di Raniero La Valle
“Oggi sarai
con me in paradiso”, “Hodie mecum eris in
paradiso”, Luca 23,43.
Da questo
testo vorrei ricavare tre suggerimenti:
1) Il primo.
Il testo dice: “sarai”, non “ritornerai”. Eppure sul tema del ritorno in
paradiso è fiorita tutta una letteratura spirituale ed una predicazione
religiosa.
Il ritorno al
paradiso suppone che il paradiso stia nel passato: è il luogo che abbiamo
perduto e al quale dobbiamo tornare. A questa idea corrisponde una precisa
teologia: è la teologia della salvezza che sta nel passato, della terra
promessa che è quella da cui siamo usciti, del Padre da cui ci saremmo
allontanati e al quale dovremmo tornare.
E’ la
teologia del reditus, del ritorno;
non è la teologia della rivoluzione, e non è nemmeno la teologia della
conservazione: è la teologia della restaurazione.
Il paradiso perduto
Essa suppone
un ordine che stava nel passato, un ordine del cosmo che si è rotto. Le ragioni
che si portano di questa rottura primordiale sono molteplici. La prima,
avanzata dalla letteratura apocalittica ebraica dopo l’esilio a Babilonia, è
che il mondo non era come Dio lo aveva voluto. La creazione gli era riuscita
male, e doveva quindi essere rifatta da capo; oppure essa si era guastata a
causa di una congiura di angeli che avevano sciupato l’opera di Dio, come
ancora dice il catechismo della Chiesa cattolica, infaustamente promulgato nel
1992; l’altra ragione, avanzata dalla dottrina cristiana, è che questa catastrofe
originale sarebbe avvenuta per colpa nostra. Questa colpa starebbe nel fatto
che noi abbiamo compiuto un peccato così potente da sconvolgere tutto l’ordine
del cosmo, la natura e la cultura, la terra e gli uomini di tutte le
generazioni. Questa colpa sarebbe stata tale da offendere Dio con un’offesa
infinita, tale da potere essere lavata solo col sangue di un Dio, e quindi col
sangue del Figlio. Questo è quello che a partire da Anselmo da Aosta si
tramandava nelle nostre teologie.
In questa
visione pertanto il Paradiso stava prima della storia, prima del peccato
originale, prima che l’uomo e la donna fossero cacciati dal giardino dell’Eden
e condannati alla morte, al sudore del lavoro, ai pruni e alle spine della
terra e ai parti con dolore. Era peraltro un paradiso molto precario, subito
perduto, come se Cristo non ci fosse stato; ma ciò contraddice tutta la
cristologia nicena, su cui è costruito il cristianesimo, secondo la quale
Cristo redentore è coeterno al Padre, ed è all’opera fin dalla fondazione del
mondo.
E infatti,
come finalmente dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen Gentium”, Dio non cacciò nessuno dopo la caduta, ma intuitu Christi, in vista di Cristo
Redentore, non abbandonò l’uomo e mai gli negò gli aiuti necessari alla
salvezza.
L’idea del
paradiso che sta nel passato e al quale, mondati, dovremo tornare, non è
peraltro un’idea innocua, e per questo ne parliamo.
E’ infatti
l’idea di una storia pensata all’indietro, che marcia in senso antiorario, è
l’idea che la perfezione stava all’inizio, e che dopo la sua perdita non ci
sono state che macerie, oppure, come diceva il papa Ratzinger felicemente ex
regnante, ci sarebbe stato “un fiume sporco”, che è la storia. La perfezione
dell’inizio, secondo questa concezione, sarebbe invece rimasta nell’ordine
della natura, che perciò è considerato come immutabile, è concepito come sacro,
e come tale portatore di principi non negoziabili, e fonte di un diritto di
natura di cui la Chiesa sarebbe infallibile interprete e di cui dovrebbe farsi
garante contro il diritto positivo e, secondo Ratzinger, contro la democrazia
delle maggioranze.
Il paradiso
però non è questo, e non si trova così. Il paradiso è proprio quello che
distoglie dalla prigionia del passato e scompiglia questa concezione di una
storia rivolta all’indietro.
Lo leggiamo
nelle tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, dove la storia è
presentata sotto le vesti dell’Angelus Novus dipinto in un quadro di Klee.
Questo Angelus Novus, che sarebbe l’angelo della storia, e perciò secondo questa
allegoria sarebbe la storia stessa, ha gli occhi spalancati, le ali distese e
il viso rivolto al passato. Ma nel passato egli vede solo catastrofi che
accumulano senza tregua rovine su rovine e le rovesciano ai suoi piedi.
L’angelo – cioè la storia – vorrebbe fermarsi a sanare le rovine e ricomporre
l’infranto. Ma lì non c’è il paradiso. Dal paradiso invece, dice Benjamin,
spira una tempesta che si è impigliata nelle sue ali ed è così forte che
l’angelo non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel
futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui
al cielo. Ma lui se ne allontana, non ne è trattenuto. La tempesta che viene
dal paradiso invece lo spinge avanti, spinge avanti la storia, il paradiso è più
avanti, l’attrae verso di sé.
Il paradiso futuro
Il paradiso
dunque sta nel futuro, la perfezione non è al principio, ma è alla fine. Antico
e Nuovo Testamento annunciano cieli nuovi e terre nuove, non il ripristino dei
vecchi.
Com’è noto
però le tesi teologiche non restano confinate sul terreno religioso ma si
trasformano in dottrine e concetti politici come, secondo Carl Schmitt, è
avvenuto per tutti i principali concetti politici dell’Occidente; così la tesi
teologica del ritorno al paradiso si è secolarizzata prendendo le forme del
pensiero reazionario: più restaurazione che conservazione, più
controrivoluzione che centrismi moderati.
Per il
pensiero reazionario la società ideale è quella che c’era prima, la situazione
da ripristinare è quella perduta. Questa pulsione al ritorno al passato non è
solo degli assolutismi, insofferenti delle nuove forme democratiche; è anche la
tesi delle banche secondo cui per stare nella competizione l’Europa dovrebbe
rinunciare a molte conquiste di civiltà degli ultimi 50 anni, è anche la
fissazione di Bruxelles di riportare i bilanci al vecchio mito del pareggio, è
anche l’attacco berlusconiano alla politica per il rovesciamento delle regole
moderne e l’abrogazione delle norme a lui sgradite, ed oggi è la libidine delle
riforme costituzionali per tornare allo Statuto Albertino e allo Stato liberale
in salsa semipresidenziale.
Però è
accaduto che la tesi teologica del paradiso che sta dietro di noi, della
fissità dell’ordine della natura, della salvezza che sta nel ripristino del
passato, è stata destituita di validità dal Concilio Vaticano II, che ha invece
sposato la tesi dell’evoluzione e del compimento nel futuro. Dice infatti la Gaudium et Spes che oggi è cambiata la
cultura e il modo di pensare, in modo tale che di fronte alle profonde
mutazioni in corso, il “genere umano passa da una concezione piuttosto statica
dell’ordine delle cose, a una concezione più dinamica ed evolutiva. Ciò
favorisce il sorgere di un formidabile complesso di nuovi problemi, che stimola
ad analisi e a sintesi nuove” (Gaudium et
Spes n. 5).
Così anche il
paradiso non appare più come un ritorno lì da dove fummo cacciati, ma un andare
dove mai fummo.
La salvezza è per oggi
2) Il secondo
suggerimento che viene da questo testo è che esso dice: oggi. Il paradiso, la salvezza, è per l’oggi, non bisogna aspettare
la fine dei tempi, non bisogna aspettare chissà quali scuotimenti perché il
paradiso possa venire. In questo senso è un testo antiapocalittico. Gesù
annuncia il Vangelo, non l’apocalisse, annuncia la grazia, non la vendetta di
Dio, come ha mostrato nella sinagoga di Nazareth: oggi – egli disse infatti –
questa profezia si è compiuta davanti a voi.
L’apocalisse
è la teologia della catastrofe. Essa sostiene che la salvezza del mondo nuovo,
il paradiso, non può giungere se non dopo che questo mondo sarà stato
distrutto.
L’ideologia
apocalittica è basata sull’idea disperata che il mondo è sbagliato e cattivo,
ma è anche persuasa che esso sarà totalmente risanato e sostituito da un mondo
migliore. Ma ciò avverrà attraverso una tragedia.
Se ne
trova la rappresentazione più plastica nel IV libro di Esdra, un’apocalisse
ebraica che appare nel I secolo all’inizio dell’era cristiana. Essa descrive il
mondo nei termini di una drastica antitesi: “L’Altissimo ha fatto non una sola
età, ma due”. Il primo mondo si è gravemente corrotto, “ciò che era buono se ne
andò, ciò che era cattivo rimase”; ma “quel male che era stato seminato, non è
ancora venuto il tempo di mieterlo. Se non sarà mietuto quello che è stato
seminato, e se non scomparirà il luogo dove è stato seminato il male, non verrà
il campo dove è stato seminato il bene”. Estirpare per piantare. Se il mondo
non scompare quello buono non verrà. Bisogna affrettarsi “a uscire da questi
tempi”, “il mondo ha perduto la sua giovinezza”, ci sarà un passaggio da un’età
all’altra, ma sarà tutt’altro che indolore, perché “l’Altissimo ha fatto questa
età per molti, quella futura per pochi”. A Dio fa dire infatti il veggente: “mi
rallegrerò dei pochi che si salveranno, per i quali il mio Nome è onorato, e
non mi rattristerò per i tanti che periranno, perché sono quelli che già ora
sono simili a vapore, e fatti uguali a fiamma o a fumo: sono bruciati, arsi,
estinti”; invece si salverà “l’acino” che Dio si era riservato, “il germoglio” e la pianta che aveva “portato a
termine con tanta fatica”, e cioè Israele.
Dunque il
paradiso ci sarà, ma per pochi, e non per oggi ma per un lontano domani.
Contro le teologie apocalittiche
Questa
concezione ha avuto una profonda influenza sul messianismo ebraico, che si è
imbevuto di questa idea della catastrofe tanto da far dire ad alcuni sapienti
di Israele: “il Messia deve venire, ma io non lo voglio vedere”.
Oggi vi
sono delle correnti sioniste religiose che interpretano la fondazione dello
Stato di Israele come “l’inizio della redenzione”, ma prima che lo Stato di
Israele venisse istituito, fino all’inizio dell’impresa sionista, la posizione
più diffusa tra i rabbini è sempre stata che non si dovesse “forzare la fine”,
che si dovessero aspettare i tempi lunghi di Dio, che Israele non dovesse
essere ristabilito per mano d’uomo; secondo questa visione l’era messianica
irromperà dall’esterno, in assoluta discontinuità con la storia presente.
Questo in effetti fu il modo in cui dal popolo ebreo fu vissuta la diaspora.
C’è un grande storico del messianismo ebraico, Gershom Scholem, secondo il
quale questo messianismo ha avuto una grave ricaduta sulla vita ebraica, ha
avuto un prezzo; e “il prezzo del messianismo”, per Scholem, è stato per gli
ebrei “una vita vissuta nel differimento”. Tutto, anche il riscatto politico, è
rimandato al futuro.
Ora la
parola di Gesù – “oggi sarai con me in paradiso” – grida sia contro le teologie
apocalittiche della catastrofe, sia contro i messianismi del rinvio.
Il
paradiso è per oggi: il regno di Dio è qui, in mezzo a voi, dice Gesù, non
andate a prenderlo al di là del cielo, o al di là del mare, o al di là della
morte, esso è vicino.
E anche
questo evangelo della prossimità ha una ricaduta sulle dottrine politiche. Non
si può rinviare a domani il fare giustizia. Non ci si può rassegnare alla
miseria presente in attesa della beata società futura. C’è stata una
discussione sulla Costituzione repubblicana, se essa, nelle esigenze che pone e
nei diritti che stabilisce, fosse precettiva o programmatica, se cioè
stabilisse diritti immediatamente esigibili o semplicemente promessi. Gli
avversari della Costituzione sono naturalmente per un’interpretazione
visionaria di essa, sono per il rinvio, per il differimento: la Repubblica
fondata sul lavoro? Sarebbe una bella cosa, ma intanto la fondiamo sul
profitto. Il diritto allo studio? E’ un buon programma, ma se ne parlerà
un’altra volta. Il ripudio della guerra? Sì, ma intanto facciamo le guerre
umanitarie. Il paradiso può attendere. Ma non è così. In realtà la Costituzione
è la norma precettiva per l’oggi: dice che oggi, e non domani, la Repubblica
deve rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che di fatto – cioè oggi – limitano la
libertà e l’uguaglianza e impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
perciò, per dirlo con la Dichiarazione di indipendenza americana, la ricerca
della felicità dei cittadini.
La
Costituzione dice che la società dei diritti e delle libertà fondamentali,
delle garanzie e della giustizia, deve realizzarsi già oggi, senza bisogno di
rivoluzione; se poi la rivoluzione sarà necessaria, perché i poteri sono
iniqui, l’eguaglianza è negata e la politica è sconfitta, ebbene sarà una
rivoluzione e non un’apocalisse.
Per creare
un mondo più pacifico e giusto, dove il paradiso cominci, non c’è bisogno né
della guerra perpetua, né di bombardare la Siria, né della catastrofe
economica, né di ogni altra apocalypse
now.
La meta è sempre al
di là
3) Il
terzo suggerimento che si può trarre da questo testo viene dal fatto che se
anche il paradiso è per oggi, il verbo – “sarai” in paradiso – è comunque
coniugato al futuro. Il paradiso è per oggi, ma non è già posseduto, è sempre
da raggiungere. Esso è imminente, è vicino, ma resta sempre futuro. Questo vuol
dire che non si esaurisce in un possesso già acquisito, non è un bottino da
conservare, ma è sempre una sponda da raggiungere, una terra in cui sbarcare.
Il tempo si è fatto breve, dice San Paolo in un testo messianico, ma di un
altro messianismo, della I lettera ai Corinzi. Che sia breve il tempo che ci
separa dal paradiso non vuol dire che il paradiso è arrivato, ma, letteralmente,
che “il vento ha caricato le vele”, o
kairós sunestalménos estΐn, dice il testo greco, siamo noi che corriamo più
in fretta.
Questo
vuol dire che il paradiso di cui noi possiamo fare esperienza sulla terra non è
la meta definitiva, ma resta aperta una riserva escatologica. La meta ultima è
sempre al di dà di quella che abbiamo raggiunto.
Stare nel
mondo, battersi per l’oggi del mondo, non licenziare prematuramente il mondo,
come diceva Bonhoeffer, non significa rinchiudersi nel suo limite, accettarlo
così com’è, non investirlo di un’eccedenza che lo metta in questione, non
guardare oltre, non immaginare un altrove.
Nel
momento stesso in cui cerchiamo di realizzare quel tanto di paradiso in terra
che è possibile oggi – quel tanto di socialismo, quel tanto di cristianesimo,
quel tanto di democrazia, quel tanto di Costituzione – resta la riserva
escatologica, restano le “cose ultime” pensate come salvezza, come eternità,
come redenzione. Se il prezzo di una fedeltà al mondo, di una critica alle
dottrine della catastrofe e del rinvio, fosse la perdita dell’escatologia, il
cristianesimo sarebbe ferito a morte, e anzi finito. Esso si ridurrebbe alla
cristianità realizzata, che Kierkegaard negava addirittura che fosse
cristianesimo; verrebbe meno il regime di alterità dell’annuncio evangelico,
resterebbe un cristianesimo
“conveniente al mondo”, e nemmeno la Chiesa sarebbe riformabile.
Ma non
solo il cristianesimo sarebbe colpito da questa perdita: in tutte le culture si
ritrova infatti, come una costante antropologica, il pensare a un futuro in cui
la storia sarà riscattata, la sofferenza sarà risarcita, la giustizia sarà
trovata. “C’è una giustizia, ed io la troverò”, grida uscendo sulla strada la
povera vedova Katerina Ivanòvna in “Delitto e castigo” di Dostoewski.
Appartengono all’esperienza umana comune il bisogno di non rassegnarsi alla
situazione data, e anche il grido contro di essa, e l’aspettativa di averne
ragione. C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non trovi né
consolazione né fine.
L’escatologia
mette in questione l’ordine esistente. Perciò i poteri non vogliono
escatologie, filosofie della storia, ideologie, vangeli e profezia, perché non
vogliono che sia messo in discussione il regno del presente che è il loro
regno. L’escatologia è la non definitività e anzi la critica del regno presente
in quanto resti immodificato, cioè è la rivoluzione.
Il
cristianesimo che perda l’escatologia perde la sua anima, ma il mondo perde la
rivoluzione.
Questi
sono dunque i tre suggerimenti che vengono da questo testo: il paradiso non sta
dietro ma sta davanti a noi; è per oggi, senza apocalissi, ma è anche sempre
nel nostro futuro.
Un’esperienza del
paradiso
4) Ma la
notizia più importante avuta dal ladrone e ricevuta oggi anche da noi, è che in
paradiso ci saremo non da soli, ma con Gesù. Dunque dove c’è il paradiso c’è
Gesù, e dov’è Gesù lì è il paradiso.
Questo
vuol dire che fin da ora noi possiamo fare esperienza del paradiso, e che fare
esperienza del paradiso, che se ne possa essere consapevoli o no, vuol dire
essere con Gesù.
Allora
parliamo di qualcuna di queste esperienze di paradiso.
La prima è
quella della veglia in Piazza San Pietro del sabato 7 settembre.
Confesso
che ero andato in San Pietro con l’idea che avrei trovato la solita piazza
piena di gente vociante, con striscioni e bandiere, e poi a un certo punto
dalla solita finestra dell’Angelus ci sarebbe stato il discorso del papa. La
forma infatti era quella di una veglia di preghiera, ma la sostanza era quella
di una manifestazione politica di massa per convincere gli Stati Uniti a non
bombardare la Siria. Anche il digiuno, proclamato dal papa, era inteso come una
forma di lotta politica, infatti subito Pannella aveva detto che quanto a
digiuni lui e i radicali ne avevano fatti ben prima del papa.
Ma quando
sono arrivato in Piazza San Pietro ho trovato la finestra della terza loggia
chiusa e ho sentito il papa che non faceva un discorso, non faceva un’omelia,
ma quasi sussurrando meditava sul Vangelo. Né riuscivo a capire dove stesse il
papa: si vedeva riprodotto sugli schermi ma non si capiva dov’era; poi l’ho
visto, come un puntino bianco, solo, in piedi, davanti a un altare montato in
cima alla scalinata della Basilica. Sul lato dell’altare c’era un immagine
della Madonna; era un’icona, l’icona di Maria
Salus populi romani, che è una Madonna Odigitria che da secoli sta nella
basilica di Santa Maria Maggiore. Dunque non si trattava di aver messo su un
altare all’aperto anche un quadro della Madonna quali sempre si trovano nelle
chiese per la devozione mariana, si trattava dell’ostensione di un’icona che
nella tradizione della grande Chiesa, soprattutto d’Oriente, significa rendere
presente il divino, che nel caso della Madonna Odigitria è Gesù mostrato dalla
madre.
Più tardi
sarebbe stata esposta anche l’eucarestia; ma oltre al papa, all’icona e
all’eucarestia, c’era un altro protagonista che riempiva tutta la scena: ed era
il popolo, la piazza ricolma di 100.000 persone, e ciò che era più
impressionante era che tutti, popolo, papa, icona e sacramento erano accumunati
da un altissimo, profondissimo silenzio. Certo ci sono state le letture, i
canti, l’omelia, ma solo per brevi tratti, perché a dominare tutta la serata è
stato il silenzio.
Il
silenzio è stato l’aspetto più trascurato della riforma liturgica conciliare.
Per l’esigenza di far capire i significati dei riti, le celebrazioni liturgiche
sono state riempite di preghiere, di letture, di canti, di parole, come se
nella preghiera pubblica della Chiesa si dovesse aver paura del silenzio. Il
papa, il 7 settembre, ci ha restituito il silenzio. Già lo aveva fatto la sera
della sua elezione, quando prima di benedire, aveva chiesto per sé una
preghiera, un silenzio, una tacita investitura. Ma ora era come se a tutta la
Chiesa, e anche al mondo che guardava in televisione, avesse restituito come
dono prezioso il silenzio, e con il silenzio la preghiera, la contemplazione.
Nella società delle colonne sonore, dei decibel, delle chiacchiere, dei talk
show, ecco che tornava a farsi silenzio. E la cosa impressionante era che, tra
quelle 100.000 persone, nessuna era disturbata dal silenzio e nessuna turbava
il silenzio; ma tutti pensavano, pregavano, in piedi, inginocchiati, seduti e
tutti non da soli ma in questo grande coinvolgimento, in questa grande
comunione del silenzio che univa papa, popolo, icona e sacramento. Quel
silenzio accumunava anche il mondo di fuori e le coscienze di dentro, univa
cielo e terra, presente e futuro.
Allora
vorrei dire che in quella veglia per la pace, in quel silenzio che aveva lo
scopo di impedire una guerra, quella sera io ho fatto un’esperienza di
paradiso.
Mi sono ricordato
di qualcuno che un'altra volta aveva detto di aver fatto in San Pietro
un’esperienza di paradiso: era stato il padre Duprey, del Segretariato per
l’unità dei cristiani, che il giorno in cui il Concilio aveva rimosso le
scomuniche tra Roma e Costantinopoli, tra Chiesa d’Oriente e Chiesa
d’Occidente, aveva detto che gli era sembrato di essere in paradiso.
La veglia
del 1 settembre è una delle più alte azioni pastorali compiute da papa
Francesco, insieme alle omelie in Santa Marta, al viaggio a Lampedusa e al
viaggio in Brasile, e tutte queste cose insieme ci permettono di ricondurre ad
unità la varietà delle proposte e delle linee programmatiche di questo
pontificato. Questa unità consiste nel fatto che tutto il suo scopo, il suo
svolgimento e la sua norma è quello di portare gli uomini e le donne del nostro
tempo, e non solo i fedeli, a fare l’esperienza del paradiso.
Non il
proselitismo, non l’apologetica, non la promozione della Chiesa, non la
restaurazione della dottrina, non il potere temporale e politico, non la difesa
del Logos greco, non la vittoria nella disputa tra fede e ragione, ma il
paradiso è lo scopo di questo pontificato: che gli uomini e le donne incontrino
Gesù, e se non lo incontrano che seguano il dettato della loro coscienza facendo
ciò che da essa è percepito come bene, che si amino gli uni gli altri, che
accolgano il povero e lo straniero e che si faccia la pace, e così avranno il
paradiso. Cioè avranno in questa vita e in quell’altra l’instancabile perdono e
la misericordia di Dio: questo è il target, l’obiettivo; e la lunga intervista
alla Civiltà Cattolica ne dice
insieme la “certezza dogmatica” e il percorso.
La riforma del
papato
Dunque il
programma è semplicemente il Vangelo. Ma dare a un pontificato questo e non
altri programmi implica una cosa straordinaria, che è la riforma del papato.
Perché non sempre è stato così. E questo vuol dire anche riprendere in mano il
Concilio Vaticano II, perché dove il Concilio è caduto è stato proprio nella
mancata riforma del papato. Riprendere in mano il Concilio, a cinquant’anni
dalla sua celebrazione, vuol dire reinterpretarlo finalmente non come un
Concilio senza teologia perché pastorale, ma come un Concilio sulla fede “che
la nostra età esige”, e farlo ripartire da lì dove il Concilio aveva fallito.
Il
Concilio infatti aveva fatto teologia avviando una nuova narrazione della fede
che nella forma e nei contenuti rispondesse a ciò che i nostri tempi richiedono
(“quam tempora postulant nostra”),
aveva promosso una riforma della Chiesa, ma si era bloccato e si era arenato
quando aveva fatto l’inchino al papato e ne aveva mancato la riforma. Ne aveva bensì avvertito la necessità,
ne aveva posto le premesse, ma non l’aveva compiuta. Né avrebbe potuto farlo.
Il papato aveva resistito, e in questi 50 anni dopo il Concilio abbiamo fatto
l’esperienza che il papato non si può riformare se il papato stesso non riforma
se stesso, e d’altra parte abbiamo capito
che senza riforma del papato, nella Chiesa romana, non si dà riforma
della Chiesa. Questa è stata la crisi della Chiesa postconciliare fino alla
drammatica rinuncia di Benedetto XVI. Quella rinuncia è stata però il primo
potente atto di una riforma del papato ed ora Bergoglio assume la riforma del
ministero petrino come vocazione e missione specifica del suo pontificato.
Questa riforma non si realizza tanto nei cambiamenti della curia o dello IOR,
ma nel cambiamento della figura del papa come vescovo di Roma, e in quest’unico
programma che è quello enunciato da Giovanni XXIII sul letto di morte: il papa
legge il Vangelo e coi vescovi lo commenta.
Ci sarà un Francesco
II?
Questo
proporre il Vangelo e solo il Vangelo è così stupefacente e considerato così eccezionale
dai nostri contemporanei, che Eugenio Scalfari si spinge a dire che non ci sarà
un Francesco secondo. Scalfari si è molto stupito quando il papa gli ha detto
che la verità non è assoluta, non è slegata da tutto, ma è una relazione con
l’amore di Dio, quando gli ha detto che per chi non ha fede, e neanche la
cerca, la questione sta nell’obbedire alla propria coscienza, quando gli ha
detto che non c’è contrasto tra i lumi dell’illuminismo e il Lumen gentium della fede cristiana,
quando gli ha detto che Dio è tutto in tutti e si è unito a tutti gli uomini
come figli: “ma questa è immanenza, non è trascendenza!” ha esclamato Scalfari
con grande meraviglia. No, questo è il cristianesimo, questa è la Trinità,
questa è l’incarnazione, questo è il Vangelo, questo è san Paolo. Però Scalfari
non lo sapeva, nonostante che abbia detto alla Gruber che da piccolo aveva
vinto un concorso così da essere nominato “imperatore del catechismo”; e allora
bisogna chiedersi che cosa ha fatto capire di sé, ai fedeli di allora, la
Chiesa prima del Concilio, bisogna chiedersi quale fede fosse veicolata
attraverso le formule del catechismo, bisogna chiedersi quale Vangelo fosse
annunciato nel latino dell’ordinario romano o negli enciclopedici discorsi di
Pio XII. Bisogna chiedersi che Chiesa era, e che papi erano quelli di cui
Eugenio Scalfari insieme ad Italo Calvino, uomini pur capaci di comprendere le
cose, non capirono il messaggio e da cui presero le distanze in giovane età.
E allora
si capisce la meraviglia di Scalfari e perché dice che mai ci potrà essere un
Francesco secondo. Ma per fortuna il giornale “La Repubblica”, se detta
l’agenda a Napolitano e al governo, non può dettare l’agenda di Dio.
Io credo
invece che se con papa Francesco la riforma della Chiesa avviata col Concilio
si completerà con la riforma del papato e se l’una e l’altro, come dice il papa
alla fine della sua lettera alla “Repubblica”, nonostante tutte le lentezze le
infedeltà gli errori e i peccati non avranno “altro senso e fine se non quello
di testimoniare Gesù”, allora potranno esserci altri Francesco, e potrà davvero
esserci una Chiesa nuova.
C’è
un’ultima cosa da dire. Se la veglia del 7 settembre è stata un’esperienza del
paradiso, questa esperienza è stata fatta non solo dai credenti cristiani ma
anche da credenti di altre religioni o di nessuna religione,
Paradiso e libertà
Dunque si
può fare esperienza del paradiso anche senza avere la fede, e anche senza fede
Gesù è là e il Dio di Gesù Cristo entra in relazione con gli uomini. Ma se
resta ignoto, in che forme Dio è presente in questo paradiso? Il canto dice: ubi caritas et amor, Deus ibi est. Dove
c’è l’amore, lì c’è Dio, e dunque c’è anche il paradiso. Il paradiso come luogo
dell’amore: e questo è certamente vero. Ma non c’è solo l’amore. C’è anche
un’altra risposta. Qui c’è un’illuminante disputa tra due rabbini, Akiva, martire
dei romani, e il suo amico Ben Azzai, vissuti circa un secolo dopo Cristo. Il
Talmud narra che essi discussero su quale fosse il principio fondamentale della
Torah grazie al quale si regge ed esiste tutto il giudaismo. Per Rabbi Akiva la
risposta stava nel Levitico, era il precetto di amare il prossimo come se
stessi. Per il rabbino Ben Azzai, invece, c’era un principio ancora più grande,
e stava nel racconto della Genesi, per il quale tutti gli esseri umani sono creati ad immagine di
Dio. Secondo lui l’amore era un piedistallo troppo instabile per fondarci sopra
tutta la Torah: alcuni li ami di più, altri di meno; però tutti devono essere
trattati come immagini di Dio.
Ebbene, in
che consiste l’immagine di Dio che è impressa in tutti gli uomini e le donne
senza eccezione?
Qualcuno
dice che è la ragione. Ma c’è tutta una tradizione cristiana, a partire da san
Bernardo, e forse da san Paolo, secondo cui l’immagine di Dio nell’uomo è la
libertà. Anche Cartesio, quello dei lumi, diceva che nella sua libera volontà
ritrovava l’immagine e la rassomiglianza di Dio in lui.
In questo
caso, il luogo peculiare del paradiso è la libertà. Per questo io ho intitolato
un mio ultimo libro “Paradiso e libertà”, e nella controcopertina c’è scritto
che il paradiso è il luogo dove gli uomini vengono a libertà, in questa vita ed
in quell’altra. E per questo, dovunque c’è una liberazione dei prigionieri, dei
profughi, degli operai, delle donne, dei poveri, c’è un paradiso che si
avvicina.
Raniero La Valle
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