di Raniero La Valle
Era stato mons. Lorenzo
Baldisseri, di fresco nominato segretario del Sinodo dei vescovi, a rompere gli
indugi e gli autismi curiali e a
dire urbi et orbi
che tutti potevano liberamente mandare testi di riflessioni e suggerimenti al Sinodo
straordinario sulla famiglia, anche senza passare attraverso il canale canonico
dei vescovi. Ora quel monsignore è stato fatto cardinale, segno che non ha
preso una cantonata, che il papa è d’accordo con lui e che a dare la parola
alla Chiesa non si è redarguiti ma si è promossi.
Del resto c’è una coerenza: che
senso avrebbe l’insistenza di papa Francesco sulle periferie, se il rapporto
della Chiesa con le periferie fosse un rapporto discendente, paternalistico, di
una Chiesa che scende dalle pedane e dai pulpiti per andare a ispezionare le
periferie, e non invece un rapporto per cui la Chiesa riconosce tutta se stessa
come periferia, e ascolta, e perciò dà la parola, alle periferie?
Il riconoscimento delle Comunità di base
Negli stessi giorni in cui le
periferie erano chiamate a dire
la loro sulla pastorale (ma anche sulla teologia) delle famiglie, il papa
mandava un messaggio alle Comunità di base del Brasile riunite per il loro XIII
incontro interecclesiale nello Stato del Cearà, richiamando la legittimazione
data a tali Comunità dall’assemblea episcopale di Aparecida e riproponendo loro
il dovere della evangelizzazione; e siccome questo è il “dovere di tutta la
Chiesa e di tutto il popolo di Dio”, per il papa ciò equivaleva a dire che le Comunità di base, a
differenza di ciò che si è ritenuto altrove, sono parte integrante e legittima
della Chiesa.
Dunque questa è una Chiesa in
movimento, cui la riforma in corso del papato sta dando nuova vita; farà pure
degli errori, ma questo è il prezzo di ogni riforma, tanto che il papa ha detto
ai giovani in Brasile di fare confusione, chiasso, “casino”, e nella “Evangelii Gaudium” ha scritto di
preferire “una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le
strade, piuttosto che una Chiesa malata per le chiusure e le comodità di
aggrapparsi alle proprie sicurezze”.
Così incoraggiate, molte Comunità
di base, associazioni ecclesiale, scuole di ricerca, aggregazioni spontanee
hanno preso carta e penna e hanno scritto a Roma
per rispondere a tutte o ad alcune delle 38 domande di cui
consisteva il questionario messo in rete dalla segreteria del Sinodo. Molte
risposte sono state severe, perché hanno criticato le domande stesse, che
spesso della domanda avevano solo la veste retorica, ed in realtà erano
tradizionalissimi enunciati sul matrimonio e la famiglia. Altre risposte
sono state costruttive; ma in ogni caso della natura e della quantità dei
documenti venuti direttamente dalla base si potrà sapere solo in seguito,
quando qualcuno ne farà la ricognizione.
Molto cammino ancora da fare
Quello che invece si può rilevare
fin da ora è che la Chiesa italiana, nelle sue strutture diocesane, ha accusato
una difficoltà nel dare riscontro all’iniziativa del Sinodo. Non sembra che
essa si sia messa in movimento, che abbia sollecitato interventi, veicolato
proposte, si sia fatta eco di sofferenze e preghiere dei fedeli; si sconta ora
il fatto che da cinquant’anni ormai, uscita in stato confusionale dal Concilio,
la Chiesa italiana abbia imposto il silenzio ai fedeli e si sia fatta silenzio
essa stessa, fino ai livelli di vertice della conferenza episcopale, priva
com’è stata di ogni altra parola che non fosse quella del suo presidente.
Così la Chiesa italiana è giunta
a questo appuntamento in stato di torpore, non si è fatta scuotere dalla novità
di un organismo sinodale che prima di impartire direttive e insegnamenti
chiedeva informazioni, pareri e proposte; essa non sembra essere uscita, almeno
questa volta, dalle “abitudini – come dice il
papa - in cui ci sentiamo tranquilli”.
Ma
è solo la Chiesa italiana? Vedremo. Quello che intanto già si può dire è che la
difficoltà a rispondere alla sollecitazione romana di una consultazione estesa
a tutto il popolo di Dio, rivela un problema che non è solo di qualche comparto
ecclesiale, ma è di tutta la
Chiesa. Essa non è pronta a questo passo. Non è pronta a
pensarsi veramente come popolo di Dio, né del resto le era necessario finché il
Concilio, che ne aveva posto le premesse teologiche, era rimasto inattuato
nelle sue conseguenze istituzionali e pastorali. Di fatto era rimasta vigente
nella Chiesa romana la teologia del laicato, inteso come un esercito di riserva
della gerarchia, anche se ormai in disarmo e pressoché inutilizzabile, come
avevano dimostrato i velleitari tentativi politici alla “Todi 1” e “Todi 2” ; era rimasta l’idea che
l’unico vero apostolato fosse quello dei vescovi, a cui laici selezionati erano
cooptati a collaborare; era rimasta l’idea dei “duo
genera christianorum”, giustapposti così che il ministero dei fedeli e
quello dei chierici “differiscano essenzialmente e non solo di grado”; era
rimasta l’idea che l’unica successione dall’evento fondatore della Chiesa fosse
la successione apostolica e non anche la successione nella fede dell’universalità
dei discepoli e del mondo più prossimo a Gesù; né erano state tratte tutte le
conseguenze dall’aver identificato la Chiesa con la nuova figura o immagine di “popolo
di Dio”, che è una figura antropologica ulteriore
e dirompente rispetto alla figura biblica di popolo di Dio riservata al popolo d’Israele.
E la prima conseguenza di questo mutamento di paradigma rispetto alle immagini
bibliche più tradizionali come quelle di gregge, di ovile, di tempio, di
edificio di Dio, è quella per cui essere un popolo significa avere la parola, e
godere dei diritti innati – ossia di origine divina - alla libertà e
all’eguaglianza nel pluralismo di una comunità universale.
Che significa essere “popolo di Dio”
Non può essere infatti senza
conseguenze che, nell’intento di rappresentare la fede e la Chiesa nel
linguaggio e nelle forme del pensiero moderno “nel modo che la nostra età
esige”, secondo quello che era il compito del Concilio, esso abbia privilegiato
l’immagine del popolo di Dio rispetto a quella, finora dominante, del gregge.
E’ chiaro che nel linguaggio dell’allegoria, che è uno dei sensi
dell’interpretazione delle Scritture, le caratteristiche a cui allude
l’immagine del popolo sono ben diverse da quelle cui allude l’immagine del
gregge (che ha fiuto, ma non ha la parola, non ha l’autodeterminazione, non ha
la libertà). Ed è molto interessante che nella Costituzione dogmatica del
Concilio, il passaggio dall’idea del gregge all’idea del popolo è collegata al
passaggio da una certa struttura di Chiesa, fondata sull’autorità di un solo
capo, a un’altra struttura di Chiesa fondata sull’autorità del collegio
apostolico (s’intende, con il suo capo); dice infatti la Lumen
Gentium , al n. 22: “Questo
collegio (degli apostoli), in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità
del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo capo, significa
l'unità del gregge di Cristo”; dunque la diversità e universalità nel popolo e
nella Chiesa sono legate alla sinodalità e collegialità, l’unità e uniformità del
gregge sono legate al ruolo preminente di Pietro: e le due cose devono stare
insieme.
Sta qui
allora il valore dell’operazione avviata con il questionario diffuso per il
Sinodo. La Chiesa collegiale, col suo capo, domanda, il popolo, nella sua
varietà e universalità, risponde. E non è affatto detto che allargandosi
l’interlocuzione non ci siano da aspettarsi delle sorprese. Ci sono delle
risposte che hanno cambiato il mondo. A cominciare dalle risposte che si
trovano nei vangeli. E’ quando Gesù chiede: “chi dice la gente che io sia?” che
viene la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo”. E’ quando Gesù
chiede ai discepoli di Emmaus che cosa era successo a Gerusalemme, che viene
svelato il senso delle Scritture che avevano parlato del messia. È quando Gesù
chiede a Marta se crede nella resurrezione, che Marta risponde: “Si, o Signore,
io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo”. È
quando Gesù chiede a Tommaso di mettere la mano nelle sue piaghe, che Tommaso
risponde: “Mio Signore e mio Dio”; è quando i farisei chiedono al cieco nato di
proclamare che Gesù era un peccatore, perché guariva di sabato, che il cieco risponde con una delle più belle
professioni di fede che ci sono nei vangeli: “se sia un peccatore non lo so,
quello che so è che prima non ci vedevo ed ora ci vedo”. Ed è quando la donna
torna in città per raccontare l’incontro con Gesù al pozzo di Giacobbe, che i
samaritani andati a loro volta da lui le rispondono: “non è più per la tua
parola che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che
questi è veramente il salvatore del mondo”.
Dunque
c’è un ministero della risposta, del rispondere, nella Chiesa, che non è dei
letterati, dei sapienti, dei chierici, dei consacrati, ma è dei discepoli, dei
semplici testimoni, della gente comune. Nei vangeli, prima che nella
predicazione degli apostoli, lo svelamento di Gesù come Signore, come Messia,
come figlio di Dio, sta nelle risposte dei discepoli, delle donne, dei
mendicanti, degli stranieri.
Ma
questo ministero della risposta non si può esercitare se non c’è chi
interroghi. Se nessuno chiede niente, non c’è nessuno che risponda. E la Chiesa
allora resta muta, è la Chiesa del silenzio.
Per
molto tempo nella Chiesa, e per lo meno
fino al Concilio, ai discepoli, ai fedeli, nessuno ha chiesto niente; è stata
chiesta obbedienza, è stato chiesto di ascoltare, è stato chiesto di
partecipare ai sacramenti, alle novene, ai catechismi e di dare l’8 per mille.
Ma nessuno finora aveva chiesto che cosa pensano di Dio, del Cristo, dell’uomo,
della Chiesa, dell’amore, del matrimonio, nessuno aveva chiesto come pensassero
di poter rispondere oggi della speranza
che è in loro.
Perciò
è una così grande novità che ora queste domande siano state poste. E se la
Chiesa non è ancora pronta, l’importante è cominciare; l’importante è far
crescere questo ministero del chiedere e del rispondere, perché maturi un nuovo
modo di essere Chiesa, e anche un nuovo modo di essere mondo, perché finché si
domanda e si risponde c’è dialogo, c’è comunicazione, c’è insegnamento e c’è
apprendimento, ci può essere comunione, non c’è il fragore della guerra e il
silenzio dei cimiteri.
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