Le risposte al Sinodo dei vescovi
Tra le 38
domande che il papa ha fatto rivolgere ai vescovi e a tutta la Chiesa in
preparazione del Sinodo straordinario sulla famiglia, ce ne sono alcune che
fanno riferimento alla “legge naturale”, dando per scontato che il matrimonio
sia un istituto di diritto naturale e che a questo diritto di natura corrisponda un solo modello di matrimonio,
tra i molti storicamente esistenti, cioè il matrimonio monogamico indissolubile
tra un uomo e una donna, assurto per i battezzati alla dignità di sacramento.
Basta questo
per dire come la Chiesa di Bergoglio si stia per affacciare sul mare aperto,
ponendo all’ordine del giorno la questione antropologica fondamentale, su cui
si gioca il futuro dell’età moderna, il problema cioè di “che cos’è umano”. È
una questione che va al di là di quella della famiglia, e riguarda tutta la
vita dell’uomo sulla terra. La posta è molto alta. Per dire che cos’è l’uomo
non basta infatti chiedersi ciò che già e fin dall’inizio è iscritto nella sua natura;
per sapere oggi che cos’è umano si deve interrogare la cultura che l’uomo ha
aggiunto alla natura, la storia in cui
egli è cresciuto, il diritto positivo
con cui ha incivilito il vecchio stato
selvaggio, e la grazia con cui Dio ha messo il divino nell’umano, facendo
dell’uomo una “nuova creatura”. È umano non solo ciò che lo è per natura, ma
ciò che è umano per cultura e per grazia.
Se questa
seconda tesi è vera, è chiaro che la domanda antropologica interpella la fede. Perché se bastasse
la “legge naturale” e questa fosse una legge “promulgata dalla ragione” grazie
alla “partecipazione della creatura razionale alla legge eterna di Dio” e come
tale fosse accessibile a tutti e capace di fondare “un’etica universale”, come spiegava
nel 2007 Benedetto XVI alla Commissione teologica internazionale, non ci
sarebbe bisogno d’altro, né di cultura, né di diritto positivo, e nemmeno
sarebbe stato necessario che Dio si facesse uomo, e ne venisse fuori il Vangelo.
E agli uomini si potrebbe dire: avete il diritto naturale? Ebbene, salvatevi
con quello.
Senonchè la
Chiesa è oggi impegnata proprio a raccontare la fede, e non al solito modo,
come stava scritto nei vecchi libri penitenziali o negli editti costantiniani,
ma “in quel modo che la nostra età esige”, come aveva deciso di fare il Concilio
secondo il mandato conferitogli da papa Giovanni; e come il Concilio fece ben
più di quanto dopo si sia voluto ammettere.. Ed ora è proprio questo che il
nuovo papa ha ricominciato a fare: come ha detto nell’intervista programmatica
alla “Civiltà cattolica”, pubblicata il 19 settembre, “il Vaticano II è stato
una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un
movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I
frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è
stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una
situazione storica concreta”; e al di là delle controversie ermeneutiche su
“continuità” e “discontinuità”, questa “dinamica di lettura del Vangelo
attualizzata nell’oggi è assolutamente irreversibile”. E infatti oggi si prega
in modo diverso, con parole diverse, con rapporti di comunione diversi.
Anche la
domanda su “che cos’è umano” allora si pone in modo diverso e richiede una
rilettura del Vangelo dentro alla cultura contemporanea. Se si fa questo si
scopre che “legge naturale” o “diritto naturale” hanno presso gli uomini e la
cultura di oggi un significato diverso da quello che avevano presso gli
antichi, e quindi un dialogo
della Chiesa con l’età moderna che utilizzi queste formule è
destinato a una radicale incomprensione reciproca. Perciò abbiamo pensato anche
noi, come tutti erano stati invitati a fare, di rispondere al Sinodo, e proprio
su questa domanda. E lo abbiamo fatto mobilitando una nostra piccola scuola di
“ricerca e critica delle antropologie”, che ha il nome biblico di Vasti, la
straniera, ed è stata attiva a
Roma nell’ultimo decennio; e per rispondere ci siamo avvalsi dell’apporto
prezioso di un teorico e filosofo del diritto, il prof. Luigi Ferrajoli.
Nell’elaborare
i nostri suggerimenti, abbiamo osservato che le stesse espressioni “legge
naturale” o “diritto naturale” sono in realtà degli ossimori, perché sia che si
tratti del diritto naturale dei giusnaturalisti, sia che si parli della legge
di Mosè, si tratta di fenomeni giuridici che non sono prodotti dalla natura; in
effetti Tavole della legge e diritto sono già pienamente cultura, e sono parte
di una storia.
Valori e limiti del diritto naturale
Il
diritto naturale appartiene a una
prima fase della storia del diritto quando, mancando una legislazione fornita
di autorità e comunemente riconosciuta, il criterio di riconoscimento di ciò
che fosse diritto stava in ciò che gli uomini stessi sentissero come giusto e
corrispondesse a una verità o razionalità derivanti da un ordine di natura. È
questa l’esperienza del nomos greco,
del diritto romano e poi del diritto comune.
In
questa esperienza millenaria diritto e morale finivano per coincidere, e le
norme erano dedotte da un ordine esterno al diritto, supposto come oggettivo e
come vero (“naturale”, appunto) e quindi, come tale, acquisibile alla
conoscenza.
Di
fatto però questa fase del diritto era aperta alle più gravi ingiustizie per
l’arbitrarietà e il relativismo con cui la presunta giustizia era interpretata
e nei più diversi modi applicata.
Inoltre,
in un contesto culturale in cui la diseguaglianza, il diritto del più forte, la
superiorità dell’uomo sulla donna erano considerati normali e secondo natura,
la legge naturale ha potuto essere usata come fonte di legittimazione e
consacrazione di un diritto positivo che si andava costruendo in modo da
riprodurre e perpetuare rapporti di diseguaglianza, di discriminazione tra le
persone e di sottomissione della donna. Nei confronti di questa, in
particolare, per secoli il diritto positivo ha assunto una posizione di netto
sfavore, non senza il supporto di riferimenti culturali, morali e biblici,
trasfusi in una legge naturale oggettivizzata e assolutizzata; pericolo che non
è venuto meno neanche oggi.
La
seconda fase è quella del diritto
positivo, per il quale è diritto non ciò che di volta in volta è
considerato giusto (secondo l’opinione di Gaio piuttosto che secondo quella di
Ulpiano e così via), ma ciò che è sancito da un’autorità legittima ed ha
certezza e validità per tutti. Qui a prevalere in ciò che istituisce la legge
non è un principio astratto e inafferrabile di “verità” o di giustizia, ma
l’autorità del legislatore. È questa l’esperienza di tutti gli Stati moderni di
diritto.
Nel
modello del diritto positivo o giuspositivismo la possibile ingiustizia delle
norme è il prezzo che viene pagato ai valori della certezza del diritto,
dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, della libertà contro l’arbitrio e
della soggezione dei giudici alla legge. In questo modello non viene meno il
riferimento a istanze morali, a valori religiosi etici o politici, comunque
attinti e professati nelle diverse culture, ma essi restano come punto di vista
esterno al diritto, con cui il diritto stesso viene giudicato ed anche
sollecitato ad evolversi e a cambiare. Grazie a questa autonomia del punto di
vista esterno rispetto al diritto ha potuto darsi la dialettica e anzi la contraddizione
tra Antigone e Creonte che ha illuminato tutta la storia dell’Occidente, e
bandiere ideali sempre più esigenti possono essere agitate da liberi soggetti
davanti al legislatore. In questo senso ciò che un giorno veniva chiamato
“diritto naturale” non è più “il diritto eterno che scorre nel tempo”, come lo
definiva Giovan Battista Vico, ma è l’istanza di una sempre maggiore crescita
in umanità che i soggetti storici si sforzano, anche mediante il diritto, di
realizzare nel tempo.
Tuttavia
la legislazione positiva, di cui il potere resta l’unico artefice ed arbitro,
può cadere nelle più gravi ingiustizie, come accade quando si pone a presidio
di ordinamenti economico-sociali di esclusione, e come è accaduto quando è
giunta alle aberrazioni dei totalitarismi del XX secolo; questa caduta del
diritto positivo nell’ingiustizia può avvenire anche ad opera di maggioranze
legittime, formalmente democratiche; è questa la ragione dello scetticismo e
della critica al diritto prodotto anche dagli Stati democratici, dalle loro
maggioranze e dai loro partiti, nel discorso che nel 2008 Benedetto XVI avrebbe
dovuto tenere all’università “La Sapienza” di Roma.
Fulcro del
costituzionalismo la dignità umana
Ma
ora ci troviamo in una terza fase della storia del diritto e dell’umanità
stessa, ed è quella della democrazia
costituzionale, ovvero dello Stato costituzionale di diritto, fondato su
Costituzioni rigide, quale si è affermato in Europa dopo gli orrori della
seconda guerra mondiale, come antidoto alle possibili cadute liberticide e
vessatorie del diritto positivo e come invalidazione delle sue insufficienze e
inadempienze in ordine alla realizzazione dei diritti umani fondamentali e
della piena dignità delle persone.
In
questo paradigma il diritto non solo deve essere valido quanto alle forme della
sua produzione, ma deve essere legittimo quanto alla sostanza delle sue
prescrizioni, che devono essere conformi ai principi e ai diritti fondamentali
stabiliti in Costituzioni rigide che a tale scopo pongono vincoli e limiti
sostanziali al potere e istituiscono sfere di intangibilità dei diritti (la
“sfera del non decidibile”) di cui nemmeno le maggioranze possono disporre.
Habermas ha descritto questa situazione come quella per cui “la morale non sia
più sospesa in aria al di sopra del diritto, così come suggerisce la
costruzione del diritto di natura nei termini di un insieme sopra-positivo di
norme; adesso la morale si introduce nel cuore stesso del diritto positivo”: ma
la realtà è andata ancora più avanti: ciò che è entrato nel diritto positivo
non è “la morale” intesa come complesso precostituito ed unico di principi e
norme (che come tale non esiste in natura, tanto più in società pluralistiche)
ma è un insieme di valori diritti e doveri maturati ed espressi dalla coscienza
degli uomini e dalle loro lotte ed esperienze storiche che hanno via via
portato a sottoporre alla cogenza del diritto costituzionale quelle moderne
istanze di giustizia, di eguaglianza, di libertà, di pace, di dignità delle
persone e dei popoli che papa Giovanni nella “Pacem in terris” consacrava come “segni dei tempi” e riconosceva
come conquiste umane sorgenti dal basso e nello stesso tempo rispondenti alle
attese di Dio.
Nel paradigma dello Stato
costituzionale di diritto le moderne Antigone (e quindi le Chiese, l’Islam,
l’ebraismo, i movimenti di rinnovamento sociale e politico) conservano la loro
identità quali portatrici di un punto di vista morale e politico indipendente,
critico e progettuale nei confronti del diritto vigente, incluse le Costituzioni,
nella prospettiva che sempre più possa ridursi il divario tra il diritto e il
senso di giustizia che matura nella coscienza dei popoli.
Per questo la Chiesa, se
vuole riprendere la sua missione e il suo magistero morale, senza essere
tarpata da arcaismi ed equivoci anche di linguaggio, dovrebbe evitare di usare
locuzioni come “legge naturale” o “diritto naturale” che appartengono ad altre
fasi della storia della cultura e della storia delle religioni. Dovrebbe invece
cogliere l’avanzamento realizzato dal costituzionalismo rispetto al vecchio
positivismo giuridico, riconoscerlo come un “segno dei tempi”, e porsi nei
confronti del travaglio del diritto non come portatrice di un’altra “legge”,
naturale o divina che sia chiamata, ma come portatrice, di fronte al diritto,
della inesauribile istanza di novità del Vangelo. È così del resto che sono
stati ripudiati come ingiusti, nella Chiesa, istituti considerati un tempo
conformi al diritto naturale come ad esempio la schiavitù, la guerra giusta e la
pena di morte. E tanto meno si dovrebbe parlare di “legge naturale” quando oggi
viene considerata come una “legge di natura” l’ideologia in base a cui funziona
l’attuale economia capitalista, compresa la teoria della “ricaduta
favorevole”, secondo la quale ogni crescita economica, sospinta dal libero
mercato, riuscirebbe a produrre di per
sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo, teoria respinta da papa
Francesco nella sua esortazione “Evangelii
gaudium”. È importante invece che la Chiesa mantenga il pungolo del suo
punto di vista esterno e critico nei riguardi del diritto positivo perché non
receda dalla tutela dei diritti universali garantiti per tutti.
L’indissolubilità dei due
universi, maschile e femminile
Per le medesime ragioni la
difesa e la promozione della famiglia non dovrebbe essere affidata alla
identificazione con la legge naturale dell’uno o dell’altro dei modelli di
famiglia storicamente esistenti. Ciò che sicuramente è dettato dalla natura – e
per i credenti corrispondente a un esplicito disegno divino – è l’unità
indivisibile dell’umanità tra i due universi da cui essa è costituita, quello
maschile e quello femminile, culminante nella riproduzione e nell’educazione
della specie. È questa l’alleanza che mai dovrà venir meno, è questo il primo
comandamento che si trova nel secondo capitolo del Genesi - “l’uomo abbandonerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” -
che non è una norma destinata a ogni singola coppia, quanto piuttosto lo statuto
antropologico fondamentale che reclama l’unità e indissolubilità tra le due
parti dell’unica famiglia umana, ben oltre la sessualità, e che perciò non
riguarda solo gli sposati, ma tutti, altrimenti ne sarebbero lasciati fuori
tutti i celibi, le nubili e le persone di vita consacrata.
Stabilito questo
fondamentale e universale dato di natura, le diverse forme di famiglia, dalle
più primitive alle più evolute, sono poi un prodotto della cultura, e quindi
della ragione della libertà e della coscienza degli uomini, comunque educate e
formate sia in senso religioso che laico: così erano storicamente datati il
tipo di famiglia descritto nella Bibbia in contesto maschilista e tribale, gli
istituti della poligamia e del ripudio, i differenti modelli adottati nel mondo
greco e romano come in altri contesti culturali e sociali; e così si spiega
come il cristianesimo, attraverso la conversione portata dal Nuovo Testamento,
abbia avanzato esigenze ulteriori rispetto a quelle di natura mondana cercando
di attrarre la famiglia verso forme sentite come eticamente e spiritualmente
più avanzate, a cominciare dalla monogamia, privilegiato oggetto di
predicazione della prima Chiesa.
Pertanto nei confronti
della legge civile positiva la Chiesa, incoraggiata dal Sinodo, dovrebbe
valorizzare quanto in essa consideri idealmente apprezzabile (come nelle norme
che vi fanno riferimento nella Costituzione italiana), mantenendo tuttavia
l’autonomia del proprio punto di vista esterno al diritto, per prospettare,
senza interferenze temporalistiche, quelle nuove frontiere che una sempre
migliore comprensione del Vangelo suggeriscono.
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