Credo che a nessuno possa
sfuggire il significato profondo del fatto che celebriamo questa messa nel
ricordo di padre Balducci nel momento in cui avviene la canonizzazione di papa
Giovanni che è quasi il suggello di tutto ciò che padre Balducci ha pensato e
sperato. Che papa Giovanni sia oggi proclamato santo in piazza San Pietro è per
padre Balducci come un ritorno a casa, e lo è anche per noi.
Tuttavia
se ora io facessi una bella commemorazione di padre Balducci, ignorando le
Scritture che abbiamo appena ascoltato, farei tre tradimenti.
Il
primo tradimento sarebbe allo stesso padre Balducci, di cui ho sempre detto che
le cose più belle e più durature erano quelle meravigliose omelie sulle letture
della messa, che preparava passeggiando nel chiostro dopo aver letto i
giornali.
Il
secondo sarebbe a papa Francesco che proprio in ciò, annunciando ogni mattina
il Vangelo a Santa Marta, ha fatto la sua rivoluzione. Anzi proprio per questo
è andato ad abitare a Santa Marta, perché lì può dire sempre la messa con i
fedeli, e non con la faccia voltata verso il muro, come facevano i papi nella
cappella privata dei Palazzi apostolici; è a partire da lì che cambia il
pontificato, perché come aveva scritto papa Giovanni nel “Giornale dell’Anima”
“al di sopra di tutte le opinioni e i partiti che agitano e travagliano la
società e l’umanità intera è il Vangelo che si leva. Il papa lo legge e coi vescovi
lo commenta …”. Questo deve fare il papa; se il papa lo fa, lì comincia la
riforma del papato e della Chiesa.
Oggi, per
usare un’espressione di padre Balducci, c’è un cerchio che si chiude. Da papa
Giovanni a papa Francesco c’è un ponte che scavalca cinquant’anni di deserto,
un ponte che dall’11 settembre 1962, quando un mese prima del Concilio papa
Giovanni parlò della Chiesa di tutti e soprattutto Chiesa dei poveri, al 13
marzo 2013 quando il cardinale brasiliano Claudio Hummes al papa Bergoglio appena
eletto disse nella Sistina: “ricordati dei poveri”, e lui decise di chiamarsi
Francesco.
Il
terzo tradimento, se non parlassimo delle Scritture, sarebbe alla parola di Dio
che non può tornare a lui senza aver primo irrigato la terra (Is.53,10-11).
Dunque
le tre letture di questa seconda domenica di Pasqua (Atti 2,42-47; 1 Pt. 1,3-9;
Giov. 20,19-31) ci parlano del formarsi e delle prime esperienze delle iniziali
comunità cristiane, e naturalmente il problema principale che esse avevano era
quello della fede perché senza la fede non possono esserci delle comunità
religiose, possono esserci solo delle sette. Ma è anche chiaro che per delle
comunità cristiane non si può trattare di una fede qualsiasi, ma deve trattarsi
della fede nella
Resurrezione.
Apparentemente
il messaggio di questo Vangelo che ci parla di Tommaso è quello che discende
dalle ultime parole di Gesù, e cioè che la fede è credere in ciò che non si
vede, e dunque che la fede sarebbe del tutto indipendente da ogni esperienza
sensibile. Ma così non è. Non è vero che il dominio della fede sia solo quello
delle “cose non parventi”, come dice Dante; non è vero che la fede si
diffonderebbe solo per via di una comunicazione immateriale, non è vero che le
cose da credere si trasmetterebbero attraverso una informazione, una notizia,
un messaggio, e che il rapporto da stabilire nella fede sarebbe puramente
virtuale. In questo caso Internet sarebbe il vero ambiente della fede e
l’evangelizzazione sarebbe un cinguettio (Twitter). Ma così non è. Il Vangelo
ci dice che Tommaso voleva toccare con mano l’oggetto della sua fede. Ma ci
dice anche che la fede di Tommaso non era minore di quella degli altri
apostoli. Egli per credere vuole vedere. Ma anche gli altri discepoli avevano
visto, e se non avessero visto non avrebbero creduto, tanto è vero che Gesù,
venendo in mezzo a loro, “mostrò loro le mani e il fianco”: ossia le mani
perforate e il fianco trafitto. Perciò già agli altri discepoli aveva offerto
le prove. Tommaso non vuole non credere, però anche lui vuole vedere il
Signore, come gli altri lo avevano visto. E quando lo vide non si limitò a
gioire, come avevano fatto gli altri discepoli, e si guardò bene dal mettere le
mani nel suo fianco, ma proruppe nella testimonianza di fede e disse: “Mio
Signore e mio Dio”.
Perciò
Tommaso non è affatto il santo degli scettici, dei dubbiosi, dei cartesiani, ma
è il santo dei credenti, è il santo dei testimoni. E ci dice una verità
straordinaria: che se la fede non ha bisogno di prove sperimentali, tuttavia
essa non è un atto puramente conoscitivo, non è un esercizio puramente
intellettuale, non è una cieca decisione della volontà. Non c’è fede che non
parta da una esperienza di fede;
all’origine c’è un dono che può giungere anche sotto le forme di un annuncio,
di una testimonianza, di una notizia; ma se non si fa esperienza di quel dono,
se il dono di Dio non passa attraverso un’esperienza di fede, non solo
attraverso il cuore ma anche attraverso i sensi, il dono giace inerte sulla
terra e non produce frutti di vita. Se uno non vede il Signore, inutilmente
egli compare tra noi.
Così
è accaduto per i Samaritani che dopo aver avuto la notizia dalla donna che
aveva incontrato Gesù al pozzo di Giacobbe uscirono dalla città per vedere
Gesù; così è accaduto per quelli che gli chiesero dove abitava, e lui disse:
venite e vedrete, e fu così che Andrea e Pietro conobbero Gesù; così è avvenuto
per Maria di Magdala che lo incontrò di persona nel giardino della tomba vuota;
così avvenne per i discepoli di Emmaus che lo riconobbero allo spezzar del
pane, così avvenne per gli altri discepoli e poi per Tommaso nel Cenacolo.
All’origine c’è sempre un’esperienza di fede che impegna l’intera persona.
Perciò
inutilmente la Chiesa diffonderebbe il suo annuncio, proclamerebbe i suoi
dogmi, se non producesse esperienze di fede. Se fosse solo per la notizia che
dà, non ci sarebbe bisogno di andare in missione, basterebbe un telegramma; e
se non facesse vedere il Signore inutilmente la Chiesa riempirebbe i suoi
catechismi; senza un’esperienza di fede essi sono spazzatura, direbbe San Paolo
come scrisse ai Filippesi riguardo all’osservanza della legge antica. E quanto
alle encicliche, esse non hanno mai convertito nessuno.
Allora
questo possiamo dire ora di padre Balducci: egli è stato un uomo di molte
parole, ma soprattutto un uomo che ha vissuto tutta la vita come una sanguigna
esperienza di fede, un uomo che ha costruito il suo magistero, la sua teologia
e il suo rapporto con la storia come un’esperienza di fede, e questa ha profuso
a piene mani nella Chiesa italiana e ha seminato e coltivato in innumerevoli
discepoli ed amici nel tempo della sua missione e fino ad ora.
E
adesso la tentazione sarebbe di chiedersi come reagirebbe la sua esperienza di
fede di fronte agli avvenimenti di oggi. Che cosa avrebbe detto di Renzi, o di
Grillo, o del papa, o delle due canonizzazioni paradossalmente sincrone che
sono in corso a Roma? Che direbbe oggi qui padre Balducci?
Non
lo sappiamo, e non ce lo possiamo nemmeno immaginare. Perché questo è il dolore
della separazione, questo è il dolore dell’assenza, e noi questo dolore non ce
lo possiamo togliere, facendo finta che egli continui a parlarci, continui a
dire la sua. Il nostro dolore, per noi che lo abbiamo conosciuto, non è solo
per noi, ma è il dolore per un mondo che è senza padre Balducci. E’chiaro che
andiamo avanti lo stesso; però senza padre Balducci siamo più poveri, meno
illuminati, meno consolati, se no non saremmo neanche qui per ricordarlo.
Ma
se non sappiamo che cosa Balducci sarebbe oggi – forse perfino cardinale –
sappiamo quello che è stato. E dobbiamo dire la nostra certezza che egli non
sia passato invano. Non è neanche importante che egli, come gli altri
testimoni, sia ricordato. L’importante è che il mondo è diverso per il fatto
che questi testimoni ci siano stati. Per esempio a me pare chiaro che nella
genealogia della Chiesa di papa Francesco, se ci sono mons. Romero e Helder
Camara in America Latina, ci sono padre Balducci, Dossetti, il cardinale
Martini nella Chiesa italiana. Certo, non si deve fare il culto della
personalità di nessuno, perché i più grandi sono come i più piccoli nel regno
di Dio; però ci sono dei solchi che sono stati tracciati da questi protagonisti
su cui bisogna riprendere a seminare.
Il
grande solco che dalla Chiesa di padre Balducci giunge fino alla Chiesa di papa
Francesco e che per tanti anni non è stato dissodato, è quello del Concilio.
Come
è noto padre Balducci, che aveva accolto con grande entusiasmo il Concilio,
dopo la sua conclusione ne rimase deluso, perché gli parve che non fosse uscito
dall’organon della cultura
occidentale. Lui ormai pensava nei termini dell’uomo planetario e gli sembrava
che la Chiesa avesse finito per far propria una cattiva modernità, la modernità
della ragione occidentale, non più adatta a far fronte alle sfide dell’epoca
nuova. E gli pareva che l’uomo planetario non potesse nascere dal grembo delle
religioni istituite, e quindi nemmeno da una Chiesa che avesse continuato la
via del Concilio, perché il Concilio era stato viziato di ecclesiocentrismo,
era rimasto interno all’ottimismo progressista della cultura occidentale,
incapace di realizzare l’universalità del paradigma planetario.
La
storia della Chiesa di questi decenni è sembrata tale da dare ampiamente
ragione al suo pessimismo. Il problema è però che neanche sul versante non
religioso che è stato chiamato post-moderno, è nato l’uomo planetario, e invece
sono nati i non-uomini della globalizzazione capitalistica, quelli che papa Francesco
chiama scarti, avanzi; sono venute avanti e sono cresciute le vittime di una
economia che uccide, gli esclusi dalla “dittatura di un’economia senza volto e
senza uno scopo veramente umano”.
Questo
ha detto papa Francesco con una radicalità di giudizio che sarebbe molto
piaciuta a padre Balducci. Mai la Chiesa era stata così severa nel rifiuto del
sistema culturale ed economico dominante, mai era andata così oltre i limiti
della cultura eurocentrica, oltre i limiti dell’Occidente, dello stesso Marx. E
questo la Chiesa di Francesco lo fa proprio tornando a papa Giovanni,
proclamando che i poveri godono di un privilegio nel cuore di Dio, riprendendo
la via del Concilio con una ermeneutica non della continuità o della rottura,
ma con l’ermeneutica di una nuova comprensione di Dio, di un nuovo annuncio, di
una nuova e più avanzata esperienza di fede.
Allora
la domanda che potremmo lasciare qui sull’altare per padre Balducci, semmai
potesse ascoltarci, è se l’uomo planetario, l’uomo e la donna della libertà
della giustizia e della pace non possano scaturire proprio da questa Chiesa del
Concilio rimessa in cammino da papa Francesco, non possano scaturire da questa
Chiesa qui che riscopre il Dio della misericordia e del perdono, che annuncia
l’unità indissolubile tra l’umano e il divino e che, come scrive papa Francesco
nella “Evangelii Gaudium”, tradirebbe la “logica dell’incarnazione” se pensasse
a “un cristianesimo monoculturale e monocorde”, e perciò non deve imporre “una
determinata forma culturale” né cadere nella “vanitosa sacralizzazione della
propria cultura”.
Una
Chiesa che diventasse davvero così piacerebbe a padre Balducci e forse gli
farebbe rivalutare il Concilio.
Perché
questa sarebbe la Chiesa all’altezza del paradigma planetario. Infatti l’uomo
nuovo, l’uomo planetario, non è quello che è figlio di una cultura planetaria o
appartiene alla Chiesa di una religione planetaria, ma è l’uomo che dal cuore
della propria cultura della propria religione e della propria Chiesa, è portato
a fare un’esperienza universale di fede; sono l’uomo e la donna che al vedere
Gesù sono capaci di dire, come dissero i Samaritani, “tu sei il salvatore del
mondo”, sono capaci di chiamarlo, come Maria di Magdala, “Rabboni”, sono capaci
di esclamare, come Tommaso, senza altre prove, “mio Signore e mio Dio”.
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