecclesiali con l’argomento che Gesù era maschio?
E c’è voluto del coraggio a cambiare l’oggetto dell’Incontro, che all’inizio doveva riguardare non solo la protezione dei minori ma anche degli “adulti vulnerabili”, cioè l’omosessualità, ma poi è stato concentrato sui bambini. Ne hanno approfittato i polemisti per accusare Francesco di sottovalutare l’impatto dell’omosessualità nel clero, ma la separazione dei due temi ha permesso al “summit” di non ridurre la violenza sui bambini a un problema interno alla Chiesa, quasi corporativo, banalmente spiegato col vincolo alla castità dei preti, come dice il volgo, ma di farne un grande tema di presa di coscienza mondiale, di porre il problema della protezione dei minori nell’umanità stessa, non solo nella Chiesa, perché ci sono quasi ottantacinque milioni di bambini, dimenticati da tutti, che sono vittime di ogni sorta di abuso: i bambini-soldato, i minori prostituiti, i bambini malnutriti, i bambini rapiti e spesso vittime del mostruoso commercio di organi umani, oppure trasformati in schiavi, i bambini vittime delle guerre, i bambini profughi, i bambini abortiti e così via.
L’Incontro promosso da papa Francesco ha così raggiunto l’estensione e la profondità dell’analisi e della denuncia che già nel 1995 erano state avanzate in tre sessioni del Tribunale Permanente dei popoli, a Trento, Macerata e Napoli; già allora erano state svelate le mostruose violazioni della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e il dolore dei bambini era stato assunto come indicatore del dolore del mondo, e monito contro il precipitoso degrado dello stato del mondo che poi sempre più si sarebbe manifestato fino ad ora.
Ma l’assunzione del problema nell’ambito ecclesiale ha permesso di andare oltre le spiegazioni e le prognosi di ordine sociologico o politico; ha permesso di ricordare le ideologie sacrificali che in religioni antiche giungevano all’offerta di esseri umani, spesso di bambini, e di riconoscere anche oggi in tanta crudeltà  “un sacrificio al dio potere, denaro, orgoglio, superbia”, che va dunque abolito come lo furono i sacrifici antichi; ed ha permesso di cogliere quella che Francesco ha chiamato la “significazione esistenziale”, ulteriore di questo fenomeno criminale, che sta nell’irrompere del mistero del male e nella sua pretesa di dominio del mondo; “la mano del male che non risparmia neanche l’innocenza dei piccoli” (come fece in Erode) e trova reazione e risposta anche nell’ordine dei mezzi spirituali, delle misure suggerite dalla fede, nella salvezza che viene da Dio. E ciò ha permesso alla Chiesa disegnata dal papa di recuperare anche quel volto severo di Dio e quel “santo timore di Dio” che potevano sembrare dissolversi nella grande predicazione della misericordia; solo che l’ira di Dio non è più presentata come quella del Dies irae di Mozart e Tommaso da Celano che brucia “il secolo in faville” e che prelati tardo-farisei ancora individuano nei terremoti negli tsunami e in altre calamità naturali, ma è vista riflessa “nella rabbia, giustificata, della gente“, “nel grido silenzioso dei piccoli”, come Paolo Vi l’aveva individuata nella “collera dei poveri”. Continua...

giovedì 21 febbraio 2019

LO SCISMA


È un momento drammatico per la Chiesa; film libri e giornali l’accusano, vecchie storie e nuove denunce si affollano, mentre essa stessa, con la riunione di tutti i presidenti delle Conferenze episcopali a Roma insieme col papa fa una scelta di campo definitiva contro gli abusi sessuali, di coscienza e di potere del suo stesso clero, pur tra le proteste di qualche porporato riottoso.
Ma dietro questa facciata c’è un’altra partita anche più seria che si sta giocando: è la partita di quanti mirano a uno scisma nella Chiesa, gli uni per distruggerla, gli altri per distaccarla dalla guida di papa Francesco.
Tra i primi ci sono gli officianti del pensiero unico, che ritengono ormai incompatibile la persistenza della predicazione evangelica con la volata finale di un mondo senza pensiero forgiato e governato dal denaro nella sua ultima forma globale di liberismo selvaggio. A questo fronte senza saperlo dà un notevole apporto la campagna della destra teologica che in nome della tradizione si oppone al rinnovamento dell’annuncio evangelico “in quella forma” – come chiedeva papa Giovanni – “che i nostri tempi esigono”; la lettera del cardinale Müller contro il magistero di papa Francesco ne è l’ultimo esempio.   
Tra i secondi c’è un’area progressista e riformista che critica papa Francesco “da sinistra”, accusando di immobilismo la sua Chiesa perché sono finora mancate riforme istituzionali, come la riforma della Curia, un’avanzata collegialità, una vera “democratizzazione”; ne è l’ultimo esempio il saggio di un professore di Bergamo, Marco Marzano su “Francesco e la rivoluzione mancata”, rilanciato dal “Fatto quotidiano” e anche da qualche sito cattolico. Esso invita “i progressisti a tentare la via della mobilitazione diretta” per denunciare la paralisi “imposta a un miliardo di fedeli cattolici da un’élite di anziani maschi celibi” e “a minacciare, se persisterà l’assoluto immobilismo, l’abbandono della barca e l’approdo ad altri territori ecclesiali più sensibili e interessati ad un rapporto meno ostile con la modernità e i suoi valori”, ossia “il metodo di Lutero”. È superfluo sottolineare qui la catastroficità di tale posizione apparentemente “innovatrice”. Vogliamo solo dire quanto sia sbagliata e conservatrice l’analisi di chi concepisce il rinnovamento della Chiesa solo come un cambio di carattere istituzionale e non come una rigenerazione del suo annuncio e della sua più profonda identità, lo stesso errore dei tradizionalisti che hanno sempre ridotto la Chiesa alla sua dimensione giuridicistica e fattuale.
Al contrario la Chiesa è rinnovata dalla Parola. L’istituzione ne è determinata. E non si può negare che la grande rivoluzione portata da papa Francesco sia stata quella della Parola, fino a una nuova rivelazione di Dio, delle religioni e della Chiesa.
Del resto questo non succede solo nella Chiesa. Ci sono discorsi, magari non subito seguiti dai fatti, che hanno cambiato il corso della storia.
Si pensi al discorso di Gesù nella sinagoga di Nazaret, che introdusse una nuova ermeneutica selettiva dell’Antico Testamento, separò la misericordia di Dio dalla sua vendetta e introdusse una lettura non sionista, non nazionalista cioè, delle Scritture ebraiche.
Si pensi al discorso di Paolo all’Areopago di Atene, che consegnò “il Dio ignoto” alle religioni e alle culture di tutti i popoli, senza rivendicarne l’esclusiva a una sola tradizione.
Si pensi al discorso di Gregorio Magno ai fedeli di Roma, straziati dai Longobardi di Agilulfo: “perito il popolo, scomparsi i potenti, assente il Senato, la città vuota ed in fiamme”, eppure il papa guarda al mondo nuovo che comincia, all’ascesa dei popoli nuovi, e fonda l’Europa.
E per venire a tempi più recenti, si pensi al discorso di Luigi Sturzo del 1905 a Caltagirone, che mutò l’identità dei cattolici italiani facendone non più sudditi del papa e araldi delle sue rivendicazioni temporali nella questione romana, ma cittadini dello Stato, fautori della democrazia, promotori della proporzionale e autonomi nelle loro scelte politiche, premessa necessaria del ruolo che essi avrebbero giocato dopo il fascismo.
Si pensi al discorso di Giovanni XXIII per l’inaugurazione del Concilio, nel quale attestò la Chiesa sulla frontiera della misericordia (“la medicina della misericordia invece delle armi del rigore”), l’attrezzò per l’”aggiornamento” dello stesso annuncio evangelico e sognò il sogno di una “Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri”.
Si pensi al discorso di Togliatti del 1963 a Bergamo sul “destino dell’uomo”, in cui il leader comunista riposizionava il suo partito, e l’idea stessa del comunismo, non più solo sul terreno delle lotte economiche e sociali, ma su quello di una nuova antropologia universalistica, per la quale la stessa coscienza religiosa, posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo, era chiamata in causa e  poteva essere di stimolo al cambiamento della società.    
Di papa Francesco non si può ancora dire quale sarà il discorso che farà storia, dopo il quale la Chiesa, tutt’altro che immobile, non sarà mai più quella di prima. Si potrebbe dire l’ “Evangelii gaudium” in cui questa nuova Chiesa è disegnata, la “Laudato sì” che coinvolge tutti gli abitanti del pianeta nella salvezza della Terra, i discorsi sulla misericordia che piantano il “Dio inedito” nel cuore di tutti gli uomini, oltre ogni diversità di religione, i discorsi ai movimenti popolari che  esortano alla lotta, e non solo alla rivendicazione di un altro modo possibile, il discorso all’Europa per l’uscita dal regime di cristianità, i discorsi agli Stati per una rivoluzione degli ordinamenti che escludono e dell’economia che uccide, o il discorso con cui ha rovesciato fin nel catechismo una secolare dottrina che ammetteva la pena di morte. Più probabilmente, al di là di un singolo discorso, sarà il magistero globale di papa Francesco che avendo finalmente pensato la riforma della Chiesa a partire dalla riforma del papato (Santa Marta!) ha di fatto già  realizzato quello che i suoi critici malevoli rifiutano, e che i suoi critici benevoli reclamano. Lo scisma è ormai fuori tempo.
È chiaro che questo non può bastare; il governo non è solo profezia, è anche istituzione, e un papa “governa” la Chiesa. Ma ogni cosa ha i suoi tempi, e in tempi selvatici come questi non si possono fare corti circuiti e false partenze. Ma di certo, se la Chiesa rimarrà fedele, “l’istituzione seguirà”; forse non oggi le riforme che tutti noi abbiamo nel cuore, ma certamente domani.
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giovedì 14 febbraio 2019

LO SGABELLO



Ancora una volta si sta sbagliando diagnosi e prognosi rispetto a ciò che è avvenuto domenica con le elezioni in Abruzzo. Sembra che il tema sia quello della competizione in atto tra Lega e 5 Stelle, e che tutta la domanda riguardi il futuro, su come continuerà la gara, se i 5 Stelle riusciranno a rimontare lo svantaggio in vista delle elezioni europee, o saranno le opposizioni a trarne vantaggio.
Invece l’Abruzzo ha dimostrato ciò che è già successo e ciò che certamente avverrà se non sarà interrotto il corso delle cose.
      Ciò che sta per accadere è quanto segue:
      1)       Le autonomie differenziate che si stanno per concedere alle regioni del Nord esacerberanno lo squilibrio tra Regioni e Stato, divideranno il Paese rompendo l’eguaglianza in base al censo, renderanno più povero ed emarginato il Sud, creeranno disparità di diritti e di tutele tra chi abita in un luogo o in un altro del nostro Stato unitario;
      2)       Le riforme costituzionali in corso trivialmente motivate dal rapporto costi-benefici, come se fossero la TAV, e dalla lotta contro “la casta”, revocheranno la centralità del Parlamento, svuoteranno la rappresentanza, guasteranno il processo legislativo e se approvate con la probabile maggioranza dei due terzi, saranno sottratte al vaglio del referendum popolare; 
      3)       La riforma del Codice penale trasformando da eccezione a regola la violenza esercitata per “legittima difesa” armerà i cittadini, potenzierà le lobby dei fabbricanti d’armi e indurrà una sempre più diffusa cultura da Far West;
     4)       Il passaggio alla fase esecutiva del “decreto sicurezza”creerà folle di stranieri vaganti per l’Italia senza controlli, negherà loro il nome all’anagrafe e il diritto a un’esistenza legittima e renderà precaria la stessa cittadinanza, che ai non meritevoli potrà essere revocata a discrezione del governo;  
     5)       La perdita di credibilità sul piano internazionale finirà per paralizzare la politica estera dell’Italia e la speranza stessa di un suo ruolo nel mondo. Sta già accadendo con la rinunzia alla neutralità nella crisi venezuelana, che avrebbe dovuto indurre le parti al dialogo, non a qualunque dialogo ma a quello, come ha scritto il papa a Maduro, “che si intavola quando le diverse parti in conflitto mettono il bene comune al di sopra di qualsiasi altro interesse e lavorano per l’unità e la pace”. Invece l’Italia si è rapidamente riallineata all’ideologia occidentalistica  sempre pronta a interventi violenti nelle sovranità altrui, con le conseguenze ben note dal Cile di Pinochet al Brasile dei generali, da Saddam Hussein a Gheddafi, dall’Afghanistan alla Siria, per ricordare le recenti grandi devastazioni della politica mondiale.
Ciò che è già successo domenica in Abruzzo, non parla dell’Abruzzo, ma parla dell’Italia. E proprio perché Salvini non c’entra niente con l’Abruzzo,  dovrebbe essere chiaro che la questione è l’Italia.
Ciò che è successo è che si sta compiendo il processo per cui una minoranza prende il potere, ma non per virtù propria, bensì perché il sovrano glielo consegna, e si fa sgabello di tale alienato potere.
È accaduto quando il sovrano consegnò il potere a Mussolini, venuto in vagone letto da Milano mentre le sue comparse facevano la marcia su Roma; era a capo di una minoranza residuale, reduce dall’interventismo, e con le idee confuse, ma il sovrano lo mise sul piedistallo e gli lasciò la scena, senza avvedersi di segnare così la sua fine, il suicidio del regno.
La Lega era una minoranza in declino, il più vecchio partito tra quelli esistenti, come è stato ricordato in questi giorni, e mai era stata capace di egemonia e di dominio: fino a quando il sovrano, ossia il popolo sovrano, mediante le due forze uscite vittoriose dalle elezioni del 4 marzo, 5 Stelle e Partito democratico, l’ha messa al potere, le ha consegnato l’interno, e non solo l’interno, del Paese, le ha dato lo sgabello di una base parlamentare e di massa e ha portato tutta l’informazione a farsene eco. 
Le elezioni in Abruzzo (non c’è bisogno di aspettare le europee) sono forse l’ultimo avviso per fermare in tempo la resistibile ascesa. Prima che le cose più gravi, già annunziate, accadano. Non c’è nessuna rivoluzione da fare: della mente, certamente sì, ma dal punto di vista istituzionale basta una crisi di governo. Per molto meno nella precedente fase della Repubblica la forza di maggioranza, la DC, faceva le crisi di governo, e fu così che quel partito non si suicidò anzitempo, e governò per quarant’anni, e fece sì che reggesse l’impianto democratico e costituzionale, con vantaggio di tutti.  Così dovrebbe fare, oggi non domani,  la forza di maggioranza; se è movimento si muova, faccia politica, rivendichi grandi valori democratici e nazionali, acquisendo il merito storico di interdire la restaurazione impietosa della nuova destra.
Il Paese è solido, i sindacati sono di nuovo uniti. Basta togliere lo sgabello, e comincerà una transizione in vista di costruire poi, finalmente, il nuovo.
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lunedì 11 febbraio 2019

I PESCI CI SONO

Nei Vespri di sabato scorso, il Vangelo di Luca raccontava di un’occasione in cui c’era una grande folla, e c’erano dei pescatori, solidali tra loro, “compagni” che si aiutavano da una barca all’altra, ma erano anche un po’ disperati perché non prendevano niente, per quanti sforzi facessero, faticando anche tutta la notte; e dunque non c’era da mangiare, né pesce né altro, per loro e per tutta quella folla che faceva ressa. Eppure il lago era pieno di pesce, bastava prenderlo dov’era e saperlo prendere, e allora ce ne sarebbe stato tanto per tutti, fin quasi al rompersi delle reti. E anche Dio era lì, se riaccese le loro speranze di pescatori , tanto che ci provarono ancora, e se Gesù disse a Simon Pietro che sarebbe diventato “pescatore di uomini”, togliendogli la paura e dandogli, al di là del suo lavoro quotidiano, un’altra vocazione, un più alto vivere. Queste cose devono essere accadute veramente, è difficile prenderle solo come un’allegoria, perché se non fossero accadute tutta una storia successiva non ci sarebbe stata, e Pietro non sarebbe ancora lì, senza paura, a fare “il pescatore d’uomini”. Perciò è importante quando le cose accadono.
La mattina di sabato scorso a piazza san Giovanni a Roma c’era una grande folla, erano lavoratori anche loro, e tutti erano solidali tra loro, di nuovo i sindacati tutti insieme, erano compagni che volevano aiutarsi l’un l’altro, fissi o precari, disoccupati e pensionati, nativi e stranieri, ed erano tutti anche un po’, e anzi molto disperati, perché soffrivano che non ci fosse lavoro, e redditi, e diritti e cittadinanza per tutti, e vedevano un futuro da far paura, perfino per la stabilità del mare la clemenza del clima e la maternità della terra.
Ma Dio c’era?  Se “Dio c’è”, certamente era anche lì. Se può stare dentro una singola persona (tanto che Simon Pietro, sentendosi peccatore, disse, letteralmente a Gesù “esci da me”, tradotto poi in “allontanati da me”) come poteva non stare in una piazza con 200.000 persone, santi e peccatori, corpi di uomini e di donne, di figli e di madri, con i loro dolori, fatiche, amori, disperazioni ed attese?
Ma che cosa può esserci di comune tra quanto raccontato a sera nei Vespri e quanto accaduto quella mattina di sabato 9 febbraio? Ci può essere di comune che a segnare il passaggio da una condizione ad un’altra, dalla disperazione alla speranza, da una vita catturata dalle difficoltà e dalle necessità materiali a una vocazione ulteriore, a un realizzarsi più pieno delle persone, a una felicità possibile, ci sia di mezzo una parola che cambia le cose. Al mare di Galilea c’è stata la parola, la predicazione di Gesù. Ma a piazza san Giovanni sono state dette parole capaci di cambiare le cose, sono state dette parole di vita?
Lo dirà il futuro, certo l’obiettivo che lì è stato posto è stato di far partire tutti assieme il processo di una nuova intelligenza politica che porti a una nuova dignità e pienezza di vita non solo in Italia ma in Europa e perfino nel mondo, che porti a un sistema che non lasci indietro nessuno e mutando le priorità salvaguardi anche la casa comune di tutti. L’obiettivo è quello di nuove politiche perché “al centro torni la persona, al centro torni il lavoro, ma non un lavoro qualsiasi” che lasci poveri i poveri, li metta in competizione tra loro, tolga loro il futuro o addirittura la vita. Certo a sentirle gridate dagli altoparlanti su tutta la piazza e in molti telegiornali, sono risuonate parole nuove. È stato invocato anche un cambiamento del linguaggio, che non “crei la paura”, che non lucri sulle difficoltà, sulle solitudini, ma soprattutto si è invocato un cambiamento di mente: “Ci sono quelli – mi permetto di dirlo, ha esclamato il leader sindacale – che in questo periodo hanno seminato l’odio, il rancore, un linguaggio violento, noi stiamo seminando qualcosa di molto più importante perché noi stiamo seminando la solidarietà, l’idea della fusione, l’idea della giustizia e anche l’idea della speranza che le cose si possono cambiare”: e che lo si faccia con la persuasione, con la trattativa, con la partecipazione, tutti insieme, ma senza fermarsi perché occorre giungere fino alla raccolta dei frutti di quanto oggi è seminato.
Ma dove sono le risorse, dove sono i soldi per fare tutto ciò? Questa è l’obiezione del sistema, dove sono i pesci?  “È semplice”, rispondono il sindacato e la piazza. “i soldi bisogna andare a prenderli dove sono. E  non è vero che non ci sono, questo è un Paese che ha 120 miliardi di evasione all’anno” (ci si potrebbero fare quattro o cinque finanziarie|). Ma è anche “un Paese dove il 90 per cento dell’IRPEF la pagano i lavoratori dipendenti e i pensionati; ed è aumentata la diseguaglianza, i ricchi sono più ricchi e i poveri non solo rimangono poveri ma anche quelli che non lo erano, lo sono diventati”. Dunque i pesci ci sono, basterebbe, credendoci,  gettare le reti e ben distribuirli tra tutti. Continua...

mercoledì 6 febbraio 2019

L’ALLEANZA È CON TUTTI

Un minuto prima di partire per gli Emirati Arabi Uniti, domenica all’Angelus, il papa ha gridato per i bambini dello Yemen che soffrono fame sete e morte per il conflitto di cui anche gli Emirati Arabi sono responsabili, e ciò perché sia chiaro che non si può cantare il Te Deum se, prima di tutto, non c’è umanità.
Eppure c’è da cantare il Te Deum per questo viaggio del papa ad Abu Dhabi. E non solo perché si è trattato della prima volta che un Pontefice romano ha messo piede sulla terra che ha donato al mondo Maometto e la Mecca, ed è la prima volta che nella Penisola arabica si dice una Messa in pubblico, all’aperto, con 170.000 persone e le donne non velate. Ma anche perché nel dialogo col mondo musulmano e i rappresentanti delle altre religioni si è manifestata con la massima evidenza la novità dell’annuncio che questa Chiesa sta portando al mondo, e per contro la gravità del disegno di quanti invece vorrebbero bloccare e rovesciare il corso di questo pontificato. La novità sta precisamente nella riproposizione dell’annunzio che il Verbo si è fatto carne per tutti, non importa se ebrei o stranieri, cretesi od arabi, medi o elamiti, cattolici o protestanti, sunniti o sciiti, cinesi patriottici o clandestini, milanesi o barbari, credenti o non credenti, ossia nel proclamare che la salvezza, ammesso che una salvezza religiosa ci sia, è universale e non fa eccezione di persone, non lascia naufrago alcuno.
Questo però per la Chiesa cattolica non era possibile affermarlo da quando essa si era incatramata nel regime di cristianità, che non solo travisava la sua identità nell’ibridismo politico-religioso del potere temporale, ma delimitava rigorosamente il cristianesimo nei confini fisici della Chiesa cattolica,  in base all’assioma teologico che fuori della Chiesa non c’è salvezza. In tal modo era amputata la carne del Verbo e frantumata la carne dei popoli.

Se oggi invece si può proporre “l’arca della fratellanza” in cui si ricomponga “l’unica famiglia umana voluta da Dio”, è perché il Concilio Vaticano II, l’Europa e papa Francesco sono usciti dal regime di cristianità. Ne sono un segno potente il viaggio in terra d’Arabia, lo scambio fraterno con l’Islam, la comune affermazione, nel documento congiunto, che “il pluralismo e le diversità di religione…. sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi”. Una diversità, ha aggiunto Francesco nell’omelia della Messa, che “lo Spirito Santo ama e vuole sempre più armonizzare”. Si dichiara con ciò la fine della lunga stagione delle scomuniche e dei proselitismi, e si raggiunge l’ipotesi di Tommaso Moro la cui “Utopia” contemplava che nella sua repubblica si giungesse a professare la religione più perfetta e che anche tutti gli altri mortali fossero condotti “allo stesso modo di pensare a proposito di Dio”, a meno che, insinuava,  “in questa gran varietà di religioni non ci sia qualcosa che soddisfi ai suoi impenetrabili voleri”, sicché fosse Dio stesso “a ispirare a chi una cosa e a chi un’altra”.
Ciò non vuol dire sincretismo; ad Abu Dhabi si è stati ben attenti a salvaguardare le differenze e l’identità di ciascuno: nel documento non si è andati di un millimetro oltre il Concilio, ha detto il papa nel viaggio di ritorno, ma “è un passo avanti che viene da 60 anni, il Concilio che deve svilupparsi”. E così si è potuto trovare ciò che è veramente comune, e convenire che ”le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue”. E si confessa anche perché finora è avvenuto il contrario: “Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi”. Questo è il messaggio che il papa, e il Grande Imam di Al-Azhar a nome dell’Islam d’Oriente e d’Occidente, intendono ora presentare al mondo, perché il mondo si salvi. E papa Francesco, senza pretendere investiture, si è mostrato, a detta degli stessi musulmani,  come “maestro spirituale universale” .

Restando nel quadro delle tre religioni abramitiche c’è ora da rinvigorire il dialogo con gli ebrei, che la loro attuale condizione storica rende notoriamente difficile. Qui c’è il resoconto, pubblicato da “Vatican Insider”, di un bel dialogo svoltosi nei primi giorni del gennaio scorso in Vaticano tra l’ex Papa Benedetto XVI e cinque rabbini di lingua tedesca, guidati dal rabbino Folger, che sono venuti a interrogarlo in seguito a un suo saggio sul dialogo ebreo-cristiano pubblicato su “Communio”. L’incontro è stato molto positivo. In particolare si è ribadito il ripudio da parte cattolica della “teologia sostitutiva” secondo la quale Dio, a causa del rifiuto ebraico di Cristo, avrebbe trasferito la sua alleanza da Israele alla Chiesa, quando invece i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rom. 11, 29), e tanto meno possono essere abrogati dall’uomo. L’ex papa Ratzinger ha affermato che tale teologia era una “cattiva teologia” mentre i rabbini hanno lamentato che, benché abbandonata dalla Chiesa, essa continua a serpeggiare tra molti fedeli. In ogni caso questa difficoltà dovrebbe essere ormai superata. I cattolici non dubitano che sia rimasta ben salda l’alleanza di Dio con il popolo ebreo. Ciò che resta per il compimento del dialogo è che siano ora gli ebrei a riconoscere che questa stessa alleanza è concepita ed estesa da Dio a tutti i popoli. Continua...