Raniero La Valle: la mia rilettura
del Concilio
Relazione tenuta il 17 maggio 2013 nella Biblioteca di San Gregorio al
Celio
Per la prima volta riprendo la
parola dopo una convalescenza, e non so se ancora ne sarò adesso capace. Se no, vorrete scusarmi.
Per parlare del Concilio, come del
resto di qualsiasi altra cosa, bisogna prima di tutto aver chiaro qual è il
luogo da cui si parla; perché il luogo determina anche la qualità del discorso.
Noi ne parliamo da San Gregorio, che è stato
precisamente uno dei luoghi del Concilio. Il Concilio non si svolgeva infatti
solo in San Pietro, ma era sparso per tutta la città; e anche la gratia loci del Concilio non era solo
quella che si sprigionava dalla Basilica Vaticana, ma quella che scaturiva da
molti altri luoghi di Roma e del mondo; e uno di questi luoghi era San
Gregorio; c'era una gratia loci di
San Gregorio a partire da Padre Benedetto, da don Dossetti e dai vescovi che lo
frequentavano, e don Innocenzo se lo ricorda.
Allora per ritrovare in questo
luogo la grazia del Concilio dopo cinquant'anni, io vorrei partire da una delle ultime massime di San
Gregorio Magno, che don Innocenzo ci trasmette con così fedele cura attraverso
il blog intitolato a papa Gregorio, di cui vorrei qui ringraziarlo.
Questa massima tratta dalle “Omelie sui Vangeli”, giuntaci qualche giorno fa,
dice: otiosus est sermo docentis, si praebére non valet
incendium amoris;
cioè “la parola di chi insegna è sprecata se non innesca in chi ascolta l’incendio
dell’amore".
Che significa questo?
Significa che è inutile parlare
del Concilio se questo non accende in noi l’amore; e soprattutto che non si può
parlare del Concilio se non se ne parla con amore.
Ora però proprio qui c’è una delle più
grandi difficoltà riguardo al Concilio. Il Concilio è stato un grandissimo atto
di amore, di Dio, della Chiesa, di papa Giovanni, e anche dei vescovi e dei
periti che si azzuffavano per far prevalere una tesi o un’altra, naturalmente sempre per il maggior bene di
Dio e della Chiesa.
Ma poi la ricezione del
Concilio è stata una ricezione senza amore. E’ stata una ricezione nella paura,
come se si fosse messo in movimento un meccanismo che non si riusciva più a
controllare, come è accaduto con la riforma liturgica, che è stata bloccata; è stata una ricezione nella
reticenza e nella censura, perché ci furono delle cose di cui definitivamente
non si doveva parlare, il celibato dei preti, il sacerdozio delle donne, il
diaconato femminile, il controllo delle nascite; è stata una ricezione per alcuni nel risentimento e nella
ribellione, come clamorosamente è avvenuto con Lefebvre e più discretamente con
tutti i lefebvriani nascosti nella Chiesa, il cui numero veniva intanto
sistematicamente accresciuto ad ogni infornata di nuovi vescovi o cardinali; è
stata una ricezione restauratrice tendente a ripristinare lo stato di cose
passate, come se il Concilio non ci fosse stato; questa restaurazione non è
riuscita per
esempio quando si
è tentato di inumare la Chiesa del Concilio nel sarcofago giuridicistico di una
Lex Ecclesiae fundamentalis in cui si voleva ridurre in formule normative tutto il
Concilio - quella
restaurazione Bologna e San Gregorio riuscirono a sventarla, informandone e allertando, con un grande movimento di comunione,
tutta la Chiesa –
però è riuscita in molteplici
altri campi: nella controriforma liturgica dopo la liquidazione di Lercaro e
Bugnini, nello svuotamento della collegialità finita nella fiction del Sinodo dei vescovi, nel rilancio del papa come vescovo universale
e epitome della Chiesa attraverso i grandi viaggi epocali e la bolla mediatica
creata attorno a Giovanni Paolo II; restaurazione è stata anche la revoca
alle Chiese protestanti della qualifica di Chiese sorelle operata dalla
Congregazione di Ratzinger, e
la comunione ristabilita con i vescovi scismatici di Lefebvre.
Quanto al rapporto con le
grandi religioni dell’umanità, dopo l’apertura del primo incontro
interreligioso di Assisi, è stata una restaurazione il secondo incontro
celebrato apparentemente allo stesso modo vent’anni dopo, ma con la riserva che
ciascuno chiuso nella propria stanza a una data ora pregasse separatamente il
proprio Dio.
Inserita in questo discorso
accidentato, la ricezione del Concilio è stata sbattuta tra negazioni e nostalgie,
tra involuzioni e fughe in avanti, tra calcoli e rassegnazioni; tutto, fuorché
l’amore.
Io credo, tuttavia, che l’amore
acceso dal Concilio abbia continuato a correre incoercibile nelle vene segrete della Chiesa, nelle missioni,
nelle nuove teologie, nelle nuove forme di volontariato e di vita cristiana, nel rinnovamento del
monachesimo, ma a
livello di Chiesa intesa
come nomenclatura,
come struttura gerarchica, cioè a livello di quella Chiesa che è descritta al
cap. III della Lumen Gentium, quella Chiesa che sta al
terzo posto dopo la Chiesa come mistero e dopo la Chiesa come popolo di Dio,
insomma al livello
di quella Chiesa che è raccontata dai media, il Concilio è stato vissuto come un segno di contraddizione,
come qualcosa con cui fare i conti, non come qualcosa da amare. I papi che
hanno ereditato il Concilio magari lo hanno adottato con lealtà, ma senza
amore.
Paolo VI pensò addirittura che
il diavolo ci si fosse messo di mezzo. Ha detto il 29 giugno 1972 nel giorno solennissimo di San Pietro, che mentre si era
creduto che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia
della Chiesa, era “venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio,
di ricerca, di incertezza”.
Come era avvenuto? La sua idea
era che ci fosse stato l’intervento di un potere avverso, preternaturale, il
diavolo, “venuto nel mondo proprio per
turbare, per soffocare i frutti del Concilio”. Invece di irrompere la grazia, a
seguito del Concilio, la sensazione del Papa era che “da qualche fessura fosse
entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio”.
Questo disagio per il Concilio
è poi continuato nella Chiesa.
L'esempio più eclatante è
quello di Benedetto XVI che fin dal suo discorso alla Curia del 22 dicembre
2005, poco tempo dopo essere stato eletto, paragonò gli effetti prodotti dal
Concilio a quelli di una battaglia
navale combattuta nel buio, di notte, senza esclusione di colpi.
Poi ripeté questa cosa più
estesamente parlando nel 2007, durante una vacanza in Cadore, con il clero
delle diocesi di Belluno e Treviso. Pur esaltando la grande eredità del
Concilio, Benedetto XVI stigmatizzò tutta la fase postconciliare facendo
appello a San Basilio, che aveva paragonato la situazione della Chiesa dopo il
Concilio di Nicea “ad una battaglia navale di notte dove nessuno più conosce
l’altro, dove tutti sono contro tutti”. L’idea era che anche dopo un grande
Concilio, come era stato quello di Nicea, non c’era stata una situazione di
riconciliazione e di unità, ma una situazione realmente caotica di lite di
tutti contro tutti. E perciò non
c’era da meravigliarsi che così fosse stato anche dopo il Concilio Vaticano II;
ma se il paragone funziona, allora si capisce perché papa Benedetto abbia
aggiunto subito
dopo che il
Concilio dovesse essere assimilato nella sofferenza, e il termine usato per
questa operazione fosse quello che si dovesse "digerire" il Concilio.
Digerire il Concilio non
significa amarlo. Significa assumerlo, non significa amarlo. Certamente i papi succeduti a Paolo VI
hanno assunto il Concilio nella vita della Chiesa, e hanno in tal modo creduto
di provvedere alla sua ricezione. Ma
una ricezione del Concilio senza amore non è possibile. Il Concilio non è stato
amato e perciò non è stato nemmeno digerito, è rimasto sullo stomaco della
Chiesa.
Qual è allora il nostro compito adesso dopo
cinquant’anni?
Il nostro compito è di
ritrovare questo amore perduto. E nello stesso tempo è quello di svelare alle nuove
generazioni, a quelle nate dopo il Concilio, quell’amore che era divampato allora, ma che a loro è rimasto
nascosto, che nessuno ha loro manifestato, e perciò ancora non hanno conosciuto. Se voi chiedete ai giovani
d’oggi del Concilio, magari ne sapranno qualcosa, ma certo non pensano che sia
stato il momento del divampare di un grande amore.
Ed allora io posso dirvi che, in questo,
nel Concilio recuperato dalle nuove generazioni, sta oggi tutta la mia speranza
per il futuro della Chiesa.
Dunque, amare il Concilio. Ma
non si può amare una cosa che è finita, e se è finita è anche inutile
ricordarla. Fare memoria del Concilio vuol dire allora tirar fuori il Concilio
dal sudario e viverlo come attuale, come una realtà presente, proprio come si fa nella Messa per il memoriale
della Pasqua.
Qual è il sudario da cui deve essere tirato fuori il
Concilio perché oggi
possa vivere?
Il sudario nel quale il
Concilio è stato costretto, è quello dell’ermeneutica. Tra il Concilio e la
Chiesa è stata stabilita una distanza, è stato innalzato un muro: il muro delle
cosiddette ermeneutiche del Concilio. Di
che Concilio parliamo? Intorno al Concilio, come ha detto Papa Ratzinger nel discorso alla Curia
del Natale 2005, si sarebbe sviluppato un conflitto di ermeneutiche: da un lato l’ermeneutica della
discontinuità e della rottura, dall’altro l’ermeneutica della riforma nella continuità.
Il problema della Chiesa postconciliare, il problema di questi cinquant’anni, non sarebbe stata la ricezione
del Concilio nella sua unità e complessità, ma la scelta tra due Concili opposti e
inconciliabili,
per l’uno dei
quali, quello
della continuità, non sarebbe cambiato nulla, per l’altro invece, quello della
rottura, sarebbe cambiato tutto, perfino la fede.
Ora fare del Concilio un oggetto di
contesa tra due ermeneutiche, voleva dire drammatizzarlo, farne causa di
divisione, ma soprattutto sottrarre il Concilio alla vista della Chiesa, farlo
sparire come oggetto. Non c’era più il Concilio, al suo posto c’erano le sue ermeneutiche, ma ciò voleva dire vanificare il
Concilio, non interpretarlo.
Allora io credo che il discorso
dell’ermeneutica vada del tutto rovesciato. Non si tratta di avventurarsi a
prendere parte per l’una o l’altra ermeneutica del Concilio, ma si tratta di
prendere il Concilio stesso come un grande evento ermeneutico della fede. Non
le ermeneutiche raccontano il Concilio, ma il Concilio racconta la fede.
L’ermeneutica, cioè
l’interpretazione della fede nelle condizioni dell’oggi, era ed è stata in effetti la grande
opera del Concilio Vaticano II, che si poneva altresì come discernimento e interpretazione autentica
dell’intero magistero della Chiesa.
Prendere il Concilio, tutto il
Concilio, come ermeneutica della fede e del magistero ecclesiale, corrisponde
esattamente al compito che papa Giovanni aveva assegnato ad esso e che il Concilio si era dato. Questo doveva essere il Concilio:
l’ermeneutica della fede e del magistero.
Come aveva detto Giovanni XXIII
nel discorso inaugurale "Gaudet Mater Ecclesia", il compito del Concilio
non era di formulare dottrine, ma di comprenderle meglio e di interpretarle
secondo il fine della Chiesa che è tutto intero un fine pastorale. Il rapporto con gli uomini,
con le donne di oggi, il sentire l’odore del gregge, come ha detto papa
Francesco, con le scarpe, nere, non con le pantofole, questo doveva essere il
Concilio: parlare al gregge, presentandogli la fede di sempre nei modi che i nostri tempi richiedono, nei modi
che il gregge di oggi potesse raccogliere.
E allora da un lato doveva esserci una
penetrazione dottrinale (il discorso di Giovanni XXIII non era neutro, diceva che ci
voleva “un balzo innanzi nella penetrazione dottrinale”), e dall’altro un’offerta di tale
dottrina, cioè delle verità della fede, “nei modi che la nostra età esige"; il latino è chiarissimo: "ea ratione quam tempora postulant nostra”, non in altro modo, la fede va
raccontata nei modi in cui i nostri tempi chiedono che sia raccontata.
Ora, questa formula, “come i
tempi richiedono”, è una formula larghissima, che nel testo ufficiale latino è
addirittura più aperta e indeterminata di quella che c’era nel testo originale italiano del discorso di Giovanni XXIII, che parlava di un’esposizione
della fede “attraverso le forme dell’indagine e della formulazione letteraria
del pensiero moderno”. C’è stata una polemica riguardo alla differenza tra l’originale
scritto in italiano dal Papa, e la traduzione ufficiale latina che era passata
attraverso il filtro degli uffici curiali, e molti hanno detto che il testo
latino era più limitato, più rigido, più chiuso. Ma leggendo bene si vede che è
esattamente il contrario: il latino allarga, usa una formula che è molto più
comprensiva e capace di potenzialità, di sviluppi possibili. Nell’originale italiano c’era
l’idea di una distinzione tra la dottrina, che rimane immutata, e il suo
rivestimento letterario, che è storicamente mutevole; nel più rigoroso testo
latino c'è invece l’idea che la dottrina stessa dovesse essere investigata e approfondita (il termine è “pervestigetur”:
non solo studiata, ma reindagata) e che le verità in essa contenute dovessero essere enunziate
nel modo che i nostri tempi richiedono; il rapporto stabilito dal testo latino
non è tra la verità e il suo rivestimento, che in qualche modo le rimane sovrapposto ed estraneo, ma tra la verità e la
sua enunciazione, dove l’enunciazione è il modo stesso di esistere e di comunicarsi della verità; l’enunciazione non è un rivestimento, un
vestito aggiunto, è
la verità in quanto si comunica; e a questo punto la cautela introdotta dal
testo latino secondo cui questa enunciazione commisurata alle esigenze dei
tempi deve avvenire "eodem sensu eademque sententia", secondo la formula di Vincenzo di Lérins, cioè
mantenendo lo stesso senso, com’è ovvio, ma anche la stessa accezione,
significa chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.
In ogni caso tutto ciò vuol
dire che il fine pastorale del Concilio non significava affatto una sua presunta
sterilizzazione
teologica, ma voleva dire che il Concilio si giocava tutto sul rapporto tra la
fede ricevuta e la sua riproposizione e trasmissione nelle condizioni
dell’oggi.
Per questo si può affermare che
l’intero Concilio Ecumenico Vaticano II è l’opera attraverso cui la fede viene
rivisitata (pervestigetur) ed enunciata, cioè raccontata, annunziata, trasmessa agli uomini del nostro tempo
nel modo che i nostri tempi richiedono. Ed è precisamente questa ermeneutica
della fede l’eredità del Concilio, il che vuol dire che chi rifiuta il Concilio
rifiuta la fede così
com’è oggi
professata dalla Chiesa e respinge la stessa storia della salvezza, così come
il Concilio l’ha ricapitolata e l’ha rienunciata per noi.
Questo approccio non è del
resto solo di oggi.
Anche la historia salutis raccontata dai Padri era un’ermeneutica della storia della
salvezza, datata però in una determinata
situazione culturale e in un determinato tempo storico.
Il Concilio Vaticano II è
l’ermeneutica della storia della salvezza in questo tempo qui, in questa
situazione culturale
qui. Il Concilio è
la possibilità di vivere la fede oggi. Domani potrà ancora cambiare; oggi è
quello che la Chiesa ci propone a credere.
Se ora noi facciamo memoria del
Concilio in questo modo, e lo interroghiamo in questo modo, troviamo, e non nel suo spirito, ma proprio nei suoi testi, delle cose di straordinaria novità ed importanza
per la nostra fede.
E non parlo dello spirito del
Concilio, che l’ermeneutica della discontinuità – come quella attribuita alla
scuola di Bologna – è accusata di contrapporre alla lettera dei testi. No, no. Parlo proprio dei testi del
Concilio che, letti nella loro interezza, a partire dalle loro parti narrative
e dai proemi, a
cui non si è dato abbastanza peso, propongono un’interpretazione liberante e nuova della fede e
dello stesso magistero millenario della Chiesa, e lo fanno con una
tranquillità, sicurezza di sé e radicalità a cui il cosiddetto spirito del
Concilio, nella sua spontaneità, non
sarebbe mai giunto.
Quei testi sono infatti il frutto di un lungo travaglio, di un confronto tra
vescovi insieme col papa nella Chiesa riunita a Concilio, attraverso cui
gradualmente, correggendo e arricchendo, si è pervenuti al risultato finale,
approvato sempre con maggioranze schiaccianti.
Arrivati a questo punto, si possono
fare solo alcuni esempi.
Anzitutto si può dire che il
Vaticano II, giunto ventunesimo nella storia dei Concili, si pone come
ricapitolazione e chiave interpretativa dei precedenti Concili.
La Dei Verbum scioglie la controversia sulla
“sola Scriptura” del Concilio di Trento; la Lumen Gentium riprende il papa, dichiarato
di per se stesso infallibile dal Vaticano I, e lo rimette dentro la Chiesa; la Gaudium et spes chiude con l’età costantiniana
aperta dal Concilio di Nicea, e alla fede cristologica di Calcedonia aggiunge
che, con l’incarnazione, Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo. (G. et S. n. 22).
Oltre che come ermeneutica dei
precedenti Concili, il Vaticano II si pone anche come ermeneutica del
precedente magistero pontificio. Basti pensare al superamento che avviene prima
nella Pacem in Terris, poi nella Gaudium et spes, delle posizioni del Papato di
tutto il II millennio cristiano e del magistero pontificio dell’Ottocento sulla supremazia della Chiesa
sull’intero ordine politico e civile e sul rifiuto della scienza, dello Stato e
delle libertà moderne; il riconoscimento della libertà umana nella Gaudium et spes e della libertà di coscienza e di religione nella Dignitatis Humanae e nella Nostra aetate, sono l’innegabile novità del
Concilio nella quale lo
stesso Benedetto XVI ha riconosciuto una reale discontinuità.
In effetti si può dire che la
nuova ermeneutica del Concilio è un’ermeneutica della libertà.
Prima del Concilio non si
vedeva il valore che per l’uomo avesse la libertà. La scomunica ottocentesca
l’aveva bollata come un delirio [1], e la dottrina ufficiale era
che essa potesse essere esercitata solo se avesse passato l’esame della verità,
che naturalmente era la Chiesa a detenere. Nell’enciclica “Pacem in terris” Giovanni XXIII si rifiuterà di mettere in ordine gerarchico
verità e libertà, ma insieme alla giustizia e all’amore ne farà “le maestre e
le guide”[2] per condurre gli uomini alla
pace.
E sulla libertà, che è la
dignità stessa dell’uomo, viene a costruirsi l’antropologia positiva del
Concilio.
La nuova ermeneutica antropologica è forse il punto in
cui il Concilio si spinge più avanti nella sua reinterpretazione della fede.
E’ in questo contesto che il Concilio rivisita la
dottrina del peccato originale, tacendola, e impostando in tutt’altro modo il
problema del male, del peccato come separazione da Dio, dell’incarnazione, cioè
del farsi uomo di Dio, della redenzione e della grazia.
Il Concilio è ben consapevole dell'esperienza
del male e del peccato che accompagna l'uomo e la donna fin dalle origini, e
ripropone l'annuncio fondamentale della fede che la salvezza viene da Dio e
solo da lui. Ma non ripropone il modo in cui veniva enunciata questa dottrina,
quello che potremmo chiamare il suo rivestimento. Esso stava nel mito delle
origini secondo cui la prima coppia umana, avendo fatto una cattiva scelta tra
Dio e il diavolo nel giardino dell'Eden, sarebbe caduta nel peccato e sarebbe
stata cacciata da Dio che ne avrebbe anche sovvertito la natura, togliendole
l'immortalità e punendola in molteplici modi. Questo rivestimento dottrinale
del mistero del peccato e della morte, ossia il mito del giardino presentato
come un fatto realmente accaduto da una delle tradizioni recepite nel terzo
capitolo della Genesi, era stato di fatto abbandonato dagli ebrei, mentre è
tornato nella teologia cattolica riempiendo trattati e catechismi fino al
Concilio Vaticano II. Al Concilio questa veste dottrinale fu riproposta nello
Schema che era intitolato "De deposito
fidei pure custodiendum" (del deposito della fede da custodire nella
sua integrità e purezza) che al cap.
VIII trattava "De peccato originali
in filiis Adae" (del peccato originale nei figli di Adamo), ma questo Schema, come tutti gli altri
Schemi preparatori, fu lasciato cadere dal Concilio che preferì alla
"ripetizione diffusa" degli insegnamenti abituali, come aveva detto
papa Giovanni, investigare ed enunciare l’autentica dottrina nella forma che i
nostri tempi richiedono.
Sicché il Concilio racconta la storia del
peccato, che non chiama "originale" (e Benedetto XVI metterà
"originale" tra parentesi) in tutt'altro modo. L'uomo fu peccatore
"fin dagli inizi", ma non c'è alcuna cacciata dal giardino; anzi,
"caduti in Adamo" Dio "non abbandonò" gli uomini ma
"sempre prestò loro gli aiuti necessari per salvarsi, in vista di Cristo
redentore, il quale è operante fin dal principio in quanto generato prima di
ogni creatura (Col. 1,15)" (Lumen
Gentium, n. 2); dunque questo mistero di salvezza, come il mistero del
peccato, non comincia col Gesù storico, è in atto fin dagli inizi,
abbraccia l'umanità tutta intera,
prima ancora di Gesù, perché Cristo è coeterno al Padre, immagine del Dio
invisibile, il vero Adamo è lui.
Le conseguenze sono enormi, sia riguardo al
modo d'intendere l'incarnazione (non c'era un Dio che dovesse essere
"placato"), sia riguardo al modo d'intendere il rapporto tra la
grazia e la natura, una natura dell'uomo integra nella sua dignità, unita a Dio
nel Verbo incarnato e capace di corrispondere nella libera volontà all'amore e
alla chiamata di Dio sulla terra.
Questa rilettura conciliare della dottrina
del peccato originale non è rimasta isolata, è passata poi nella catechesi di
Benedetto XVI, come quella tenuta a Roma il 3 dicembre 2008. Muovendo dalla
lettera di Paolo ai Romani, da cui si era fatta derivare la dottrina del
peccato originale grazie al confronto tra i due Adami, il Papa dice che
"al centro della scena non si trova tanto Adamo con la conseguenza del
peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che mediante Lui è stata
riversata in abbondanza sull'umanità". Anzi, aggiunge Benedetto XVI,
"si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia,
Paolo "non si sarebbe nemmeno attardato a trattare del peccato che 'a
causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte' (Rom. 5, 12)". E qui c'è un bel
ridimensionamento del dogma del peccato originale: se esso è maturato nella
Chiesa "è perché esso è connesso inscindibilmente" con il dogma
"della salvezza e della libertà in Cristo"; questa è la dottrina,
questo è l’annuncio: la salvezza e la libertà in Cristo. Il Papa si chiedeva
poi esplicitamente se era ancora sostenibile oggi la dottrina del peccato
originale, e ne spiegava ulteriormente il senso. In ogni caso quello che è
certo è che il superamento di questa dottrina ha aperto la strada a un'antropologia
positiva che certamente innova rispetto anche al modo di pregare con cui noi ci
rivolgevamo a Dio prima del Concilio.
È a
questa antropologia positiva che corrisponde la teologia positiva del Concilio,
di un Dio consolatore, che è il Dio di Gesù, che non è un Dio tremendum et fascinans, come l’aveva
descritto Rudolf Otto all’inizio del secolo scorso nel suo libro su “Il sacro”,
ma un Dio solo fascinans, un Dio che
solo ama, come sempre ripete papa Francesco.
Il Dio
del Concilio è un po’ diverso da quello che veniva pregato nell’Ordinario
romano e nelle collette della Messa.
Dalla Messa di san Pio V veniva fuori
l'immagine di un Dio che strideva con la buona notizia del Vangelo, con il Dio
raccontato da Gesù. A lui si rivolgevano preghiere inquietanti e desolate.
Soprattutto nelle collette o secreta, dette
così perché il prete le recitava a nome nostro in segreto, Dio era visto e
pregato come un Nume offeso che doveva essere placato dalle nostre sofferenze
e dai nostri sacrifici; così
come aveva voluto essere risarcito
e placato dal sacrificio del Figlio, a questo scopo mandato nel mondo a morire
sulla croce. E quanto a noi, la nostra cattiveria era data per scontata, il
giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la
morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali; il mondo era da
fuggire, dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo e
cercare solo quelle celesti. Le nostre sofferenze erano del tutto meritate, le
disgrazie ce le eravamo volute e Dio vedeva come per le nostre perversità
fossimo afflitti. "Noi giustamente siamo afflitti a causa dei nostri
peccati, noi incessantemente siamo afflitti a causa del nostro operare, a causa
dei nostri eccessi" dicevano per noi le preghiere latine della Messa.
Perciò rispetto alla colpevolizzazione della
pedagogia preconciliare, rispetto a quell'immagine di un Dio adirato,
vendicatore, giudice, è stata una grande rilettura della fede fatta dal
Concilio quella di un Dio che mai, anche dopo il peccato, ha abbandonato gli
uomini, come dice la Costituzione dogmatica "Lumen
Gentium" al n. 2, e che "sine
intermissione", senza stancarsi mai, si è preso cura di loro, come
dice la "Dei Verbum" al n.
3, che non li ha cacciati da nessun giardino, non ha inflitto loro la morte,
non ha condannato il loro lavoro al sudore, le gravidanze e i parti al dolore,
la sessualità alla concupiscenza, non ha condannato la terra a produrre spine e
cardi; queste punizioni del "peccato originale" non ci sono nel
Concilio, che considera invece il lavoro, l'amore, i parti e i frutti della
terra doni di Dio e gloria dell'uomo. Il Concilio ha mostrato un Dio che non ha
bisogno di essere placato, che non deve essere né soddisfatto né risarcito,
tantomeno col sangue del Figlio; un Dio che vuole misericordia e non sacrifici
e che, come suggerisce un'immagine del Talmud babilonese, quando vede il mondo
messo male per le sue colpe, si alza dal trono della giustizia e si siede sul
trono della misericordia.
E se è vero, come dice l'orientale Isacco di
Ninive nel VII secolo, che dalle Scritture è attestata anche una giustizia di
Dio come retribuzione punitiva, è pur vero che "a paragone della sua
misericordia" essa è "come un granello di polvere" che "non
controbilancia un gran peso d'oro". E in questo deve consistere per l'uomo
l'imitazione di Dio. Egli, fatto ad immagine di Dio nella libertà, è chiamato
alla somiglianza con lui nella giustizia e nella misericordia: in modo tale,
però, che con la misericordia egli vinca la giustizia per cingere, come dice
Isacco di Ninive, "non la corona dei giusti secondo la Legge, ma quella
dei perfetti secondo il Nuovo Testamento". Questo e non altro sostiene
l'apostolo Paolo quando dice: "Siate imitatori di Dio" (Ef 5,1). E questa è precisamente la
visione dell'uomo che emerge dai testi del Concilio.
Dunque questa è la buona notizia del
Concilio, questa la sua nuova ermeneutica. L'uomo non è il giocattolo rotto
nelle mani di Dio, egli è ancora, nella sua natura finita, quale era uscito
dalle mani di Lui, ne è la non revocata immagine; non è una canna sbattuta dal
vento, non è incapace di perseguire il bene e di governare la storia, come
prima si era in dovere di credere per non cadere sotto l'accusa di essere
pelagiani. Perciò l'uomo secondo il Concilio può farcela a istituire
ordinamenti di giustizia, a promulgare Costituzioni, attuare il diritto e
costruire la pace. Dice infatti con la Bibbia il Vaticano II, che "Dio ha
messo l'uomo in mano al suo consiglio" (Sir.
15,14), sicché nella misura in cui vengano "suscitati uomini più
saggi" il mondo può essere salvato.
Ed anche qui ci sono due ermeneutiche a
confronto. Perché quello stesso versetto del Siracide che il Concilio traduce:
"Dio ha messo l'uomo in mano al suo consiglio", le vecchie versioni
della Bibbia, compresa quella ancora in uso della CEI, traducono, come se si
trattasse di una punizione: "Dio lasciò l'uomo in balia del suo proprio
volere", che è come dire abbandonato a se stesso.
L’ermeneutica del Concilio Vaticano II non è perciò
l’ermeneutica di un uomo gettato nel mondo, con l’unica chance di essere imbarcato nella Chiesa istituzionale romana come
unica arca di salvezza, ma è l’ermeneutica di un Dio la cui gloria è l’uomo
vivente e la cui Chiesa in potenza è l’umanità tutta intera; e questo è io
credo il discorso non ozioso del Concilio, un discorso capace di suscitare
quell'incendium amoris a cui ci ha
richiamato San Gregorio.
Raniero La
Valle
Discussione
Domanda: Lei è stato molto contestato nella società e nella Chiesa per le
sue scelte politiche, diverse da quelle allora vigenti nel mondo cattolico che
considerava un tradimento l’apertura ai comunisti e la cooperazione con loro.
Ciò le ha procurato molte sofferenze? Ha avuto difficoltà con la Chiesa per la
sua scelta politica? Ha dovuto molto patire a causa sua? Si può continuare a
sperare nella Chiesa?
Risposta: Non bisogna mitizzare quella sofferenza. La mia vita è stata
molto serena; scomoda, ma serena. Nella società certo fa difficoltà trovarsi in
contraddizione con gran parte del mondo a cui appartieni. Non fa piacere essere
violentemente attaccato dal giornale che fino a pochi anni fa dirigevi; né era
piacevole quando qualche pia donna in chiesa si avvicinava e mi tratteneva perché
non facessi la comunione, di cui sarei stato indegno. Ma, per esempio, nella
Democrazia cristiana ho trovato sempre molto rispetto.
Quanto alla Chiesa, qui c’è il mistero della
Chiesa. Per dare una risposta: perché si spera? Perché ci si sta bene e in
pace? No, ma perché la Chiesa, come dice il capitolo I della “Lumen Gentium” è il mistero di Dio con
l’uomo, è questo sacramento di salvezza, questo sacramento dell’unità di tutto
il genere umano; di fronte a questo tutto il resto sono cianfrusaglie, mi
interessano molto relativamente. Se la Chiesa è quella cosa lì, se la Chiesa è
il mistero dell’unione di Dio con l’uomo, se la Chiesa è comunque quella che ha
custodito e ha portato fino a noi le Scritture, se la Chiesa è quella che
nonostante tutto si fa ancora comunità, ebbene questo mi basta. Riguardo alla
mia vicenda un po’ difficile con la Chiesa, certo io prima ero un’autorità,
diciamo così, facevo parte dei dignitari, perché ero direttore dell’ “Avvenire
d’Italia” e dopo invece naturalmente è stato il contrario, però il punto è
questo: che cosa chiedere alla Chiesa? Qual è stato il punto per me veramente
critico, il punto in cui avrei avuto veramente una difficoltà? La Chiesa mi
aveva dato un giornale, era stata il mio datore di lavoro, mi aveva dato
prestigio e ruolo, ma io non ho più domandato questo alla Chiesa, ho chiesto
solamente i sacramenti, che la Chiesa restasse lì come luogo dove io potevo
vivere i sacramenti, dove potessi vivere questo mistero del rapporto dell’uomo
con Dio, dove potessi leggere la Scrittura: questo io chiedevo alla Chiesa. Il
resto non mi interessava; mi poteva togliere qualunque cosa: il vero pericolo
che io ho corso è se per caso ci fosse stata una tale perdita di lumi, se
fossero arrivati alla scomunica per le scelte politiche che noi avevamo fatto;
se ad un certo punto avessero scomunicato Paolo Brezzi, Raniero La Valle,
Claudio Napoleoni, Boris Ulianich perché avevano fatto una scelta politica non
gradita, una scelta che non era quella dell’unità politica dei cattolici:
quella sarebbe stata una tragedia per la Chiesa, ma sarebbe stata una tragedia
per noi; non lo fecero; ma quella sì che mi avrebbe messo in crisi, mi avrebbe
messo in una condizione nella quale veramente quello che per me era
l’essenziale veniva quantomeno, diciamo, impedito, contrastato, rifiutato. Ma al di là di questo, se lei non
chiede altro, se non chiede altro che questo, non c’è bisogno di un grande
eroismo a stare nella Chiesa, si può avere tranquillità e speranza.…
(trascrizione
da video)
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