La Chiesa del futuro che contiene in sé la Chiesa del passato è stata
anticipata e vista da lontano da grandi cristiani come don Primo Mazzolari, che
papa Giovanni chiamava “la tromba della Val Padana”. Questa Chiesa del futuro forse
proprio in questi giorni sta prendendo forma, attraverso la novità di papa
Francesco.
Molte parole e gesti di questi primi sette mesi di pontificato sembrano prefigurare
infatti una Chiesa diversa, una Chiesa del futuro che passa attraverso una
riforma del papato.
Il Concilio, di cui ricordiamo i cinquant’anni dall’inizio, aveva posto le
basi di una riforma della Chiesa che implicava anche una riforma del papato,
nel senso della sinodalità e collegialità. Ma dopo le anticipazioni di Giovanni
XXIII e della “Pacem in terris”, che
avevano mostrato la riformabilità del magistero pontificio rovesciando le
posizioni ottocentesche di contrasto al mondo moderno, alla libertà di
coscienza e alle scienze moderne, il papato ha resistito alla propria riforma,
né il Concilio ha voluto forzare la mano, non volendo certo essere accusato di
conciliarismo. La stessa riforma della Chiesa ha finito poi per ristagnare, mentre
la ricezione del Concilio ha vissuto quarant’anni di deserto, nei quali esso ha
rischiato di inaridirsi nel gioco delle contraddittorie ermeneutiche, della
“continuità” o della “rottura”. Ma ecco che oggi si può dire che il Concilio
Vaticano II si è riaperto, e si sono riaffacciate le grandi speranze del
Novecento. Ma se al Concilio c’era una Chiesa che voleva riformare il papato, e
che senza la volontà dei papi stessi non intendeva né poteva farlo, qui c’è ora
il papato che riforma se stesso per riformare la Chiesa e per ridare al mondo
il Vangelo.
Abbiamo parlato di “parole e gesti” di papa Francesco perché in lui gesto e
parola sono una cosa sola; il Vangelo non è solo annunciato, è reso visibile,
lo si fa toccare, come si faceva toccare Gesù, non restando a pregare in
solitudine ma uscendo fuori della porta per andare ad abbracciare il corpo del
fratello piagato, come Francesco ha fatto nel gesto più eloquente di tutti, la
visita a quella tomba a cielo e a mare aperto che è diventata Lampedusa.
Si dice dai critici a proposito di questa capacità del papa di farsi vedere
e sentire, che egli abbia una scaltrezza mediatica del tipo del “manager che si
concede molto alla stampa” e che sostituisca le encicliche con le interviste
mostrando un “postmoderno” di superficie[1].
Si tratta invece dell’ ”economia” della rivelazione: come dice la “Dei Verbum” del Concilio la rivelazione
di Dio si manifesta attraverso eventi e parole
intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della
salvezza, svelano le realtà significate dalle parole, mentre le parole
proclamano le opere e spiegano gli eventi.
Così fa il papa. Fin dall’inizio ci sono stati parole e gesti da cui si è
capito che papa fosse questo papa.
Anzitutto, naturalmente, c’è stata la scelta del nome. Quello di Francesco rappresenta
nella storia della Chiesa un nome che si è contrapposto a quello di papa
Innocenzo III, richiamando a un
modello alternativo di Chiesa; e dunque è un nome che allude a una
Chiesa che ricomincia non dal potere, ma dal servizio, non dal sovraccarico
dell’istituzione, ma dalla leggerezza della profezia.
Poi c’è stata la scelta di presentarsi come vescovo di Roma, senza la
mozzetta rossa e le altre insegne imperiali che i papi si erano portate dietro
fin da Costantino; c’è stato il chinarsi al bacio del piede dei detenuti, la
sera del giovedì santo, che riscattava l’antica pretesa del papa[2]
che a lui tutti i principi baciassero i piedi; c’è stato il bacio del piede
della giovane reclusa musulmana dai lunghi capelli neri, che restituiva alla
donna quel gesto di venerazione e di affetto che la peccatrice aveva compiuto
bagnando di lagrime i piedi di Gesù, baciandoli e cospargendoli di olio
profumato; con quel gesto il lontano successore di Pietro pagava il debito d’amore
del suo maestro, di nuovo toccava il corpo di una donna finora sempre tenuto
nascosto e temuto nella Chiesa.
C’è stato poi, insistente, il mutamento d’accenti del papa nel parlare di
Dio; un Dio che, come non si stanca di ripetere, è solo “fascinans” e non “tremendum”,
un Dio che sempre perdona e anzi che solamente
perdona; un Dio che “giudica amandoci”, come ha detto nella via Crucis al Colosseo. Non un Dio che
giudica e ama, come subito hanno tradotto i volgarizzatori che non si accorgono
delle novità; perché questo, di dispensare insieme amore e giudizio, lo faceva
anche la Chiesa dell’Inquisizione; si tratta invece di un Dio in cui non c’è
giudizio, perché l’amore è il giudizio: quello che il papa ha detto è che non
c’è una misericordia accanto al giudizio ma, come pensava Isacco di Ninive, la
misericordia stessa è il giudizio; e questa misericordia il papa l’ha imparata
dai libri dei teologi non meno che dalle parole di una anziana donna di Buenos
Aires[3],
come ha detto nel suo primo Angelus dalla finestra di una stanza che non è più
la sua.
Scelte che
annunciano novità
Tra le prime scelte di papa Francesco c’è stata poi quella di abitare a
Santa Marta. Non è una questione di povertà, ché anzi a Santa Marta si sta
meglio che nel palazzo apostolico. Santa Marta non è certo il sasso che usava
per dormire San Francesco a La Verna. La questione è di identità. Quando i due
discepoli di Giovanni il Battista videro per la prima volta Gesù gli chiesero:
dove abiti? Gesù rispose loro: venite e vedrete. E dopo essere andati e aver
visto dove abitava capirono che era il Messia (erano circa le quattro del
pomeriggio, precisa l’evangelista Giovanni) e così cominciò la storia di Andrea
e suo fratello Pietro al seguito di Gesù. Dunque l’abitare è rivelazione dell’identità.
Essere l’inquilino del palazzo apostolico, come essere l’inquilino del
Quirinale, o l’inquilino della Casa Bianca, identifica con il ruolo, la persona
scompare. Non si dice più Ratzinger, Napolitano, Obama, si dice la Santa Sede,
il Colle, la Casa Bianca. Abitare in albergo, sia pure entro le mura vaticane
(di più oggi non si può fare) vuol dire invece essere uno dei tanti, avere il
numero di una stanza, mangiare in sala da pranzo, e continuare a chiamarsi
Francesco. Cioè non c’è l’istituzione che si identifica col Palazzo, c’è un
uomo, un prete, un vescovo che fa il papa e va in ufficio al Palazzo. Sembra un
particolare da poco, ma cambia la percezione del papato.
E c’è un’altra conseguenza decisiva: ogni mattina il papa dice la Messa non
nella sua cappella privata, ma nella cappella di Santa Marta, frequentata da
ospiti e persone diverse, e tiene l’omelia, cioè ogni mattina il papa legge e
spiega il Vangelo; e si è visto come le omelie di Santa Marta, di cui non
esiste un testo ufficiale, sono tra le cose più belle del ministero di papa
Francesco; non sono i discorsi pontifici, per leggere i quali bisogna pagare i
diritti alla Libreria Editrice Vaticana, ma è il papa che apre il Vangelo e col
suo popolo lo commenta, come faceva san Gregorio Magno con le sue “Omelie sui
Vangeli” al popolo romano, e come Giovanni XXIII nel “Giornale dell’anima” ha
scritto che sia il compito proprio
del papa e dei vescovi.
Il pontificato è cominciato così. E poi piano si sono andate dipanando le
sue proposte di riforma. La prima è quella di una Curia non cortigiana, perché
come ha detto a Scalfari “la corte è la lebbra del papato”; la Curia, secondo
Francesco, ha il difetto di essere vaticanocentrica e di curare gli interessi
del Vaticano che sono ancora in gran parte interessi temporali, mentre i
dicasteri romani, invasi da denunce di deviazioni teologiche, rischiano di
diventare “organismi di censura”; al contrario la Curia è come l’intendenza
degli eserciti, essa dovrà operare con mezzi poveri, fino al punto da chiedersi
se davvero abbia bisogno di una banca, e deve essere al servizio di una Chiesa
sempre più sinodale e conciliare, come l’aveva vista il cardinale Martini,
sicché il papa “farà di tutto per cambiarla”.
Ancora, per capire come papa
Francesco voglia cambiare la Chiesa, basta pensare alla sua concezione
dell’episcopato, a cui dovrebbero accedere proprio quelli che non vogliono fare i vescovi, che non
pensano alla carriera, che non hanno una mentalità da principi, che non sono
spiritualmente bigami col desiderio di sposare una Chiesa sempre più grande di
quella che hanno; devono essere invece vescovi capaci di mettersi non solo alla
testa del gregge, ma anche in mezzo al gregge e dietro al gregge, perché il
gregge ha il fiuto per trovare nuove strade e spesso è lui a condurre il
pastore. E qui c’è il richiamo costante che Francesco fa al “sensus fidelium”, qui c’è il suo
“sentire con la Chiesa”, raccomandato da S. Ignazio: non è “un sentire riferito
ai teologi” e nemmeno un “sentire con la parte gerarchica” della Chiesa, ma un
sentire con la totalità del popolo di Dio, “con la Chiesa intesa come popolo di
Dio, pastori e popolo insieme”. In effetti c’è una tradizione discepolare che
dovremmo riscoprire, accanto a quella sempre celebrata che è la tradizione
apostolica; una tradizione della fede che dai discepoli di Gesù, dalle donne
del sepolcro, dal “discepolo che Gesù amava” giunge oggi fino a noi.
Basta pensare poi al suo
rifiuto del clericalismo, al suo non volere laici clericali né preti celibi
intesi come scapoloni o suore vergini intese come zitelle. Basta pensare al suo
rapporto con i giornalisti, che ne rimangono folgorati: come quando dice a
Scalfari che il proselitismo non ha senso, che la verità non è assoluta ma è
una “relazione” con l’amore di Dio, che la grazia può toccare anche un non
credente come lui e a sua insaputa, e che fare il bene consiste nell’obbedire
alla coscienza e nel fare ciascuno ciò che concepisce come bene e combattere
ciò che concepisce come male. E folgorati sono rimasti anche i giornalisti
quando ha detto loro nel viaggio di ritorno dal Brasile: “chi sono io per
giudicare i gay?”, tutto ciò con grande scandalo di chi si è dimenticato di
fare il passaggio dalla Legge al Vangelo.
C’è poi l’opzione teologica del discernimento, appreso alla scuola di S.
Ignazio, per il quale i princìpi devono essere incarnati nella realtà, lo
spirito deve prevalere sulla regola, il Vangelo sull’etica, e la profezia deve
fare rumore, anzi come lui dice, deve fare “casino” nella Chiesa.
Nella intervista alla “Civiltà cattolica” le linee teologiche del suo
pontificato sono espresse con particolare chiarezza. E se l’ispirazione è
francescana, l’identità e il programma sono gesuiti. Lo ha detto ai giornalisti
sull’aereo del ritorno dal Brasile: “Mi sento gesuita nella mia spiritualità.
Non ho cambiato di spiritualità, no. Francesco, francescano, no. Mi sento
gesuita e la penso come gesuita. Non ipocritamente, ma la penso come gesuita”.
E dei gesuiti sono i tre caratteri del suo essere cristiano, vescovo e papa: la
missionarietà, la comunità e la disciplina.
La Chiesa di papa Francesco è una Chiesa capace di curare le ferite e di
riscaldare il cuore dei fedeli, non di metterli sotto giudizio. “Io vedo la
Chiesa – ha detto – come un ospedale da campo dopo una battaglia: è inutile
chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti. Si devono
curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”.
E il primo annunzio della Chiesa, la prima cosa da dire nelle omelie deve
essere la buona notizia del Regno, che “è previa all’obbligazione morale e
religiosa”. Invece la Chiesa si è fatta rinchiudere “in piccole cose, in
piccoli precetti”. E contro quelli che tendono in maniera esagerata alla
“sicurezza” dottrinale, il papa dichiara la sua “certezza dogmatica”, che è una
certezza semplice ed essenzialissima: “Io ho una certezza dogmatica: Dio è
nella vita di ogni persona”. È un Dio che si manifesta nel tempo ed è presente
nei processi della storia. Questo “fa privilegiare le azioni che generano dinamiche
nuove”. Non tutto è dunque sullo stesso piano. E anche gli insegnamenti, tanto
dogmatici che morali, non sono tutti equivalenti. Questo il papa lo ha detto
nell’intervista a “Civiltà Cattolica” a proposito delle questioni legate ad
aborto, matrimonio omosessuale e uso dei contraccettivi. Non si può insistere
solo su queste cose, ha detto. Una pastorale missionaria non è ossessionata
dalla trasmissione disarticolata di dottrine da imporre con insistenza. Come
diceva il Concilio c’è una gerarchia delle verità, e c’è un primato della
sollecitudine pastorale che deve guidare le scelte e i linguaggi della Chiesa.
Tutto questo si è inserito in un’azione pastorale che in pochi mesi ha
prodotto eventi straordinari: Lampedusa, il viaggio in Brasile, Cagliari,
Assisi, la veglia per la pace del 7 settembre.
Contro Francesco
Naturalmente è partita la reazione a questo modo di fare il papa.
Lefebvriani, atei-devoti, tradizionalisti, anticonciliari, leghisti hanno
aperto le ostilità. Il sito di Sandro Magister e dell’Espressonline ha dato spazio alle critiche. “Il Foglio” di Giuliano
Ferrara ha accusato il papa di eterodossia, modernismo, infedeltà e adulterio
con il mondo. Intollerabile sembra che il papa abbia visto nella Chiesa un
“ospedale da campo della misericordia al posto dell’esercito angelico di
Wojtyla e della cattedra razionale di Ratzinger”. Più raffinato l’attacco del
prof. Pietro de Marco di Firenze, che ha in mano tutti gli strumenti del
mestiere essendosi formato, prima di passare ad altri orientamenti, nella
cosiddetta “scuola di Bologna” di Dossetti ed Alberigo.
Le contestazioni sono molto pesanti e proprio così aiutano a comprendere la
novità evangelica del pontificato di Francesco.
Ma proprio qui sta il punto: le accuse sono tanto più veementi quanto più le
cose rimproverate al papa rappresentano il ritorno a un Vangelo preso sul serio
e alla più autentica tradizione e dottrina della Chiesa.
Si prenda ad esempio la grande controversia che è stata aperta sul richiamo
di papa Francesco alla libertà.
Qui l’accusa è di soggettivismo: perché se ciascuno deve fare ciò che la sua
coscienza gli detta come bene, e combattere ciò che gli addita come male,
verrebbe meno il bene inteso come valore oggettivo, ci sarebbe una sorta di
immunità e ingiudicabilità della coscienza, la Chiesa perderebbe il suo
mestiere di guida e controllo delle anime, non ci sarebbe più né grazia né
peccato, e non resterebbe altro che una ”lotta di tutti contro tutti, una lotta strenua, perché compiuta per
il bene e non per l’utile o altro contingente”. Secondo De Marco è per questo
che le visioni particolari “devono essere regolate da un sovrano”, cioè da un’autorità
esterna, che siano le leggi umane o la legge di Cristo, la quale “non ha alcuna
sfumatura concessiva in termini individualistici”.
Qui però viene introdotto un
conflitto tra eteronomia e autonomia che l’evento cristiano ha annullato
inchiodandolo alla croce di Gesù. Quando papa Ratzinger ha detto che nella
riconciliazione con l’età moderna, che è stata la vera “discontinuità” del
Concilio, la Chiesa ha rivendicato la libertà non prendendola in prestito
dall’illuminismo, ma attingendola dal suo “patrimonio più profondo”, diceva
appunto questa verità fondamentale della fede: l’uomo è libero non perché si
sottrae a un’autorità che gli si imponga dal di fuori, ma perché la libertà è
l’immagine di Dio che Dio stesso ha impresso dentro di lui (”un segno
privilegiato dell’immagine divina”, dice la Gaudium
et Spes del Concilio al n. 17).
Il comando di Dio non precipita
sull’uomo dall’alto, perché “Dio è nella vita di ogni persona”, secondo quella
che è la “certezza dogmatica” di papa Bergoglio, che il Concilio corrobora
dicendo che entrando con Cristo nella storia “Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Perciò la libertà
di coscienza, la libertà dell’atto di fede, e le libertà anche civili e
politiche che ne derivano, sono radicate nella dignità stessa dell’uomo, come
ha affermato nella “Pacem in terris” papa
Giovanni staccandosi dal magistero pontificio dell’Ottocento, cosa riguardo a
cui i censori ecclesiastici dell’Enciclica lo avevano messo in guardia, e di
cui consapevolmente Giovanni XXIII non tenne conto; ed è così che il tema della
libertà religiosa e della libertà umana tout
court giunse alla riformulazione della dottrina quale si trova in quel
documento del Concilio che non a caso si intitola “Dignitatis humanae”.
In quella dichiarazione sulla
libertà religiosa il Concilio Vaticano II dice che l’uomo è “tenuto ad obbedire
soltanto alla propria coscienza”, e
ciò viene ripreso dall’insegnamento degli Apostoli ”istruiti dalla parola e
dall’esempio di Cristo” (D. H. n. 11). E questo primato ed autorità della
coscienza deriva dal fatto che “l’uomo coglie e riconosce gli imperativi della
legge divina attraverso la sua coscienza”, il che vuol dire che ciò che è
relativo non è della verità e della legge divina in se stesse, ma del modo in
cui ciascuno le riconosce e le osserva (D. H. n. 3). E la coscienza non è
l’istanza suprema che giudica del bene e del male, come fraintendono i critici,
ma è l’istanza prossima che li fa riconoscere e assumere nella decisione
personale.
D’altra parte difficilmente la Chiesa
avrebbe potuto dire alle autorità pubbliche che non si deve costringere l’uomo
“ad agire contro la sua coscienza” né “impedirgli di agire in conformità ad
essa”, se essa stessa non avesse voluto farlo per prima; e la ragione non è un
cedimento allo spirito del mondo, ma è che “la
coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con
Dio, la cui voce risuona nell'intimità”, come dice la Gaudium et Spes (n. 16) citando San Tommaso; ed è Dio stesso che si
fida della coscienza e si fida della libertà se, come aggiunge la Costituzione
pastorale citando il Siracide, “Dio volle lasciare l'uomo «in mano al suo
consiglio»”.
Papa Francesco è stato
poi accusato di abdicare allo stesso suo “munus”
di papa e a secoli di confessionali e di “libri penitenziali” per aver detto:
“chi sono io per giudicare?”. Ma il “non giudicare” (inteso anche nel senso di
“non condannare”) è una delle più straordinarie raccomandazioni del Vangelo; in
Matteo e in Luca esso fa parte degli insegnamenti di Gesù che seguono le
beatitudini, e quindi è in stretta relazione con l’entrare nel regno di Dio. Il
non giudicare fa parte dei precetti che cominciano con “Non” e che implicano un
superamento o un rovesciamento di precetti antichi: non solo non uccidere, ma
non adirarsi e non insultare il fratello; non solo non commettere adulterio, ma
non desiderare; non solo non vendicatevi, ma siate non violenti; non solo non
spergiurare, ma non giurare affatto; e così non solo non giudicare come
giudicano gli scribi ed i farisei, ma non giudicare affatto. Il non giudicare
rientra quindi nella dirompente novità evangelica del “Ma io vi dico”. E se
questo è detto per tutti, è detto anche per la Chiesa e per Pietro, che poi
hanno abusato anche troppo di una interpretazione letterale e fondamentalista
dell’attribuzione del potere delle chiavi, e si sono posti come sostituti di
Dio nel legare e sciogliere sulla terra ciò che, sospesa la misericordia
divina, dovrebbe essere legato e sciolto pure nei cieli, anche se a legare e
sciogliere è stata la Santa Inquisizione.
Si potrebbero
raccogliere altri temi di contrasto tra il papa e i suoi critici (il non
proselitismo, la non ingerenza nella vita spirituale, l’interpretazione della
riforma liturgica come un servizio reso alla fede dei credenti), ma ciò basta a
dire come le espressioni di papa Francesco, anche le più ardite, non sono
frutto di improvvisazioni o di “errori comunicativi”, ma pongono problemi molto
seri di discernimento e di adesione alla fede e all’autentica missione della
Chiesa. Del resto lo stesso De Marco riconosce come la novità di papa Francesco
non sia una novità “di superficie” consistente in uno stile “postmoderno” di
comunicazione che renderebbe “liquido” il suo messaggio; al contrario “il
nucleo solido” di papa Bergoglio “è e resta conciliare”. In effetti in gioco
c’è la Chiesa, c’è la fede e c’è la dottrina del Concilio; la posta in gioco
col pontificato di papa Francesco è la ripresa dell’attuazione del Concilio o il
portare a compimento il processo della sua rimozione.
In un senso ancora più
profondo l’alternativa posta dal pontificato intitolato a Francesco non è
nemmeno quella tra Concilio e anti-Concilio, ma tra legge e Vangelo; si tratta
di quella che in ogni tempo si pone come la scelta radicale per i discepoli di
Gesù, cioè il passaggio dalla vecchia alla nuova economia, dal tempio al corpo
di Cristo, dalla schiavitù della legge alla libertà dei figli di Dio, si tratta
di rinnovare una Chiesa che “a volte si è fatta rinchiudere in piccole cose, in
piccoli precetti”, di non dare un annuncio in cui è offuscata la notizia del
regno, in cui l’etica prevale sulla religione e la regola sullo spirito. E si
tratta di un cristiano che sul trono di Pietro agli adoratori dell’Essere, cioè
del “tessuto di energia caotica dal quale sorgono le forme, gli Enti”
(Scalfari) ripete, come l’ultimo dei fedeli, la sua limpida professione di
fede: “E io credo in Dio. Non in un Dio cattolico, non esiste un Dio cattolico,
esiste Dio. E credo in Gesù Cristo, sua incarnazione. Gesù è il mio maestro e
il mio pastore, ma Dio, il Padre, Abbà, è la luce e il creatore”.
Raniero La Valle
[1] Sandro
Magister, www.Chiesa.espressonline.it
, 7 ottobre 2013.
[2] Nel “Dictatus papae”, 1075, di Gregorio VII.
[3] “Dio perdona
sempre, altrimenti il mondo non esisterebbe”. Sono le parole di una donna
argentina che il papa ha riferito nell’ “Angelus” di domenica 17 marzo 2013. Il
teologo citato è il cardinale Kasper.
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