martedì 19 marzo 2019

LO HANNO CAPITO PERFINO I RAGAZZINI


Mentre tutta l’attenzione dei media  e nostra è trattenuta da scenari apparentemente più determinanti per noi – la Nuova Zelanda del terrorismo razzista, l’Inghilterra della Brexit, la Cina della “via della seta” – uno sguardo assai distratto viene rivolto a quanto sta accadendo in America Latina e alla stessa minaccia di un intervento militare americano in Venezuela, come se lì si stesse svolgendo solo qualche psicodramma da Repubblica delle banane. Invece si tratta di uno dei punti focali in cui la globalizzazione si sta risolvendo in tragedia, e il demone della restaurazione sta rigettando la storia e i popoli nella notte oscura da cui sono appena usciti. Il Brasile, in cui decine di milioni di poveri erano stati restituiti alla vita, è tornato ad essere un Paese che fa la fame, con 27 milioni di disoccupati, 30 milioni di persone rimaste senza medici dopo la cacciata di diecimila medici cubani e 63.500 morti violente in un solo anno; l’Amazzonia, messi fuori gioco gli Indigeni, apre lo scrigno delle sue ricchezze vitali alla dilapidazione privata; in Argentina si respira di nuovo l’acre odore della dittatura; il Venezuela, stremato dalle sanzioni statunitensi che funzionari dell’ONU hanno definito come “crimini contro l’umanità”, è oggetto di un colpo di Stato diretto dall’esterno e paga il prezzo dei trilioni di dollari di petrolio di cui il grande vicino del Nord si vuole appropriare; in Messico il muro che Trump vuole a tutti i costi costruire più alto della torre di Babele è un simbolo eloquente del Grande Progetto classista di un mondo di eletti e scartati, di liberi e prigionieri o, per dirla all’antica, di padroni e servi; e quanto agli Stati Uniti, minacciati dalle strettoie anche culturali del loro capitalismo interno e dall’aggressività di quello cinese, tornano alla loro primaria e proverbiale opzione, di tenere intanto ben fermo il dominio sull’America Latina come sul loro “cortile di casa”, il loro patio trasero. 
La cosa ci riguarda per molteplici motivi. In primo luogo perché tutto ormai riguarda tutti. Ma in modo speciale perché l’America Latina è stato il grande laboratorio di un cristianesimo della liberazione dopo il Concilio, di là sono poi tornate indietro le caravelle di Colombo portando sulla cattedra petrina il primo papa che si chiama Francesco, e perché un ruolo particolarmente reazionario in questo momento vi stanno esercitando delle frazioni di un cristianesimo ottuso e integrista, intriso e arricchito di ingerenze straniere, al punto che un monaco appena giunto da lì ha parlato della situazione politica del Paese, dopo l’incarcerazione di Lula e l’elezione di Bolsonaro, come di una dittatura di chiese pentecostali. Secondo Frei Betto, un protagonista della teologia della liberazione, queste esprimono “uno spiritualismo disincarnato e lontano dalla realtà concreta” e occupano il 33 per cento di tutta la programmazione televisiva. Le analisi più preoccupate descrivono lo stato odierno dell’America Latina come quello di un genocidio dei poveri e di un geocidio della Madre Terra; né questo riguarda purtroppo solo l’America Latina,  come del resto ormai hanno capito perfino i ragazzini. E dunque è evidente che non lo si può affrontare solo con gli attrezzi della politica, ma ci vogliono quelli dell’economia, della cultura, del diritto, della religione e della fede. Una conversione non di una sola di queste cose, ma di tutte.
Di conversione parla Enrico Peyretti dopo la strage di Christchurch: il rimedio è “unire le differenze nella pari dignità”. Una conversione è suggerita anche da Tomaso Montanari in una pagina del suo ultimo libro “L’ora d’arte” in cui rivisita un mosaico, di fattura bizantina, che sta in cima alla facciata del vecchio ospedale dell’Ordine “della Trinità e degli schiavi” sul monte Celio a Roma, accanto alla chiesa di san Tommaso in Formis. C’è un Cristo glorioso che libera dalle catene uno schiavo bianco e uno nero, perfettamente uguali, in perfetto equilibrio, come se fossero dello stesso peso, sorretti come sono dalle braccia del Cristo aperte come i bracci di una bilancia. Per quel Dio trinitario “quelle vite hanno lo stesso valore”, bianchi e neri, uomini e donne di ogni lingua e colore e nazione sono eguali, e tutti devono essere liberi, riscattati dalle loro schiavitù. Quando, anni fa, nel pieno della lotta per la liberazione dall’apartheid in Sudafrica, il vescovo anglicano Desmond Tutu trovandosi a Roma fu accompagnato da don Matteo Zuppi, ora  arcivescovo di Bologna, a vedere il mosaico, cadde in ginocchio sulla strada e pianse a lungo. Lì, su quel muro romano, aveva visto ciò per cui combatteva, non solo un’opera di misericordia, ma di giustizia. Aveva visto la rappresentazione di una  grande promessa messianica, oggi la più contrastata, l’unità e l’eguaglianza di tutta la famiglia umana. Questa è anche la prima urgenza messa a tema della prossima assemblea romana di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, che perciò ben potrebbe prendere quel mosaico come suo emblema.  

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