di Raniero La Valle
“Aggiornamento” della Chiesa e riforma del
papato
Assisi, 23
agosto 2013
Cari Amici,
dunque c’è
una rivoluzione interrotta da riprendere. Non un sogno, perché un sogno
interrotto è un incubo: si tratta di una rivoluzione. E se questo è il tema che
dobbiamo sviluppare, vuol dire che questo deve essere un discorso
programmatico. Come svegliare oggi questa rivoluzione? E dico oggi, “nun” come dice il greco di San
Paolo, perché di tempo ne abbiamo
poco, “nun”, ora, il tempo si è fatto breve[1].
Però qualcuno
di voi potrebbe dire: che bisogno c’è oggi di darsi da fare per riprendere la
rivoluzione del Concilio, dopo che per cinquant’anni non siamo riusciti a
farla, e anzi il Concilio è stato imbalsamato e sepolto nei sarcofagi, magari
anche sfarzosi, della Chiesa? Che bisogno c’è di correre oggi dietro alla
rivoluzione del Concilio, quando ormai è esplosa un’altra rivoluzione, quella
di papa Francesco, che addirittura mette sotto inchiesta lo IOR, apre ai
divorziati risposati, si rifiuta di giudicare i gay, e dice che se la donna non
potrà diventare prete perché ormai Giovanni Paolo II ha chiuso d’autorità la
questione, tuttavia senza le donne le Chiese diventano sterili, e in ogni caso
Maria era più importante degli apostoli e dei vescovi?
Se
ragionassimo così, il Concilio ce lo potremmo anche scordare. Non guardate le
cose antiche, ecco che io faccio una cosa nuova, sembra ancora una volta dire
il Signore[2]. Del
resto il Concilio già era sulla via dell’archiviazione. Esso sembrava ormai caduto
dal cuore della Chiesa, ed era caduto non solo dal cuore della Chiesa che lo
aveva avversato e combattuto fino a fare uno scisma per ottenerne la revoca,
come avevano fatto i lefebvriani, ma anche era caduto dal cuore della Chiesa cosiddetta
conciliare. Anche la Chiesa conciliare dava infatti il Concilio Vaticano II
come esaurito, al punto da invocare un Concilio Vaticano III. Basta ricordare
la lucida disperazione del cardinale Martini.
Il papa poi
che c’era prima di Bergoglio era così poco convinto del Concilio, che per
celebrarlo 50 anni dopo dal suo inizio non trovò di meglio che unire i due
anniversari, i 50 anni dal Concilio e i vent’anni dalla pubblicazione del
catechismo della Chiesa cattolica, ciò che voleva dire mettere la catechesi del
Concilio nella scansia dei catechismi papali e rovesciare l’autorità delle
fonti facendo del catechismo il vaglio del Concilio, invece di fare del
Concilio lo scrigno da cui far scaturire il catechismo, come peraltro è
avvenuto almeno per il catechismo della Chiesa italiana.
Tuttavia c’è
un altro modo di vedere le cose. Il Concilio Vaticano II non finisce nel
catechismo del Sant’Uffizio, come avrebbe voluto il cardinale Levada; ma
neppure la rivoluzione del Concilio è superata e resa obsoleta dalla rivoluzione di papa Francesco. Le due
cose al contrario vanno insieme. Quella del Concilio può oggi riprendere,
perché la rinunzia di Ratzinger al pontificato ha tolto le ganasce con cui esso
era stato immobilizzato e messo fuori uso, e l’avvento di Bergoglio gli ridà
vita; cosicché in effetti oggi abbiamo due rivoluzioni invece di una. E anzi
credo che possiamo dire che l’evento del Concilio e l’avvento di papa Francesco
non siano due avvenimenti che si succedono occasionalmente a distanza di mezzo
secolo l’uno dall’altro, ma siano due momenti di uno stesso evento complesso
che è la costruzione della Chiesa del III millennio; e forse potremmo dire,
dato che siamo qui ad Assisi vicino a San Damiano, che sono due momenti della
“ricostruzione” della Chiesa per il III millennio.
Perciò
dovremmo chiederci come mai è arrivato papa Francesco, nel momento di massimo
trauma della Chiesa, quando la fiducia nei suoi confronti era arrivata i minimi
storici. Certo, c’è la provvidenza. Però io credo che l’elezione di Francesco
non sia stata solo un’opera dello Spirito Santo, secondo una concezione magica
del Conclave, ma sia stata un evento umano ecclesiale che la Chiesa stessa si è
preparata e si è propiziata attraverso la lunga sofferenza e la lunga
resistenza di questi cinquant’anni; credo che il pontificato di papa Bergoglio
non sia solo un dono che abbiamo ricevuto per grazia, ma sia anche una
conquista che ci siamo guadagnata per merito.
Sarà vera rivoluzione?
Ma qui interviene la domanda: Quella di papa Francesco
sarà vera rivoluzione? La sua teologia è molto cauta e la sua devozione assai
tradizionale. Né la rivoluzione di Francesco sta nel fatto che bacia i bambini,
lascia vuota la sedia del concerto di corte e viaggia con una borsa in cui c’è
un libro il breviario e il rasoio. Questa non è vera rivoluzione. La
rivoluzione, se rivoluzione ci sarà, starà nel fatto che l’azione di Francesco
annunci e realizzi la riforma del papato, perché nella riforma del papato, se
questa avverrà, si compirà la rivoluzione della Chiesa avviata dal Concilio. Concilio
e papato, questo diventa perciò il nostro tema.
L’anello debole del Concilio
Quale è stato
infatti il punto di caduta, l’anello debole della catena che non ha permesso
alla rivoluzione della Chiesa intrapresa dal Concilio di andare a buon fine?
L’anello
debole è stato che è venuta a mancare la riforma del papato. La rivoluzione
della Chiesa comportava che ci fosse la riforma del papato, ma questa riforma
non c’è stata e anzi c’è stata una restaurazione; il Concilio, che non voleva
passare per conciliarista, né voleva in alcun modo intaccare il primato
petrino, non ha osato andare avanti nella costruzione della collegialità
episcopale e nell’avvio di forme concrete di partecipazione dei vescovi,
insieme col papa, all’esercizio del potere sulla Chiesa universale; su questo
punto il Concilio è stato intercettato dalla Curia e dal papa, e si è fermato.
Eppure in
molte altre cose il Concilio aveva potuto andare avanti ed esercitare la sua
libertà, anche sul piano propriamente dottrinale; esso si era riscritto da sé
gli schemi dei documenti conciliari, rifiutando quelli della Curia, aveva
riletto la storia della salvezza negando la maledizione divina contro l’uomo
dopo il peccato originale, aveva ristabilito la destinazione universale alla
salvezza di tutti gli uomini avanti e dopo Cristo indipendentemente
dall’appartenenza alla Chiesa visibile, lasciando cadere l’ “extra Ecclesiam nulla salus”, aveva
esaltato la tanto deprecata libertà
religiosa e aveva contraddetto il magistero pontificio dell’800 sulla libertà
politica, sullo statuto della scienza e sullo Stato moderno; ma sul papato il
Concilio si era bloccato; anzi la restaurazione romana era cominciata già subito, durante il
Concilio, con la “Nota explicativa praevia”
che Paolo VI d’autorità aveva voluto che fosse aggiunta al capitolo III della
Costituzione sulla Chiesa, a valere come sua interpretazione vincolante e
autentica; poi c’era stata l’avocazione al papa da solo di temi come la
contraccezione, il celibato dei preti, l’ordinazione delle donne; c’era stata
la riduzione del Sinodo dei vescovi a organo puramente cerimoniale e
consultivo, e poi c’era stato il grande ritorno del trionfalismo papale, del
papa universale, del “papa santo subito” con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.
Ma la mancata
riforma del papato non è stata solo una lacuna del Concilio; essa ha bloccato
tutto il processo di aggiornamento della Chiesa del post-Concilio, ne ha
frenato e svigorito la novità, ha tenuto aperta per decenni la questione
lefebvriana, ha reintrodotto il rito latino nella Messa, rompendo l’unità vitale
tra lex orandi e lex credendi.
La mancata
riforma del papato ha messo oggettivamente i papi postconciliari in rotta di
collisione col Concilio, indipendentemente dalla loro personale lealtà verso di
esso; e anche quando i papi hanno voluto in buona fede attuare il Concilio, ne
hanno gestito l’eredità con circospezione e disagio.
Paolo VI pensò addirittura che
il diavolo ci si fosse messo di mezzo. Disse il 29 giugno 1972 nel giorno solennissimo di San Pietro, che mentre si era creduto che dopo il
Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa, era
“venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di
incertezza”.
Come era avvenuto? La sua idea
era che ci fosse stato l’intervento di un potere avverso, preternaturale, il
diavolo, “venuto nel mondo proprio per
turbare, per soffocare i frutti del Concilio”. Invece di irrompere la grazia, a
seguito del Concilio, la sensazione del Papa era che “da qualche fessura fosse
entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”.
Questo disagio per il Concilio
è poi continuato nella Chiesa.
L'esempio più eclatante è
quello di Benedetto XVI che fin dal suo discorso alla Curia del 22 dicembre
2005, poco tempo dopo essere stato eletto, paragonò gli effetti prodotti dal
Concilio a quelli di una battaglia
navale combattuta nel buio, di notte, senza esclusione di colpi.
Poi ripeté questa cosa più
estesamente parlando nel 2007, durante una vacanza in Cadore, con il clero
delle diocesi di Belluno e Treviso. Pur esaltando la grande eredità del
Concilio, Benedetto XVI stigmatizzò tutta la fase postconciliare facendo
appello a San Basilio, che aveva paragonato la situazione della Chiesa dopo il
Concilio di Nicea “ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce
l’altro, dove tutti sono contro tutti”. L’idea era che anche dopo un grande
Concilio, come era stato quello di Nicea, non c’era stata una situazione di
riconciliazione e di unità, ma una situazione realmente caotica di lite di
tutti contro tutti. E perciò non c’era
da meravigliarsi che così fosse stato anche dopo il Concilio Vaticano II; ma se
il paragone funziona, allora si capisce perché papa Benedetto abbia aggiunto subito dopo che il Concilio dovesse essere
assimilato nella sofferenza, e il termine usato per questa operazione fosse
quello che si dovesse "digerire" il Concilio.
Digerire il Concilio non significa amarlo. Significa
assumerlo, non significa amarlo. Il Concilio non è stato amato e perciò non è
stato nemmeno digerito, è rimasto sullo stomaco della Chiesa. E infatti a
livello di Chiesa istituzionale la ricezione del Concilio è stata una ricezione
senza amore. E questo è stato il problema. Perché come il Concilio era
stato un grande atto di amore di Dio, della Chiesa, di papa Giovanni, dei padri
conciliari, così una ricezione del Concilio senza amore non è possibile.
In effetti una
ricezione senza amore tende a ripristinare, con un rivestimento diverso, lo
stato di cose passato, come se il Concilio non ci fosse stato.
Così è
avvenuto con la liturgia, con l’ecumenismo, con le religioni non cristiane, col
tentativo fallito di mettere la Chiesa nella camicia di forza di una Lex Ecclesiae fundamentalis, con il
catechismo e, almeno in Italia, con la
politica, dove, venuto meno il partito cattolico, si è giunti a rivendicare una
sorta di potestas directa in temporalibus,
insofferente di “cattolici adulti”.
Tutto ciò non
è stato senza conseguenze. La ricezione contrastata del Concilio e alla fine la
non riuscita restaurazione ratzingeriana hanno reso la Chiea e la Curia romana non più governabili; ed è per questo che si è
giunti alla drammatica rinuncia di Benedetto XVI, che è venuta così a porsi,
dopo il Concilio, come il primo atto potente di una riforma del papato.
È grazie a
questo atto di libertà e di coraggio di Benedetto XVI che oggi tutto può
ricominciare. Perché c’è una lezione che si può trarre da tutta questa vicenda.
E la lezione è questa: che non si dà riforma della Chiesa senza riforma del
papato, ma nello stesso tempo non si dà riforma del papato se non è il papato
stesso, insieme con tutta la Chiesa, a riformare il papato.
La Chiesa
infatti, da sola non ce la fa.
Storicamente la Chiesa, se non è il papa stesso a farlo, non riesce a riformare
il papato. Il Vaticano II non ci è riuscito. È vero che c’è stato un inizio,
perché il Concilio sulla questione della libertà religiosa e dei rapporti con
la modernità ha rovesciato il magistero pontificio dell’800: ma questo il
Concilio non l’avrebbe fatto, se non fosse stato il papa stesso, Giovanni
XXIII, a revocare consapevolmente quel magistero papale scrivendo un’enciclica,
la “Pacem in Terris”, che si poneva
all’opposto della “Mirari vos” di Gregorio XVI, della “Quanta cura” e del Sillabo di Pio IX e, sul punto della parità
femminile, diceva il contrario del discorso di Pio XII alle ostetriche.
Però riguardo
alla riforma del papato, il Concilio non è riuscito ad andare oltre
l’affermazione di principio della collegialità; certo non era una cosa da poco
e non era affatto scontata; ma poi nulla è cambiato per 50 anni, e quel
principio è andato smarrito.
A questo
punto però dobbiamo farci un’altra domanda. Perché la riforma del papato è
necessaria per la riforma della Chiesa?
Perché la riforma del papato è necessaria
per la Chiesa
È necessaria
perché la Chiesa cattolica non sarebbe quale è oggi, se così non fosse stata
plasmata e forgiata dal papato lungo tutto il secondo millennio cristiano. Non
può esserci oggi una rivoluzione del Concilio, non può esserci una rivoluzione
della Chiesa, se non si fanno i conti con un’altra rivoluzione che ha investito
la Chiesa d’Occidente nell’XI secolo. Si tratta di quella che gli storici hanno
chiamato la “rivoluzione papale”, la prima delle grandi rivoluzioni della
modernità, cioè la riforma di Gregorio VII[3]. Essa
aveva prodotto una Chiesa molto diversa da quella passata.
La riforma
gregoriana del primo secolo dopo l’anno Mille aveva concepito un sistema per il
quale il mondo interamente si risolvesse nella Chiesa, e la Chiesa interamente
si risolvesse nel papa, e l’inedito divino fosse assorbito e dissolto nella
potenza visibile della Chiesa e del papa, e la cattura del cielo fosse
realizzata dall’egemonia del sacro sulla terra. La Chiesa veniva identificata
come il supremo regno terreno, contrapposta al “secolo” che in tal modo veniva
a costituirsi come tutto ciò che non è Chiesa e ad essa si sottrae, e il papato
veniva costruito come un potere superiore ad ogni altro potere, cioè come
potere sovrano ed unico sovrano..
Su questa
linea si poneva il “Dictatus papae”
di Gregorio VII del 1075, che nelle sue 27 proposizioni stabiliva la
superiorità del sacerdotium, faceva
del romano pontefice il solo episcopus
universalis, il solo che potesse rivestirsi delle insegne imperiali e del
quale i principi dovessero baciare i piedi, il solo che potesse deporre
imperatori e vescovi, il solo a essere santo d’ufficio per la partecipazione ai
meriti di san Pietro. Sarà poi Innocenzo III, la figura dialettica di San Francesco,
che farà del peccato la grande risorsa che dava il diritto al papa di
esercitare il potere anche temporale sui principi terreni, appunto “ratione peccati”, e che tenterà, nel IV
Concilio lateranense del 1215 di stabilire un generale controllo delle
coscienze con l’obbligo della confessione almeno una volta all’anno al
sacerdote proprio di ciascuno, inteso come suo giudice naturale; per giungere
poi alla Bolla “Unam Sanctam” del
1302 di Bonifacio VIII, nella quale si diceva che la Chiesa non è un mostro con
due teste, cioè Cristo e Pietro; a tutti gli effetti c’è Pietro vicario di
Cristo e i suoi successori; e a
quest’unico capo sono state date in affidamento non alcune, ma tutte le pecore;
e non ci sono due poteri, uno temporale e l’altro spirituale, ma un solo potere
con due spade, una spirituale, l’altra temporale, ambedue
in potestate Ecclesiae, di cui
la prima deve essere esercitata dal sacerdote,
l'altra dalle mani dei re e dei soldati, ma agli ordini e sotto il controllo
del sacerdote; e si stabiliva che per la salvezza è assolutamente necessaria la
sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Nel Vaticano
I si concludeva, con l’infallibilità, la messa in opera di questa gigantografia
del papato, ma nello stesso tempo la si arginava, e si ammetteva che, fatto
salvo il magistero infallibile, il resto era esposto al vento e anche agli
errori della storicità; perciò lo stesso magistero ordinario, per quanto
autorevole, risultava suscettibile di correzioni e di innovazioni: cioè anche il
papato si può riformare.
Papa Giovanni
aveva cominciato a farlo.
Può ora il
papa Francesco riprendere l’opera e avviare seriamente la riforma del papato?
Le prime risposte
Molte parole
e gesti di questi primi cinque mesi di pontificato sembrano andare in questa
direzione. E dico parole e gesti perché per papa Francesco gesto e parola sono
una cosa sola; il Vangelo non è solo annunciato, è reso visibile, lo si fa
toccare, come si faceva toccare Gesù, non meditando ma uscendo fuori della
porta per andare ad abbracciare il corpo del fratello piagato, come si è visto
nel gesto più eloquente di tutti, lo sbarco di Francesco nel porto dei clandestini
di Lampedusa.
Del resto
come dice la “Dei Verbum” del
Concilio la rivelazione di Dio si manifesta attraverso eventi
e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella
storia della salvezza, svelano le realtà significate dalle parole, mentre le
parole proclamano le opere e spiegano gli eventi..
Così fa papa
Bergoglio. Quali sono le parole e i
gesti di Bergoglio in cui si può rintracciare un preannuncio di una riforma del
papato?
Anzitutto,
naturalmente, c’è stata la scelta del nome. Quello di Francesco rsappresenta
nella storia della Chiesa un nome che si è contrapposto a quello di papa Innocenzo
III, richiamando a un modello alternativo
di Chiesa; e dunque è un nome che allude a una Chiesa che ricomincia non dal
potere, ma dal servizio, non dal sovraccarico dell’istituzione, ma dalla
leggerezza della profezia.
Poi c’è stata
la scelta di presentarsi come vescovo di Roma, senza la mozzetta rossa e le
altre insegne imperiali che i papi si erano portate dietro fin da Costantino;
c’è stato il chinarsi al bacio del piede dei detenuti, la sera del giovedì
santo, che riscattava l’antica pretesa del papa che a lui tutti i principi
baciassero i piedi; c’è stato il bacio del piede della giovane reclusa dai
lunghi capelli neri, che restituiva alla donna quel gesto di venerazione e di
affetto che la peccatrice aveva compiuto bagnando di lagrime i piedi di Gesù,
baciandoli e cospargendoli di olio profumato; con quel gesto il lontano
successore di Pietro pagava il debito d’amore del suo maestro, di nuovo toccava
il corpo di una donna finora sempre tenuto nascosto e temuto nella Chiesa.
C’è stato
poi, insistente, il mutamento d’accenti del papa nel parlare di Dio; un Dio
che, come non si stanca di ripetere, è solo “fascinans” e non “tremendum”,
un Dio che sempre perdona e anzi che solamente
perdona; un Dio che “giudica amandoci”, come ha detto nella via Crucis al Colosseo. Non un Dio che
giudica e ama, come subito hanno tradotto i volgarizzatori che non si accorgono
delle novità; perché questo, di dispensare insieme amore e giudizio, lo faceva
anche la Chiesa
dell’Inquisizione; si tratta invece di un Dio in cui non c’è giudizio, perché
l’amore è il giudizio: quello che il papa ha detto è che non c’è una
misericordia accanto al giudizio ma, come pensava Isacco di Ninive, la
misericordia stessa è il giudizio; e questa misericordia il papa l’ha imparata
dai libri dei teologi non meno che dalle parole delle umili donne di Buenos
Aires, come ha detto nel suo primo Angelus dalla finestra di una stanza che non
è più la sua.
Tutti questi
sono stati annunci di novità. Ma io qui vorrei soffermarmi su alcune enunciazioni
e scelte fatte dal papa a Roma, a Lampedusa e in Brasile, che più mi sembrano
contenere una promessa di cambiamenti istituzionali sia riguardo alla Chiesa
che al papato.
Scelte che annunciano novità
1 - La prima
scelta è quella di abitare a Santa Marta. Non è una questione di povertà, ché
anzi a Santa Marta si sta meglio che nel palazzo apostolico. Santa Marta non è
certo il sasso che usava per dormire San Francesco a La Verna. La questione è
di identità. Quando i due discepoli di Giovanni il Battista videro per la prima
volta Gesù gli chiesero: dove abiti? Gesù rispose loro: venite e vedrete. E
dopo essere andati e aver visto dove abitava capirono che era il Messia (erano
circa le quattro del pomeriggio, precisa l’evangelista Giovanni) e così cominciò
la storia di Andrea e suo fratello Pietro al seguito di Gesù. Dunque l’abitare
è rivelazione dell’identità. Essere l’inquilino del palazzo apostolico, come
essere l’inquilino del Quirinale, o l’inquilino della Casa Bianca, identifica
con il ruolo, la persona scompare. Non si dice più Ratzinger, Napolitano,
Obama, si dice la Santa Sede, il Colle, la Casa Bianca. Abitare in albergo, sia
pure entro le mura vaticane (di più oggi non si può fare) vuol dire invece
essere uno dei tanti, avere il numero di una stanza, mangiare in sala da
parnzo, e continuare a chiamarsi Francesco. Cioè non c’è l’istituzione che si
identifica col Palazzo, c’è un uomo, un prete, un vescovo che fa il papa e va
in ufficio al Palazzo. Sembra un particolare da poco, ma cambia la percezione
del papato.
E c’è
un’altra conseguenza decisiva: ogni mattina il papa dice la Messa non nella sua
cappella privata, ma nella cappella di Santa Marta, frequentata da ospiti e
persone diverse, e tiene l’omelia, cioè ogni mattina il papa legge e spiega il Vangelo;
e si è visto come le omelie di Santa Marta, di cui non esiste un testo
ufficiale, sono tra le cose più belle del ministero di papa Francesco; non sono
i discorsi pontifici, per leggere i quali bisogna pagare i diritti alla
Libreria Editrice Vaticana, ma è il papa che apre il Vangelo e col suo popolo
lo commenta, come faceva san Gregorio Magno con le sue “Omelie sui Vangeli” al
popolo romano.
La riforma della Curia
2 – La
seconda scelta di papa Francesco che potrà avere un enorme impatto sul futuro
modo di essere del papato, è naturalmente la scelta di riformare la Curia (con
l’aiuto degli otto cardinali convocati a questo scopo) in modo che le strutture
e i comportamenti della Curia assomiglino sempre più alle parole con cui viene
descritto l’operare della Chiesa.
E se la
parola è povertà, allora sempre più la Chiesa, e quindi anche la Curia, dovrà
operare con mezzi poveri, fino al punto da chiedersi se davvero abbia bisogno
di una banca, quando Pietro non aveva una banca, e, ricorda Bergoglio, per
pagare le tasse a Cesare dovette andare a prendersi i soldi nella bocca di un
pesce.
E se la
parola è gratuità, allora non bisogna stare nella Chiesa per fare carriera, non
bisogna pensare al proprio tornaconto, non bisogna avere “una mentalità da
principi”, e dovrebbero essere nominati vescovi proprio quelli che non vi
aspirano e che non vorrebbero esserlo; e se il vescovo è sposo di una Chiesa,
non dovrebbe tradirla con animo di bigamo, aspirando a diventare vescovo e
sposo di una Chiesa più importante.
E se la
parola è comunione, o addirittura collegialità, allora il Sinodo dei vescovi
non dovrebbe essere un organo ornamentale consultivo, ma un istituto conciliare
di cogoverno della Chiesa col papa.
La teologia dello scarto
3 – Ma a che
cosa deve servire questa riforma della Curia, a che cosa veramente deve servire
la Chiesa?
Qui c’è una
scelta dirimente che, se sviluppata, è destinata ad avere decisive conseguenze
istituzionali..È quella che deriva dalla piena consapevolezza, dichiarata dal
papa in Brasile, che oggi non siamo in un’epoca di cambiamento, ma siamo a un
cambiamento d’epoca. Ciò vuol dire un mutamento anche nel regime di
incarnazione: perché se l’incarnazione è consistita, come dice il decreto “Ad Gentes” del Concilio, nel fatto che
Dio, per realizzare tra tutti gli uomini una unione fraterna e stabilirli in
comunione con sé, “decise di entrare in maniera nuova e definitiva nella storia
umana inviando il suo Figlio a noi con un corpo simile al nostro”, allora il
passaggio da un’epoca a un’altra della storia umana cambia anche il modo in cui
Dio è presente in questa storia, e anche la Chiesa non può avere più come
orizzonte se stessa, così come si è pensata fin qui, ma il nuovo disegno di Dio
per l’intera umanità. .
E qui viene
una indicazione preziosa, quando il papa pone sotto giudizio l’intera ideologia
della globalizzazione, mettendola in conto alla cultura dello scarto.
Il mondo di
quest’epoca nuova non è concepito, non è pensato per tutti. Esso è dominato dal
denaro, che è selettivo. “Uomini e donne vengono sacrificati agli idoli del
profitto e del consumo: è la cultura dello scarto”, ha detto Francesco il 5
giugno in piazza san Pietro; e più volte ha citato un midrash ebraico che, a
proposito della torre di Babele, diceva che se si rompeva un mattone d’argilla
tutti facevano un grande pianto, ma se un operaio cadeva dall’impalcatura e
moriva, nessuno si preoccupava. Dalla torre di Babele a via Ottaviano: diceva
il papa: “Se una notte d’inverno qui vicino, in via Ottaviano per esempio, muore
una persona, quella non è una notizia. Se in tante parti del mondo ci sono
bambini che non hanno da mangiare, quella non è una notizia, sembra normale. Se
si rompe un computer è una tragedia, ma la povertà, i bisogni, i drammi di
tante persone finiscono per entrare nella normalità”
Ora questo
non è un problema economico-sociale. Per il papa, per la Chiesa, è un problema
teologico. La Chiesa esiste perché Dio è entrato nella storia umana per
debellare la cultura dello scarto. C’era un solo popolo eletto, c’era una sola
“gente santa” che grazie all’obbedienza alla legge era destinata alla salvezza.
Gli altri erano scartati, gli altri erano i gojm,
i pagani, i Gentili, gli esuberi, gli “esclusi dalla cittadinanza d’Israele,
estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (Ef. 2, 12).
E ciò veniva
messo in capo a Dio stesso e attribuito alla sua volontà, all’economia di
salvezza di un Dio visto come il grande Discriminatore, il grande spartitore.
Per smentire
e rovesciare questa ideologia della salvezza, questa teologia dello scarto, Dio
si è fatto uomo e in tal modo, come dice la
“Gaudium et Spes” si è unito in
qualche modo a ogni uomo, senza scarti, né esuberi, né inferiorità femminili,
né stranieri, né gay.
E allora è a
questa salvezza non più scarsa da portare all’intera umanità che si devono
attrezzare il papato, la Chiesa e le grandi religioni storiche nel nuovo
dialogo tra loro.
Chiesa e papato, mondo e popolo di Dio
4 - Da qui
allora derivano le altre scelte cui ha posto mano papa Francesco e che tutti
insieme dobbiamo realizzare.
Queste scelte
dovrebbero rimettere in movimento i rapporti non solo tra il papato e la
Chiesa, ma tra la Chiesa e il mondo, e tra il mondo e quello che in esso è il
popolo di Dio.
Questo vuol
dire rimettere il papa, la Chiesa, e il mondo dei fedeli al loro posto
nell’ordine storico, cioè nell’ordine delle cose relative che è proprio della
nostra condizione umana.
Come ha detto
Francesco ancora ai vescovi brasiliani, c’è bisogno di una Chiesa che faccia
spazio al mistero di Dio, e dunque non si sostituisca ad esso; ed anche il papa
non è il sostituto di Dio, non è il Paraclito, ne è il testimone e l’inviato.
C’è una parola decisiva che il papa ha detto sull’aereo parlando ai
giornalisti. Questi lo interrogavano sui gay. Si era dunque vicini al terreno
dei principi cosiddetti non negoziabili, ai temi bio-etici, su cui la Chiesa e
i papi hanno avuto sempre la risposta pronta e irrevocabile. Ma,
sorprendentemente, il papa ha detto: Chi sono io per giudicare una persona che
è gay, che magari cerca il Signore e ha buona volontà?
I siti web
fondamentalisti che sono furibondi con papa Francesco, subito hanno replicato:
come, chi sei tu? Non sei tu il papa che ha le chiavi per aprire e chiudere il
regno dei cieli?
Ma appunto,
dicendo “chi sono io?”, il papa ha rifiutato questa lettura materialista e
fondamentalista della parola evangelica, ha fatto proprio il “non giudicare” di
Gesù, e come si dice di Pietro con Cornelio negli Atti degli Apostoli, ha ripetuto
con Pietro: alzati, anch’io sono un uomo. Per come si è costruito il papato
romano negli ultimi secoli, è una rivoluzione copernicana.
Il
magistero dei fedeli
5 - Ma allora
qui sopraggiunge il problema decisivo. Chi è il vero depositario del disegno di
Dio per la salvezza del mondo? La Chiesa, certo, ma la Chiesa da Abele il
giusto fino all’ultimo degli eletti, la Chiesa nella figura evangelica del
gregge, e nella figura conciliare del popolo di Dio.
E qui c’è la
vera novità di papa Francesco, che corrisponde a una potente intuizione biblica
e che può avere grandi ricadute istituzionali. È la novità di considerare variabile
la propria collocazione come pastore rispetto al gregge. Non basta “sentire
l’odore del gregge”, come deve fare la Chiesa la cui dimensione pastorale, come
ha detto il papa ai vescovi brasiliani il 27 luglio scorso, “altro non è che
l’esercizio della sua maternità”. Bisogna anche chiedersi dove mettersi
rispetto al gregge. Secondo una concezione tradizionale del papato, il problema
neanche dovrebbe esistere: è chiaro che il papa, come supremo pastore che
esercita la sua giurisdizione immediata e diretta su tutti i fedeli, deve stare
alla testa del gregge, per guidarlo e condurlo sul buon sentiero.
Ma in una
visione più ecclesiale, il papa si può mettere non alla testa, ma nel mezzo del
gregge, per tenerlo unito¸ e ancor più, come papa Francesco ha detto prima a
Roma ai Nunzi, poi a Rio de Janeiro ai vescovi, poi sull’aereo ai giornalisti,
e ripete sempre, si deve mettere dietro al gregge perché nessuno si perda e
soprattutto perché lo stesso gregge ha il fiuto per trovare nuove strade; e
dunque non il pastore indica la strada al gregge, ma il gregge al pastore; è il
gregge che guida; è questo il sensus
fidelium, è questa la tradizione dei discepoli che si trasmette nella
Chiesa non meno della tradizione apostolica; e qui di nuovo siamo nella visione
di San Gregorio Magno, che chiamava i fedeli “organa veritatis”, organi della verità e diceva loro: “So infatti
che per lo più molte cose nella Sacra Scrittura che da solo non sono riuscito a
capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli”, e aggiungeva: ”per
voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno, e con voi ascolto quello che dico”.
Ed è qui che
arriviamo ad affacciarci sulla nuova frontiera della Chiesa e del mondo di
domani. C’è una tradizione apostolica che dai Dodici giunge fino a noi, da
Pietro arriva al papa, e c’è una tradizione discepolare che dai discepoli di
Emmaus, dal cieco nato, dalla donna peccatrice, dalle donne del sepolcro vuoto,
dal discepolo che Gesù amava giunge fino a noi; c’è un magistero dei vescovi, e
c’è un magistero dei fedeli; c’è un popolo di Dio che è, come la Chiesa, pater et magister, non solo impara, ma
insegna; non profetano solo i dottori della legge, ma profeteranno, come dice Gioele,
i vostri figli e le vostre figlie (Gioele,
3, 1; Atti, 2, 17).
Del resto ci
sono esperienze educative straordinarie che si sono fatte e si fanno nella
società civile, che tanto più possono fiorire nella Chiesa. Unica, in essa, è
la missione del popolo di Dio. In una relazione tenuta a Praga nell’aprile
scorso, e pubblicata sul n. 14 de “Il
regno-Attualità” 2013, il teologo Severino Dianich dice che “rispetto al dettato di Pio X, per
il quale ‘la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e seguire
docilmente le direttive dei pastori’[4]”, il Vaticano
II mostra “come al fondo della distinzione dei compiti ci sia una missione
comune a tutti… Per evangelizzare, quindi, i fedeli non hanno bisogno di alcun
mandato da parte dei vescovi, anzi ne hanno un nativo diritto e dovere. In
questo compito essi non sono né puri esecutori, né collaboratori per mandato,
dei pastori della Chiesa”. Ciò, tra l’altro, “corrisponde al dato di fatto di
tutta la grande tradizione delle Chiese nelle quali i laici, cioè gli sposi
cristiani, non già i preti o i vescovi, hanno garantito per secoli la
trasmissione della fede all’interno delle loro famiglie”[5].
Così i grandi
temi dell’amore, del matrimonio, della vita, della morte, delle comunità e
della politica, i nuovi temi della bioetica e i grandi temi universali del
costituzionalismo democratico e dei diritti, che né i papi né le Chiese possono
avocare al proprio esclusivo giudizio, sono rimessi nelle mani del popolo di
Dio, lo stesso popolo che vive, lavora e veste panni nella società civile,
gregge e pastori, cittadini ed eletti, genitori e figli, maestri e discepoli.
Non popoli identitari, ma un solo e plurale popolo di Dio, non popoli sovrani,
ma popoli liberi: la comunione tra gli uomini e degli uomini con Dio, che era
proprio la rivoluzione che il Concilio voleva fare.
Raniero La Valle
[1] V. Raniero La Valle, “Come se Dio non ci fosse”, relazione al
corso di studi cristiani, Assisi, 23 agosto 2001.
[2] Isaia, 43, 18-19.
[3] V. Paolo Prodi, Per una storia della giustizia, Il
Mulino, Bologna.
[4] Pio X, lettera enciclica Vehementer nos dell’11 febbraio 1906.
[5] Severino Dianich, La Chiesa dopo la Chiesa, “Il regno-Attualità”
14/2013.
Nessun commento:
Posta un commento