di Raniero La Valle
Almeno in questo la politica si è
riscattata: accusata di essere incartocciata in se stessa e ormai priva di
sorprese, e addirittura noiosa, il 2 ottobre ci ha fatto vivere una giornata
ricca di suspence, di enigmi, di intrighi
e di epici scontri con tanto di colpo di scena finale. Un fuoco d’artificio.
Ma questa è la sola soddisfazione
che ci ha dato. Perché per il resto non ci è stato mostrato alcuno scenario
esaltante né sembra migliorato il rapporto tra la politica e le speranze per il
futuro del Paese e per le sue relazioni nel mondo.
È stata una giornata che, forse
parlando un po’ sopra le righe, il premier Letta ha definito storica. Ma
storica perché? Sarebbe difficile definire storica una giornata solo perché un governo
che doveva cadere invece non cade. In genere i governi, soprattutto in Italia,
interessano più i tempi fugaci della cronaca che quelli lunghi della storia.
Storica potrebbe essere definita
piuttosto perché ha sostanzialmente chiuso un lungo ventennio, sancendo la fine
politica di Berlusconi. Questa è arrivata con lo spettacolo del leader
carismatico che in lacrime annunciava al Senato la fiducia a un governo che
fino a dieci minuti prima aveva cercato strenuamente di far cadere.
Si è trattato di una piccola
nemesi, prima di tutto perché l’eterno cavallo di battaglia di Berlusconi era
stato che i suoi avversari, non riuscendo a liquidarlo per via politica,
avevano cercato di eliminarlo per via giudiziaria: ed ecco che la liquidazione
politica era arrivata, ma non per mano dei suoi avversari bensì per mano dei
suoi seguaci e compagni di partito, e anche per sua stessa mano, avendo deciso
e imposto, con le dimissioni dei suoi parlamentari e dei suoi ministri, una
strategia politica fallimentare.
Ed è stata una nemesi perché
mentre egli denunciava l’assassinio politico che con la decadenza da senatore
si sarebbe perpetrato nei suoi confronti, si è procurato un suicidio politico
spaccando il suo partito e mostrandosi al suo esercito di ammiratori non più come
il capo indomito che anche da solo tiene il fronte in tutte le battaglie, ma
come un re travicello che si fa dettare la linea e che al variare dei calcoli
che gli interessano muta d’accento e cambia parole d’ordine e ordini.
Neanche per questo però la
giornata parlamentare nella quale si è aperta nell’area moderata la partita
della successione a Berlusconi, si può definire storica. Piuttosto l’enfasi di
Enrico Letta si può collegare all’idea che, con una destra non più sotto
sequestro nelle mani di Berlusconi,
si possa ora produrre una ristrutturazione di tutto il sistema politico
italiano.
Ma in quale direzione? La
prospettiva, come è andata prendendo forma nella crisi ed era forse preparata,
potrebbe essere quella della costruzione di un Grande Centro che, a partire dal
cerchio più piccolo della coalizione di governo, unisca il centro del
centro-sinistra con una destra celebrata come “popolare ed europea”, isoli
quanto resta della destra dei falchi berlusconiani e metta ai margini il
Partito democratico lasciato a presidiare e a moderare il campo della sinistra.
Questa operazione, di cui Napolitano è stato il grande regista, se riuscisse
segnerebbe il trionfo postumo del “migliorismo” e sarebbe lo sbocco della
transizione italiana.
Ma a quale prezzo? Anzitutto c’è
il problema che, portato a compimento lo strappo della deroga all’art.138 della
Costituzione, la nuova maggioranza “politica” governativa non si faccia
prendere la mano dal partito delle riforme e non stravolga parti vitali della
Costituzione.
Poi c’è il problema di non
ricadere nel miraggio del bipolarismo; la rottura delle maglie del partito
unico della destra dimostra come il sistema bipolare sia incompatibile con la
realtà italiana; ma allora bisogna avere il coraggio di abbandonare la camicia
di forza del maggioritario e di ripristinare una vera rappresentanza mediante
una legge elettorale proporzionale.
Infine c’è il problema di fondo:
per quale società, per quale bene comune, per quale finanza, per quale rapporto
tra economia e politica, per quale Europa ridisegnare il sistema politico? Vi
sono scelte che il sistema politico sarebbe assolutamente chiamato a fare, e da
cui appare invece del tutto lontano. Ma perché deve essere solo il Papa a dire,
anche sui giornali, che i problemi più gravi sono quelli dei giovani senza
futuro e dei vecchi senza presente, a dire che lo Stato dovrebbe intervenire
per correggere le diseguaglianze più intollerabili e che il sistema economico
globalizzato col suo liberismo selvaggio non fa che rendere i forti più forti,
i deboli più deboli, e gli esclusi più esclusi? Letta, anche in forza della sua
formazione, certo ne ha parlato, la Costituzione lo dice, ma ci vuole ben altro
che un Grande Centro per mettere veramente in campo una risposta a tali
cruciali questioni. E la ristrutturazione del sistema politico, ammesso che
avvenga, non dovrebbe essere modellata sui fini e i traguardi umani a cui
andrebbe ordinato il potere, piuttosto che sugli strumenti e i modi per
conquistarlo?
Raniero
La Valle
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