di Raniero La Valle _ Torino 5
ottobre 2013
La prima era
il fatto, che oggi sembra ovvio ma che allora era spiazzante per i cattolici e
soprattutto per i vescovi abituali destinatari delle encicliche, che essa fosse
rivolta a tutti gli uomini di buona volontà; ciò voleva dire che non solo si
occupava di una cosa, la pace, che interessava tutti, ma che tutti erano
chiamati a fare la pace; cioè l’umanità intera era il soggetto che veniva
chiamato in causa per realizzarla sulla terra; in altre parole la pace non la
fa la Chiesa, la fa il mondo.
L’altra
ragione di meraviglia era che la guerra, fino ad allora giudicata dalla Chiesa
tanto ragionevole da poter perfino essere considerata giusta, e in certi casi
addirittura doverosa (come si pretenderà in seguito che fossero le “guerre
umanitarie”), era definita dall’enciclica insensata, fuori della ragione, e ciò in forza della vox populi prima ancora che per voce del
papa.
C’era poi la
meraviglia di lotte umane molto controverse, come quelle degli operai, delle
donne, dei popoli soggiogati, che venivano innalzate al rango di segni dei
tempi, cioè di fatti della storia che avevano a che fare con l’avvicinarsi del
regno di Dio; e la stessa cosa avveniva di conquiste umane molto recenti e
combattute, come l’ONU, le Costituzioni, lo Stato di diritto, considerati come
segni, cioè come anticipazioni, del regno futuro.
C’era poi la
meraviglia di un testo religioso che in prima istanza si preoccupava non della propagazione della fede, ma
dell’affermazione della dignità, termine che nell’enciclica ricorre più di
trenta volte, più di quanto venga nominata la pace. E si trattava della dignità
di ogni uomo, donna, popolo e nazione.
C’era poi la
meraviglia di un’enciclica che si occupava della società ma non era
un’enciclica sociale, non dava prescrizioni, ma era tutta fondata su
un’antropologia positiva, persuasa del fatto che l’uomo, pur avendo peccato,
fosse tuttora dotato di una integrità naturale e che perciò, grazie alla loro stessa natura gli esseri
umani, pur non animati dalla fede, fossero capaci di attuare cose buone in se
stesse o riconducibili al bene, a cominciare proprio dalla pace.
E c’era poi
la meraviglia di un testo del magistero che al primo posto metteva la libertà e
affermava il primato della coscienza contro ogni potere, ponendosi così come il
primo documento ecclesiale, dopo il Vangelo, che potesse considerarsi
all’origine di una teologia della liberazione.
Il rovesciamento della “Mirari vos”
Ho fatto
riferimento alla meraviglia provocata dall’enciclica, perché questo ci permette
di introdurre un confronto con un’altra enciclica, uscita più di un secolo
prima, che aveva anch’essa a che fare con la meraviglia. Anzi essa era
casualmente intitolata alla meraviglia.
Si tratta della Mirari vos di Gregorio XVI, un papa camaldolese che i camaldolesi
di oggi non ricordano volentieri, essendo egli stato nell’800 un campione della
lotta contro la modernità. Ai vescovi suoi interlocutori papa Gregorio scriveva
nell’agosto del 1832 di comprendere come fosse per loro ragione di meraviglia (Mirari vos, appunto) che egli non avesse
ancora scritto loro alcuna lettera, dopo più di un anno di pontificato, e ne
dava colpa al fatto che il suo governo e la Chiesa erano stati sconvolti da
ogni sorta di calamità: dalla “perversa cospirazione degli empi”, dalla
“insolenza dei faziosi” e dallo “sfrenato
furore dei ribelli”,
espressioni con cui in effetti il papa si riferiva alle rivoluzioni
liberali esplose negli Stati pontifici, ai conseguenti interventi nei suoi
territori delle armi austriache e francesi e alle pressioni sulla Roma papale
delle altre potenze europee. Ed ecco che, ristabilito a malapena l’ordine,
Gregorio XVI subito scriveva quella sua prima enciclica che, rivolta contro i
cattolici liberali di Lamennais e il loro giornale “L’Avenir”[1], condannava,
come diceva fin dal titolo, “la libertà di coscienza, di stampa, di pensiero e
di culto”. Quella enciclica poneva la religione come fondamento e sgabello del
potere politico, accusava di indifferentismo il rispetto per le altre
religioni, bollava come “un delirio” (“deliramentum”)
la libertà religiosa e la libertà di coscienza, esecrava “la mortifera peste
dei libri” e metteva al bando i sediziosi che “con infamissime trame” mancavano
di fede - cioè resistevano - ai Principi e si sforzavano di cacciarli dai
troni.
Ora il
confronto della Pacem in Terris con
quel documento pontificio ottocentesco è utile, perché ne rappresenta il
radicale rovesciamento; contro di esso, così come del resto contro il
successivo Sillabo di Pio IX, l’enciclica giovannea rivendicava proprio quelle
libertà condannate come grandi valori umani e cristiani. Ed era un
rovesciamento di cui Giovanni XXIII e la sua curia erano perfettamente
consapevoli. Ciò risulta dalla storia della redazione dell’enciclica, come è
stata raccontata da Alberto Melloni[2].
Secondo
questa ricostruzione, Giovanni XXIII aveva sottoposto la sua enciclica a un
esame preventivo, cioè a una censura. Però non l’aveva mandata al Sant’Uffizio,
e invece l’aveva sottoposta al vaglio del domenicano padre Luigi Ciappi,
maestro dei sacri palazzi, e del gesuita padre George Jarlot, professore alla
Gregoriana. Ambedue gli dissero che l’enciclica era bellissima, però era in
contraddizione con tutto il magistero pontificio dell’800, e anche con quello
di Pio XII.
In
particolare il padre Ciappi ammonì che il riconoscimento a ogni essere umano
del diritto alla libertà poteva essere interpretato come favorevole al
liberalismo e indifferentismo in campo morale e religioso, e che pertanto
doveva essere ristabilita “la continuità dottrinale del magistero ordinario dei
Sommi pontefici” a meno che, aggiungeva con una certa malizia, non si volesse
“implicitamente far prevalere concezioni che, anche in campo cattolico, vanno
oggi diffondendosi come più rispondenti alla mentalità moderna”. Anche riguardo
alla parità della donna da considerarsi secondo l’enciclica “come persona, a
parità di diritti e di doveri nei confronti dell’uomo”, padre Ciappi chiedeva
una correzione. “Il testo dovrebbe essere ritoccato – scriveva al papa –
altrimenti si potrebbe conchiudere che la donna non ha alcuna dipendenza e
subordinazione nei rispetti dell’uomo nella
vita domestica contro il chiaro insegnamento di San Paolo, della tradizione
e di Pio XII”. Perciò, contro la voce del serpente, cioè del diavolo, che
secondo Pio XII ripeteva alle casalinghe: “voi siete in tutto eguali ai vostri
mariti”, padre Ciappi sosteneva che si dovesse opporre l’affermazione che la
donna come sposa è “soggetta e dipendente dall’uomo”. Ricordo queste cose perché si sappia dove eravamo.
Quanto al
padre Jarlot, egli muoveva all’enciclica una contestazione ancora più radicale,
che riguardava l’affermazione forte su cui tutto il testo era costruito.
L’affermazione forte era, come è a tutti noto, che la pace doveva fondarsi su
quattro pilastri: la verità, la giustizia, la carità, la libertà. Questi
quattro fondamenti della pace (e perciò della vita associata degli esseri
umani) papa Giovanni li aveva messi sullo stesso piano, e tutte e quattro
queste stelle polari dovevano condurre gli uomini alla pace: “veritate, iustitia, caritate, libertate,
magistris et ducibus”: maestre e guide. Per la prima volta nel magistero
romano la verità non era messa al di sopra, come condizione e limite alla
libertà, ma era messa sullo stesso piano della libertà. Padre Jarlot se ne
accorse subito, e scrisse al papa che solo la verità può essere una guida, da
cui derivano la libertà, la giustizia e la carità; al contrario, diceva, la
libertà è una guida incerta che non può essere messa in serie con le altre. Ma
anche in questo caso Giovanni XXIII non raccolse l’obiezione, e il testo rimase
così com’era.
Questo è un
punto cruciale, ed il vero punto di svolta, perché sulla libertà e sulla
libertà di coscienza la controversia infuria anche oggi, quando per
l’affermazione della libertà di coscienza lo stesso papa Francesco è accusato
di relativismo e di soggettivismo.
Come deve cambiare l’annuncio della fede
Dunque nella Pacem in Terris ci fu una novazione
proprio di carattere dottrinale, che passò poi nel Concilio ispirandone diversi
testi, dalla Dignitatis humanae, alla
Nostra Aetate, alla Gaudium et Spes, al decreto
sull’ecumenismo, a quello sulle missioni.
Io penso che
il Concilio avrebbe avuto molta difficoltà a sfidare l’autorità di un reiterato
magistero pontificio, se non fosse stato il papa stesso a correggere quel
magistero. Ciò vuol dire che la Pacem in
Terris conteneva in se stessa una grande potenzialità di cambiamento, che
andava ben oltre il contenuto specifico del suo messaggio. Essa svelava un
aspetto essenziale del magistero ecclesiale, cioè la sua emendabilità, la sua
progressione nel tempo, la sua capacità di corrispondere alle nuove necessità
storiche, leggendo “i segni del tempo”. E ciò a partire proprio dal magistero
petrino.
In tal modo
Giovanni XXIII dava una dimostrazione pratica di che cosa volesse dire che la
sostanza della medesima dottrina dovesse essere esposta “nei modi che la nostra età
esige". Era questo il compito che papa Giovanni aveva affidato al
Concilio; anzi nel discorso inaugurale dell’11 ottobre 1962 “Gaudet
Mater Ecclesia”, aveva scritto che proprio questo, cioè una riproposizione
della fede di sempre “attraverso le forme dell’indagine e della formulazione
letteraria del pensiero moderno” era il “punctum
saliens”, la stessa ragione di essere del Concilio. Ed è in questo senso
che il Concilio doveva essere un Concilio pastorale; ma per essere pastorale
doveva essere dottrinale, perché riproporre l’annuncio evangelico nelle forme
che i nostri tempi richiedono, "ea
ratione quam tempora postulant nostra”, come seccamente era tradotto in
latino, significava non certo adattare gli stili letterari, ma comprendere
meglio il Vangelo a partire dall’umanità a cui oggi esso è rivolto, perché
questo vuol dire leggere i segni dei tempi. La dottrina pertanto non solo
doveva essere diversamente “rivestita”, ma doveva essere investigata e
reindagata (“pervestigetur”, diceva
il testo latino del discorso giovanneo) e le verità in essa contenute dovevano
essere enunciate in modo che gli
uomini del nostro tempo potessero intenderle ed accoglierle. Il fine della
Chiesa è infatti tutto intero un fine pastorale. La pastorale non è una tecnica
di comunicazione o di linguaggio ma, come dirà poi papa Francesco, è la
maternità stessa della Chiesa. Il rapporto con gli uomini, con le donne di
oggi, il sentire l’odore del gregge, per usare le parole di Francesco, questo
doveva essere il Concilio: parlare al gregge, presentandogli la fede di sempre
nei modi che la nostra età esige, nei modi che il gregge di oggi potesse
raccogliere.
Questo è esattamente ciò che, esemplarmente, aprendo la
strada, ha fatto la “Pacem in terris”:
dire che la libertà religiosa e la libertà di coscienza non erano “un delirio”
ma la dignità stessa impressa nell’uomo da Dio, non era il cambiamento di un
genere letterario, era una esplosiva novità dell’annuncio.
E che questa novità venisse dal papa, voleva dire che il
papato stesso si rimetteva in gioco. Ma, e questo è importante, si rimetteva in
gioco non perché inventasse una nuova dottrina, ma perché finalmente tornava
all’annuncio autentico derivante dal Vangelo: la libertà non se l’era inventata
l’illuminismo, era la dignità stessa di Dio che Dio aveva impresso come sua
immagine nella natura dell’uomo. Per questo papa Giovanni potrà dire sul letto
di morte, replicando alle critiche mosse all’enciclica: “Non è il Vangelo che
cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”.
La riforma del
papato può riprendere oggi?
Dunque la “Pacem in
terris” conteneva in nuce la
riforma del papato e la riforma della Chiesa.
Ed è qui
allora che io vorrei trovare il legame più stringente tra l’evento
dell’enciclica che noi oggi commemoriamo e il passaggio a cui è chiamata la
Chiesa di oggi. Qui c’è l’arco
voltaico che dalla “Pacem in terris”
e dal Concilio va al papa gesuita che si chiama Francesco, è qui che il fuoco
dell’enciclica può tornare ad ardere oggi, perché quella riforma del papato che
papa Giovanni aveva avviato e che poi in questi cinquant’anni sembrava essersi
esaurita (ed anzi esorcizzata in una sorta di nuovo trionfalismo e
sacralizzazione papale) ecco ora, con papa Francesco, può riprendere. E la
riforma del papato, come si è visto dopo il Concilio, è la condizione per la
riforma della Chiesa.
Molte parole
e gesti di questi primi sette mesi di pontificato sembrano andare in questa
direzione. E dico parole e gesti perché per papa Francesco gesto e parola sono
una cosa sola; il Vangelo non è solo annunciato, è reso visibile, lo si fa
toccare, come si faceva toccare Gesù, non meditandolo in solitudine, ma uscendo
fuori della porta per andare ad abbracciare il corpo del fratello piagato, come
si è visto nel gesto più eloquente di tutti, lo sbarco di Francesco nel tragico
porto di Lampedusa.
Del resto
come dice la “Dei Verbum” del
Concilio la rivelazione di Dio si manifesta attraverso eventi
e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella
storia della salvezza, svelano le realtà significate dalle parole, mentre le
parole proclamano le opere e spiegano gli eventi.
Così fa papa
Bergoglio. Ma che cosa vuol dire riforma del papato?
Qui si
potrebbero dire molte cose, perché moltissimi sono ormai gli indizi e anzi le
prove di come il papa voglia cambiare la Chiesa e il papato.
Basta pensare
alla scelta del nome, alla decisione di abitare a Santa Marta, alla predicazione
quotidiana del Vangelo in una messa non più solitaria come quelle che dicevano
i vecchi papi nella loro cappella privata con i loro segretari.
Basta pensare
al rapporto stabilito con i profughi a Lampedusa, con i giovani in Brasile, con
gli operai e i disoccupati a Cagliari, con i poveri e i disabili ad Assisi.
Basta pensare
alla sua idea di una Curia non cortigiana, perché come ha detto a Scalfari “la
corte è la lebbra del papato”; la Curia, secondo Francesco, ha il difetto di
essere vaticanocentrica e di curare gli interessi del Vaticano che sono ancora
in gran parte interessi temporali mentre i dicasteri romani, invasi da denunce
di deviazioni teologiche, rischiano di diventare “organismi di censura”; al
contrario la Curia è come l’intendenza degli eserciti, essa dovrà operare con
mezzi poveri, fino al punto da chiedersi se davvero abbia bisogno di una banca,
e deve essere al servizio di una Chiesa sempre più sinodale e conciliare, come
l’aveva vista il cardinale Martini, sicché il papa “farà di tutto per
cambiarla”.
Ancora, per capire come papa Francesco
voglia cambiare la Chiesa, basta pensare alla sua concezione dell’episcopato, a
cui dovrebbero accedere proprio
quelli che non vogliono fare i vescovi, che non pensano alla carriera, che non
hanno una mentalità da principi, che non sono spiritualmente bigami col
desiderio di sposare una Chiesa sempre più grande; devono essere invece vescovi
capaci di mettersi non solo alla testa del gregge, ma anche in mezzo al gregge
e dietro al gregge, perché il gregge ha il fiuto per trovare nuove strade e
spesso è lui a condurre il pastore.
Basta pensare al suo rifiuto del
clericalismo, al suo non volere laici clericali né preti celibi intesi come
scapoloni o suore vergini intese come zitelle. Basta pensare al suo rapporto
con i giornalisti, che ne rimangono folgorati: come quando dice a Scalfari che
il proselitismo non ha senso, che la verità non è assoluta ma è una “relazione”
con l’amore di Dio, che la grazia può toccare anche un non credente come lui e
a sua insaputa, e che fare il bene consiste nell’obbedire alla coscienza e nel
fare ciascuno ciò che concepisce come bene e combattere ciò che concepisce come
male. E folgorati sono rimasti anche i giornalisti quando ha detto loro nel
viaggio di ritorno dal Brasile: “chi sono io per giudicare i gay?”, tutto ciò
con grande scandalo di chi si è dimenticato di fare il passaggio dalla Legge al
Vangelo.
E poi, come
indizio della Chiesa voluta da Bergoglio, ci sono le grandi opzioni teologiche.
Dio concepito come misericordia, e solo misericordia, un Dio che “giudica
amandoci”, cioè il cui stesso giudizio consiste nell’amare e perdonare sempre:
altrimenti, come gli ha detto un’anziana donna di Buenos Aires e lui ha
ripetuto dalla finestra del primo “Angelus”, “il mondo non esisterebbe”. C’è
poi l’opzione teologica del discernimento, appreso alla scuola di S. Ignazio,
per il quale i princìpi devono essere incarnati nella realtà, lo spirito deve
prevalere sulla regola, il Vangelo sull’etica, e la profezia deve fare rumore,
anzi come lui dice, deve fare “casino” nella Chiesa.
Nella
intervista alla “Civiltà cattolica” le linee teologiche del suo pontificato
sono espresse con particolare chiarezza. E se l’ispirazione è francescana,
l’identità e il programma sono gesuiti. Lo ha detto ai giornalisti sull’aereo
del ritorno: “Mi sento gesuita nella mia spiritualità. Non ho cambiato di
spiritualità, no. Francesco, francescano, no. Mi sento gesuita e la penso come
gesuita. Non ipocritamente, ma la penso come gesuita”. E dei gesuiti sono i tre
caratteri del suo essere cristiano, vescovo e papa: la missionarietà, la
comunità e la disciplina. Il “sentire con la Chiesa”, raccomandato da S.
Ignazio, non è “un sentire riferito ai teologi” e nemmeno un “sentire con la
parte gerarchica” della Chiesa, ma un sentire con la totalità del popolo di
Dio, “con la Chiesa intesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme”. La
Chiesa di papa Francesco è una Chiesa capace di curare le ferite e di
riscaldare il cuore dei fedeli, non di metterli sotto giudizio. “Io vedo la
Chiesa – ha detto – come un ospedale da campo dopo una battaglia: è inutile
chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti. Si devono
curare le sue ferite. Poi potremo parlare di tutto il resto”.
E il primo
annunzio della Chiesa, la prima cosa da dire nelle omelie deve essere la buona
notizia del Regno, che “è previa all’obbligazione morale e religiosa”. Invece
la Chiesa si è fatta rinchiudere “in piccole cose, in piccoli precetti”. E
contro quelli che tendono in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, il
papa dichiara la sua “certezza dogmatica”, che è una certezza semplice ed
essenzialissima: “Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni
persona”. Ed è questo un Dio che
si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo “fa
privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove”. Non tutto è dunque sullo
stesso piano. E anche gli insegnamenti, tanto dogmatici che morali, non sono
tutti equivalenti. Questo il papa lo ha detto nell’intervista a “Civiltà
Cattolica” a proposito delle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale
e uso dei contraccettivi. Non si può insistere solo su queste cose, ha detto.
Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata
di dottrine da imporre con insistenza. Come diceva il Concilio c’è una
gerarchia delle verità, e c’è un primato della sollecitudine pastorale che deve
guidare le scelte e i linguaggi della Chiesa.
Allora se
queste sono le linee del governo pastorale di Bergoglio, è chiaro che la
riforma del papato intrapresa da papa Francesco si ricollega a quel principio
di rimodellare l’annuncio della fede nei modi che la nostra età esige, che
dalla “Pacem in terris” e dal
discorso inaugurale del Concilio era stato posto come punto essenziale e
criterio di tutta l’azione della Chiesa.
Muta col tempo la comprensione dell’uomo
Ed è molto significativo che per
legittimare questa dinamica vivente nella enunciazione e nella trasmissione dei
contenuti della fede, papa Francesco abbia fatto appello alla stessa autorità a
cui i tradizionalisti fanno ricorso per difendere la fissità e l’immutabilità
della dottrina.
La linea di
resistenza dei tradizionalisti contro tutte le innovazioni e le nuove
intuizioni del Concilio, si era infatti attestata sul richiamo insistente e
obbligante a una massima di san Vincenzo di Lérins, un monaco francese del V
secolo, tradizionalmente citata per affermare la rocciosa permanenza del dogma
e il criterio conservatore della sua trasmissione di generazione in
generazione. Questa massima, detta anche “il canone di Lérins”, si trova in
un’opera chiamata “Commonitorium primum”
e diceva che si dovesse conservare “ciò che in ogni luogo, sempre e da tutti è
stato creduto”, in latino: Quod ubique, quod
semper, quod ab omnibus” è stato creduto. A ben vedere si tratta di una
formula restrittiva, perché difficilmente i tre criteri richiesti ricorrono in
tutte le verità credute, e tuttavia è stata usata in modo indiscriminato per
bloccare qualsiasi aggiornamento.
La sorpresa è
arrivata nell’intervista alla “Civiltà Cattolica”. A un certo punto il suo
direttore ha chiesto al papa se dovessero rimanere immutati l’antropologia e il
linguaggio con cui la Chiesa ha tradizionalmente espresso la sua comprensione
dell’uomo, mentre cambia il modo in cui l’uomo di oggi interpreta se stesso con
cognizioni diverse e con categorie diverse dal passato. La domanda era
rilevante perché non riguardava solo la bioetica; nell’antropologia cattolica
c’era, fino al Concilio Vaticano II, che l’uomo a causa del peccato originale
aveva perduto la sua integrità, era stato reso mortale e condannato al lavoro,
alla concupiscenza e ai parti con dolore. Ebbene, per rispondere alla domanda
Francesco si è alzato, è andato a prendere sulla sua scrivania il Breviario, lo
ha aperto all’ufficio delle Letture del venerdì della XXVII settimana, e ha
letto un passaggio che vi era contenuto del famoso Commonitorium di san Vincenzo di Lérins; ma invece del passo famoso
usato per bloccare ogni cambiamento, era un passo che diceva esattamente
l’opposto e che tradotto in italiano suona così: “Anche il dogma della
religione cristiana deve seguire queste leggi. Progredisce, consolidandosi con
gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età”. Ma questo,
contro i tradizionalisti e i lefevbriani, è esattamente ciò che aveva fatto la
“Pacem in terris”, ciò che aveva
detto papa Giovanni e aveva proclamato il Concilio, ed è ciò che non solo
legittima, ma esige lo sviluppo del magistero, la riforma del papato e la
riforma della Chiesa. Ha infatti spiegato il papa rispondendo infine alla
domanda del direttore della “Civiltà cattolica”: “San Vincenzo di Lerins fa il
paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo e la trasmissione da un’epoca
all’altra del depositum fidei che cresce e si consolida col passar
del tempo. La comprensione dell’uomo muta col tempo e così anche la coscienza
dell’uomo si approfondisce. Pensiamo a quando la schiavità era ammessa o la
pena di morte era ammessa senza alcun problema. Dunque si cresce nella
comprensione della verità. Ci sono norme e precetti ecclesiali secondari che
una volta erano efficaci, ma che adesso hanno perso di valore o significato. La
visione della dottrina della Chiesa come un monolite da difendere senza
sfumature è errata”. Ed è appunto per questo che nel Concilio non si ritrova
l’antropologia fondata sul peccato originale, e la“Pacem in terris” al contrario aveva detto che l’uomo tuttora godeva
di una integrità naturale (“naturali
morum integritate”) e che perciò, in forza della stessa “rerum natura” le azioni degli uomini
fossero riconducibili al bene.
Dunque la
Chiesa è in cammino con la storia, e deve misurarsi con gli anni, col tempo,
con l’età, parola di Vincenzo di Lerins.
Quali sono le esigenze della nuova età
E qual è il
compito che la “nostra età esige”?
Nell’età di
papa Giovanni il problema della salvezza degli esseri umani e del mondo da loro
abitato passava attraverso il pericolo della guerra nucleare, e aveva bisogno
che venisse fondata la pace sulla verità, sulla libertà, sulla giustizia e
sull’amore. E per questo apparve la “Pacem
in terris”. Oggi il problema della salvezza degli esseri umani e del mondo
da loro custodito, passa attraverso la minaccia rappresentata dal culto
idolatrico del denaro, e da un sistema economico improntato a un liberismo
selvaggio che rende i forti più forti, i deboli più deboli, e gli esclusi più
esclusi. Esso ha bisogno di un
amore che curi le ferite, restituisca la dignità dell’avere un lavoro, annunci
il perdono e sconfigga la cultura dello scarto. E per questo è apparso un papa
che si chiama Francesco. Un papa che denuncia la “globalizzazione
dell’indifferenza”.Un papa che di fronte alle centinaia di morti di Lampedusa
ha il coraggio di dire una sola parola: Vergogna.
Il compito
che perciò oggi ci è dato è che finalmente dobbiamo rovesciare l’idolo,
dobbiamo desacralizzare il denaro. Perché col Vangelo del denaro la pace non si
può fare. Il papa ha detto più volte di essersi ispirato, fin dalla sua
giovinezza, al quadro di Caravaggio sulla vocazione di Matteo, che egli andava
a vedere durante i suoi studi romani nella Chiesa di San Luigi dei francesi.
Tra le figure del quadro identificava Matteo non nel vecchio barbuto, come la
maggior parte dei critici, ma nell’uomo giovane – il pubblicano - che cerca di
difendere il denaro come un bottino: proprio ciò che Gesù veniva a disturbare
con la sua chiamata.
La chiamata
evangelica rivolta non solo a Matteo, ma a tutti, è di non trattare il denaro
come un bottino. Questo è il messaggio che ancora una volta è venuto il 4
ottobre da Assisi. Noi non possiamo più vivere in un mondo il cui padrone, il
cui sovrano, il cui pantocrator, il cui idolo è il denaro. Il denaro è
necessario perché senza denaro, senza questo “nome della bestia o numero del
suo nome”, come dice l’Apocalisse, non si può né comprare né vendere, cioè non
si può vivere. Però il mondo non può essere fondato sul denaro. Perché se è
fondato sul denaro non può essere fondato sul lavoro, come vorrebbe la nostra
Costituzione, non può essere fondato sulla libertà, sui diritti umani, sulla
democrazia e tanto meno sul Vangelo. Noi lo chiamiamo denaro, Marx lo aveva
chiamato “il capitale”. Ma siamo sempre lì. Non è possibile, non è umano un
mondo organizzato dal denaro, così come non è possibile, non è umano, un mondo
organizzato dal capitale. .L’Europa, la cui Costituzione è il denaro, è
Maastricht, è il Fiscal Compact, è il 3 per cento che non si può oltrepassare,
come il confine del sancta sanctorum, se si supera il quale si muore; l’Europa
del denaro non è l’Europa dei popoli, non può essere l’Europa che fa cadere le
barriere, che si pente di Lampedusa, che rinuncia a trasformare l’ospitalità in
un crimine.
È qui che c’è
il segno del papa gesuita che si chiama Francesco. Papa Giovanni aveva concluso
il suo mandato con la “Pacem in terris”,
lui lo comincia annunciando la Pacem in
maris; senza la pace sui mari non ci può essere la pace sulla terra. Perché
la pace sui mari vuol dire davvero la caduta dei confini, l’accoglienza, la
fraternità, il soccorso, la salvezza che ci diamo l’un l’altro.
Quando si sta
in mezzo al mare, su un barcone che affonda, il denaro non serve più, non
governa niente, non salva nessuno, anzi è l’ultima maledizione perché senza il
denaro del pedaggio su quel barcone non ci si sarebbe mai stati. Però serve
l’umanità, serve il diritto, serve il riconoscersi come immagini di Dio e
perciò tutti membri dell’unica famiglia umana.
Nel mare di
Sicilia sta andando a picco un mondo governato dal denaro, il mondo dell’idolo
che tiene sotto scacco il mondo dell’uomo. Aspettiamo di poter discernere un
nuovo segno dei tempi, quando il mare non si aprirà più come una tomba, nei
pescherecci si andrà solo per pescare e il debito, come il denaro, non sarà più
“sovrano”, cioè non avrà più il dominio del mondo.
Raniero La Valle
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