I testi che qui pubblichiamo sono
le risposte che la scuola di ricerca e critica delle antropologie, “Vasti”, che
è stata attiva a Roma nell’ultimo decennio, ha inviato in data 29 dicembre 2013
alla segreteria del Sinodo dei Vescovi, in riscontro al questionario sulla
famiglia inviato dallo stesso Sinodo a tutta la Chiesa. Le risposte vertono su
due temi cruciali che saranno oggetto della discussione del prossimo Sinodo
straordinario, previsto per l’ottobre prossimo. Il primo tema riguarda il
rapporto tra legge naturale, legge positiva e Vangelo, e il secondo affronta la
questione dei sacramenti ai divorziati risposati. Le risposte sono state
elaborate con la collaborazione del prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo
del diritto, e del prof. don Giovanni Cereti, teologo e studioso della Chiesa
primitiva, in seguito alla consultazione che su questi temi è stata promossa da
papa Francesco sia tra i cattolici che tra i non credenti.
A - DIRITTO
NATURALE, DIRITTO COSTITUZIONALE E FAMIGLIA
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei
vescovi:
2 - Sul matrimonio secondo la legge
naturale
a) Quale posto occupa il concetto di legge naturale
nella cultura civile, sia a livello istituzionale, educativo e accademico, sia
a livello popolare? Quali visioni dell’antropologia sono sottese a questo
dibattito sul fondamento naturale della famiglia?
b) Il concetto di legge naturale in relazione
all’unione tra l’uomo e la donna è comunemente accettato in quanto tale da
parte dei battezzati in generale?
c) Come viene contestata nella prassi e nella
teoria la legge naturale sull’unione tra l’uomo e la donna in vista della
formazione di una famiglia? Come viene proposta e approfondita negli organismi
civili ed ecclesiali?
d) Se richiedono la celebrazione del matrimonio
battezzati non praticanti o che si dichiarino non credenti, come affrontare le
sfide pastorali che ne conseguono?
Risposta
alle domande 2a 2b 2c 2d.
La
questione della legge naturale - o diritto naturale – è una delle questioni più
gravi e decisive che la Chiesa si trova davanti se vuole rispondere alla
necessità, affermata da Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio
Vaticano II e dal Concilio stesso, di enunciare i contenuti perenni della fede
nei modi che la nostra età esige (ea
ratione quam tempora postulant nostra), cioè secondo “le forme della
indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.
Riguardo
alla questione cruciale del diritto e del rapporto tra legge e Vangelo, questa
esigenza non può risolversi in un “aggiornamento” di pura cosmesi.
Ora
la formula “legge naturale” (o diritto naturale) ha presso gli uomini e la
cultura di oggi un significato diverso da quello che essa aveva presso gli
antichi, e quindi un dialogo della Chiesa con l’età moderna che utilizzi questa
formula è destinato alla più radicale incomprensione reciproca.
I limiti del
giusnaturalismo
Il
diritto naturale appartiene a una
prima fase della storia del diritto quando, mancando una legislazione fornita
di autorità e comunemente riconosciuta, il criterio di riconoscimento di ciò
che fosse diritto stava in ciò che gli uomini stessi sentissero come giusto e
corrispondesse a una verità o razionalità derivanti da un ordine di natura. È
questa l’esperienza del nomos greco,
del diritto romano e poi del diritto comune.
In
questa esperienza millenaria diritto e morale finivano per coincidere, e le
norme erano dedotte da un ordine esterno al diritto, supposto come oggettivo e
come vero (“naturale”, appunto) e quindi, come tale, acquisibile alla
conoscenza.
Di
fatto però questa fase del diritto era aperta alle più gravi ingiustizie per
l’arbitrarietà e il relativismo con cui la presunta giustizia era interpretata
e nei più diversi modi applicata.
Inoltre,
in un contesto culturale in cui la diseguaglianza, il diritto del più forte, la
superiorità dell’uomo sulla donna erano considerati normali e secondo natura,
la legge naturale ha potuto essere usata come fonte di legittimazione e
consacrazione di un diritto positivo che si andava costruendo in modo da
riprodurre e perpetuare rapporti di diseguaglianza, di discriminazione tra le
persone e di sottomissione della donna; nei confronti di questa, in
particolare, per secoli il diritto positivo ha assunto una posizione di netto
sfavore, non senza il supporto di riferimenti culturali, morali e biblici,
trasfusi in una legge naturale oggettivizzata e assolutizzata; pericolo che non
è venuto meno neanche oggi.
I limiti del
giuspositivismo
La
seconda fase è quella del diritto
positivo, per il quale è diritto non ciò che di volta in volta è
considerato giusto (secondo l’opinione di Gaio piuttosto che secondo quella di
Ulpiano e così via), ma ciò che è sancito da un’autorità legittima ed ha
certezza e validità per tutti. Qui a prevalere in ciò che istituisce la legge
non è un principio astratto e inafferrabile di “verità” o di giustizia, ma
l’autorità del legislatore (“Auctoritas
non veritas facit legem”, secondo la massima di Hobbes). È questa
l’esperienza di tutti gli Stati moderni di diritto.
Nel
modello del diritto positivo o giuspositivismo la possibile ingiustizia delle
norme è il prezzo che viene pagato ai valori della certezza del diritto,
dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge, della libertà contro l’arbitrio e
della soggezione dei giudici alla legge. In questo modello non viene meno il
riferimento a istanze morali, a valori religiosi etici o politici, comunque
attinti e professati nelle diverse culture, ma essi restano come punto di vista
esterno al diritto, con cui il diritto stesso viene giudicato ed anche
sollecitato ad evolversi e a cambiare. Grazie a questa autonomia del punto di
vista esterno rispetto al diritto ha potuto darsi la dialettica e anzi la
contraddizione tra Antigone e Creonte che ha illuminato tutta la storia
dell’Occidente, e bandiere ideali sempre più esigenti possono essere agitate da
liberi soggetti davanti al legislatore. In questo senso ciò che un giorno
veniva chiamato “diritto naturale” non è più “il diritto eterno che scorre nel
tempo”, come lo definiva Giovan Battista Vico, ma è l’istanza di una sempre
maggiore crescita in umanità che i soggetti storici si sforzano, anche mediante
il diritto, di realizzare nel tempo.
Tuttavia
la legislazione positiva, di cui il potere resta l’unico artefice ed arbitro,
può cadere nelle più gravi ingiustizie, come accade quando si pone a presidio
di ordinamenti economico-sociali di esclusione, e come è accaduto quando è
giunta alle aberrazioni dei totalitarismi del XX secolo; questa caduta del diritto
positivo nell’ingiustizia può avvenire anche ad opera di maggioranze legittime,
formalmente democratiche; è questa la ragione dello scetticismo e della critica
al diritto prodotto anche dagli Stati democratici, dalle loro maggioranze e dai
loro partiti, nel discorso che nel 2008 Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere
all’università “La Sapienza” di Roma.
La nuova realtà del
costituzionalismo
Ma
ora ci troviamo in una terza fase della storia del diritto e dell’umanità
stessa, ed è quella della democrazia costituzionale,
ovvero dello Stato costituzionale di diritto, fondato su Costituzioni rigide,
quale si è affermato in Europa dopo gli orrori della seconda guerra mondiale,
come antidoto alle possibili cadute liberticide e vessatorie del diritto
positivo e come invalidazione delle sue insufficienze e inadempienze in ordine
alla realizzazione dei diritti umani fondamentali e della piena dignità delle
persone.
In
questo paradigma il diritto non solo deve essere valido quanto alle forme della
sua produzione, ma deve essere legittimo quanto alla sostanza delle sue
prescrizioni, che devono essere conformi ai principi e ai diritti fondamentali
stabiliti in Costituzioni rigide che a tale scopo pongono vincoli e limiti
sostanziali al potere e istituiscono sfere di intangibilità dei diritti (la
“sfera del non decidibile”) di cui nemmeno le maggioranze possono disporre.
Habermas ha descritto questa situazione come quella per cui “la morale non sia
più sospesa in aria al di sopra del diritto, così come suggerisce la costruzione
del diritto di natura nei termini di un insieme sopra-positivo di norme; adesso
la morale si introduce nel cuore stesso del diritto positivo”: ma la realtà è
andata ancora più avanti: ciò che è entrato nel diritto positivo non è “la
morale” intesa come complesso precostituito ed unico di principi e norme (che
come tale non esiste in natura, tanto più in società pluralistiche) ma è un
insieme di valori diritti e doveri maturati ed espressi dalla coscienza degli
uomini e dalle loro lotte ed esperienze storiche che hanno via via portato a
sottoporre alla cogenza del diritto costituzionale quelle moderne istanze di
giustizia, di eguaglianza, di libertà, di pace, di dignità delle persone e dei
popoli che papa Giovanni nella “Pacem in
terris” consacrava come “segni dei tempi” e riconosceva come conquiste
umane sorgenti dal basso e nello stesso tempo rispondenti alle attese di Dio.
Questa
è l’esperienza, oggi non a caso combattuta dai fautori del vecchio regime, dei
popoli che cercano di spingere il diritto verso più alte mete di realizzazione
umana e sociale, come soprattutto oggi è dato vedere in America Latina; e ciò
non abolendo il diritto ma mettendolo sotto tensione per attuazioni nuove.
I tre successivi
superamenti nella storia della religione
È
molto significativo notare che queste tre fasi della storia del diritto
corrispondono in qualche modo a tre fasi della storia religiosa
giudeo-cristiana (o “storia della salvezza” come la chiamavano i Padri). C’è
stato infatti un periodo iniziale, precedente ad Abramo, in cui gli esseri
umani, come dice Paolo nella lettera ai Romani, avrebbero avuto di che poter
vivere secondo verità e giustizia
poiché “dalla creazione del mondo in poi” ciò che di Dio si può conoscere
era a loro manifesto (Rom. 1, 19); e anche dopo l’instaurazione della legge
mosaica eteronoma i pagani, rimasti al di fuori di quella legge, dimostravano
che “quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla
testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti” (Rom. 2,
14-15), vale a dire che potevano far riferimento a una legge naturale racchiusa
dentro di loro. C’è poi stata l’esperienza della legge mosaica, legge positiva
e scritta, che traeva la sua fonte di legittimazione dall’autorità di Dio che
l’aveva data al popolo d’Israele, e che perciò non poteva che ritenersi giusta.
E poi è sopraggiunta l’esperienza di una terza fase della storia biblica, dopo
che sul positivismo della legge di Mosè ha fatto irruzione il vaglio critico
del Vangelo, che mette ogni legge scritta, compresa quella mosaica, in crisi e
in tensione verso la pienezza di un’umanità pensata secondo il cuore di Dio. La
“Costituzione” cristiana è infatti il Vangelo.
Verso la
composizione del conflitto tra Antigone e Creonte
Nella
società secolare l’avvento del costituzionalismo tende a sanare l’antico
conflitto tra Antigone e Creonte. Infatti nelle odierne Costituzioni, con la
positivizzazione della “legge della ragione”, i principi di giustizia storicamente affermatisi
attraverso le lotte degli oppressi vengono messi alla base dell’ordinamento; e
i diritti universali, riconosciuti e imputati a tutti sulla base
dell’uguaglianza, vengono messi al riparo delle maggioranze e resi
indisponibili al potere. Ciò viene ottenuto attraverso una tecnica volta precisamente
a tutelare i deboli contro i potenti, mediante l’imposizione di limiti e
vincoli alla “legge della volontà” espressa dai poteri anche democratici.
In questo senso il costituzionalismo corregge e completa il
positivismo giuridico attraverso norme che sono di rango superiore alla
legislazione, come avviene nel nostro modello costituzionale.
Non per questo viene meno
la separazione tra diritto e morale, tra religione e diritto, che l’età moderna
ha acquisito ed a cui non intende rinunciare; essa del resto è coerente al
principio ormai affermato della libertà religiosa e corrisponde a un altissimo
interesse cristiano, che è da un lato quello di preservare l’autonomia della
Chiesa nel presentarsi come “punto di vista esterno” per l’avanzamento del diritto
e dall’altro è quello di attendersi che possa venir meno l’intreccio
storicamente così rischioso tra Islam e legge civile nella “umma” islamica e
tra sionismo e Stato nello Stato di Israele.
Nel paradigma dello Stato
costituzionale di diritto le moderne Antigone (e quindi le Chiese, l’Islam,
l’ebraismo, i movimenti di rinnovamento sociale e politico) conservano la loro
identità quali portatrici di un punto di vista morale e politico indipendente,
critico e progettuale nei confronti del diritto vigente, incluso il suo
contingente dover essere costituzionale, nella prospettiva che sempre più possa
ridursi il divario tra il diritto e il senso di giustizia che matura nella
coscienza dei popoli.
Legge e Vangelo
Per questo la Chiesa, se
vuole riprendere la sua missione e il suo magistero morale, senza essere
tarpata da arcaismi ed equivoci anche di linguaggio, dovrebbe evitare di usare
locuzioni come “legge naturale” o “diritto naturale” che appartengono ad altre
fasi della storia della cultura e della storia delle religioni. Dovrebbe invece
cogliere l’avanzamento realizzato dal costituzionalismo rispetto al vecchio
positivismo giuridico, riconoscerlo come un “segno dei tempi”, e porsi nei
confronti del travaglio del diritto non come portatrice di un’altra “legge”,
naturale o divina che sia chiamata, ma come portatrice, di fronte al diritto,
della inesauribile istanza di novità del Vangelo. È così del resto che sono
stati ripudiati come ingiusti, nella Chiesa, istituti considerati un tempo
conformi al diritto naturale come ad esempio la schiavitù, la guerra giusta e
la pena di morte. E tanto meno si dovrebbe parlare di “legge naturale” quando
oggi viene considerata come una “legge di natura” l’ideologia in base a cui
funziona l’attuale economia capitalista, compresa la teoria della
“ricaduta favorevole”, secondo la quale ogni crescita economica, sospinta dal
libero mercato, riuscirebbe a
produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo, teoria
respinta da papa Francesco nella sua esortazione “Evangelii gaudium”. Si verifica anzi il contrario, perché la
maggiore libertà garantita dai diritti costituzionali spesso si può tradurre in
un maggior potere lasciato al mercato, e quindi in una ripresa di rapporti di
diseguaglianza. C’è infatti uno sviamento portato dal liberalismo e dallo Stato
moderno, che hanno procurato di liberare l’uomo ma non la donna, e che anzi
hanno scatenato i poteri privati nella triplice dimensione della casa, dell’impresa
e del mercato aprendo spazi a nuove ingiustizie a carico delle donne, dei
lavoratori e dei cittadini. Tanto più importante è dunque che la Chiesa, giunta
con l’attuale magistero pontificio alla piena consapevolezza delle devastazioni
provocate dal governo del denaro e dall’idolatria del mercato, mantenga il
pungolo del suo punto di vista esterno e critico nei riguardi del diritto
positivo perché non receda dalla tutela dei diritti universali garantiti per
tutti.
L’unità indivisibile dell’umanità
maschile e femminile
Per le medesime ragioni la
difesa e la promozione della famiglia non dovrebbe essere affidata alla
identificazione con la legge naturale dell’uno o dell’altro dei modelli di
famiglia storicamente esistenti. Ciò che sicuramente è dettato dalla natura – e
per i credenti corrispondente a un esplicito disegno divino – è l’unità
indivisibile dell’umanità tra i due universi da cui essa è costituita, quello
maschile e quello femminile, culminante nella riproduzione e nell’educazione
della specie. È questa l’alleanza che mai dovrà venir meno, è questo il primo
comandamento che si trova nel secondo capitolo del Genesi - “l’uomo abbandonerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” -
che non è una norma destinata a ogni singola coppia, quanto piuttosto lo
statuto antropologico fondamentale che reclama l’unità e indissolubilità tra le
due parti dell’unica famiglia umana, ben oltre la sessualità, e che perciò non
riguarda solo gli sposati, ma tutti, altrimenti ne sarebbero lasciati fuori
tutti i celibi, le nubili e le persone di vita consacrata.
Stabilito questo
fondamentale e universale dato di natura, le diverse forme di famiglia, dalle
più primitive alle più evolute, sono poi un prodotto della cultura, e quindi
della ragione della libertà e della coscienza degli uomini, comunque educate e
formate sia in senso religioso che laico. Certamente era un prodotto della
cultura del tempo la famiglia descritta nella Bibbia corrispondente
all’organizzazione sociale del popolo d’Israele in tribù, clan e famiglie;
certamente dipendente da culture arcaiche era il rapporto gerarchico
incondizionatamente maschilista che vi era istituito tra uomo e donna, o il
fatto che nella stessa legge mosaica fossero statuiti la poligamia e il
ripudio. La non rintracciabilità di un unico modello “naturale” di famiglia
spiega anche le differenti forme adottate nel mondo greco e romano come in
altri contesti culturali e sociali, e spiega come il cristianesimo, attraverso
la conversione portata dal Nuovo Testamento, abbia avanzato esigenze ulteriori
rispetto a quelle di natura mondana cercando di attrarre la famiglia verso
forme sentite come eticamente e spiritualmente più avanzate, a cominciare dalla
monogamia, privilegiato oggetto di predicazione della prima Chiesa.
Pertanto nei confronti
della legge civile positiva la Chiesa dovrebbe a nostro parere valorizzare
quanto in essa consideri idealmente apprezzabile (come nelle norme che vi fanno
riferimento nella Costituzione italiana), mantenendo tuttavia l’autonomia del
proprio punto di vista esterno al diritto, per prospettare, senza interferenze
temporalistiche, quelle nuove frontiere che una sempre migliore comprensione
del Vangelo suggeriscono.
La stessa metodologia di
una distinzione tra quanto nel rapporto uomo-donna e nell’istituto storicamente
dato della famiglia deriva dalla cosiddetta legge di natura e dal mandato
divino, e quanto deriva dalla cultura e dal diritto del tempo, dovrebbe essere
osservato per quanto riguarda le determinazioni che la Chiesa deve prendere sul
piano pastorale, senza tagliare i ponti con culture ed esperienze che
contemplano forme di famiglia diverse rispetto a quelle finora ritenute “non
negoziabili”.
Relatori
Raniero La Valle, direttore di “Vasti”[1], prof. Luigi Ferrajoli, teorico e filosofo
del diritto[2].
(Testo discusso e approvato il 28 dicembre 2013 nel
Seminario Straordinario di “Vasti, che cos’è umano?” - Scuola di ricerca e
critica delle antropologie - per essere trasmesso al Sinodo dei Vescovi. La
prima parte del Seminario, prima dell’esame del documento, è stata dedicata a
una riflessione di Innocenzo Gargano, camaldolese, sul valore del dialogo e del
“dare la parola”).
B –
SEPARATI, DIVORZIATI RISPOSATI E COMUNIONE ECCLESIALE
Dalle domande per il Sinodo straordinario dei
vescovi:
4 - Sulla pastorale per far fronte ad
alcune situazioni matrimoniali difficili
c) I
separati e i divorziati risposati sono una realtà pastorale rilevante nella
Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente?
Come si fa fronte a questa realtà attraverso programmi pastorali adatti?
d) In tutti
questi casi: come vivono i battezzati la loro irregolarità? Ne sono
consapevoli? Manifestano semplicemente indifferenza? Si sentono emarginati e
vivono con sofferenza l’impossibilità di ricevere i sacramenti?
e) Quali
sono le richieste che le persone divorziate e risposate rivolgono alla Chiesa a
proposito dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione? Tra le
persone che si trovano in queste situazioni, quante chiedono questi sacramenti?
f) Lo
snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della
dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale potrebbe offrire un reale
contributo positivo alla soluzione delle problematiche delle persone coinvolte?
Se sì, in quali forme?
Risposta
alle domande 4c 4d 4e 4f
La comunità
cristiana dei nostri giorni soffre indicibilmente per il grande numero di
fallimenti di matrimonio così come per l’abbandono della Chiesa e spesso della
fede da parte di tante persone che vivendo nella speranza di un nuovo inizio
rifiutano la rigidità della Chiesa cattolica di fronte a questo problema.
Il
moltiplicarsi dei fallimenti di matrimonio nell’epoca contemporanea è legato a
molteplici fattori, fra cui la maggiore durata della vita umana, una nuova
parità fra i sessi che non ammette certe sudditanze del passato, l’ambiente
secolarizzato nel quale l’insegnamento della stessa Chiesa è meno seguito, e
forse anche l’eccessiva attesa di una felicità da ritrovare nel matrimonio che
porta a rifiutare i sacrifici necessariamente connessi alla vita coniugale.
Nella ricerca
di una soluzione al problema della posizione nella Chiesa dei divorziati
risposati è progressivamente venuta meno la convinzione circa l’esistenza di un
“vincolo ontologico” e quindi indistruttibile creato dal sacramento del
matrimonio: in realtà, se il segno del sacramento del matrimonio è l’amore
degli sposi e la loro volontà di essere marito e moglie, una volta venuto a
mancare questo amore e questa intenzione è possibile pensare che, analogamente
a quanto succede per l’eucaristia nella quale la presenza reale cessa quando il
segno e cioè le specie sono corrotte, il venir meno del segno sacramentale (sia
pure con grave responsabilità degli sposi) fa venire meno anche il sacramento.
Ma come
superare la difficoltà che nasce dalla convinzione che la Chiesa non ha mai
riconosciuto possibile lo scioglimento di un matrimonio valido, che non ha mai
concesso un nuovo matrimonio mentre perdura quello precedente (accettando che
il re Enrico VIII separasse la Chiesa del suo regno dalla comunione con Roma
pur di non venir meno a questa convinzione), e che l’istituto dei tribunali
matrimoniali con la verifica dell’esistenza o meno della validità di un
matrimonio sarebbe sufficiente per affrontare adeguatamente il problema?
La via
privilegiata per superare tale difficoltà è il riferimento alla prassi della
comunità cristiana dei primi secoli, perché ad essa ritiene di ispirarsi anche
la Chiesa ortodossa che invece concede la possibilità di un nuovo inizio a
coloro che sono venuti meno al proprio impegno coniugale e che desiderano
entrare in una nuova unione riconosciuta dalla Chiesa.
La monogamia nelle prime comunità cristiane
In effetti la
comunità cristiana dei primi secoli difese il valore del matrimonio contro ogni
forma di rigorismo che lo negava, ma nello stesso tempo non si stancava di
predicare la monogamia assoluta fatta discendere dall’insegnamento di Gesù
secondo il quale “Ciò che Dio ha unito,
l’uomo non deve separare” (Mt 19,6). L’ideale testimoniato dai discepoli di
Gesù era quello di un unico matrimonio per ogni persona, ideale determinato
anche dalla prospettiva escatologica per la quale si attendeva come imminente
la seconda venuta del Signore. Questa scelta a favore dell’unico matrimonio escludeva in linea di principio la possibilità
di seconde nozze anche dopo la morte del coniuge.
La
convinzione della primissima comunità era anche che il discepolo di Cristo una
volta battezzato e divenuto una nuova creatura non doveva e non poteva peccare.
Poiché tuttavia ci si dovette ben presto arrendere al fatto che il peccato
continuava a essere presente fra i battezzati, si pose il problema dell’esistenza
o meno di “una seconda tavola di salvezza
dopo il battesimo”. La Chiesa prese così gradatamente coscienza del potere
affidatole da Cristo di assolvere i peccati e di riconciliare i peccatori, e
questa riconciliazione avvenne nel corso dei primi secoli per i peccati gravi
attraverso la penitenza pubblica, alla quale si poteva essere sottoposti una
sola volta nella vita.
Sin dove si
poteva però spingere il potere della Chiesa di assolvere i peccati? Mentre la
grande Chiesa rimase sempre convinta di poter assolvere tutti i peccati, anche
i più gravi, i Novaziani (o “Catari”,
“i puri”) eresia sorta a Roma intorno al 250, ad opera di Novaziano, in epoca
di persecuzioni, affermavano che vi erano tre peccati considerati da sempre
come i più gravi che non potevano essere assolti se non sul letto di morte, e
cioè l’apostasia sotto la persecuzione (i ‘lapsi’),
l’omicidio e l’adulterio.
Nella controversia
novaziana, dell’omicidio non si fa quasi mai menzione, come un peccato fortunatamente
assente nella comunità cristiana. Quanto all’adulterio, secondo la
testimonianza dei Padri esso veniva inteso non come una infedeltà occasionale
ma nel senso preciso dell’evangelo: “Colui
che ripudia il proprio coniuge e ne prende un altro, è adultero; la persona
ripudiata o divorziata che si risposa è adultera; colui che sposa una persona
ripudiata o divorziata è adultero” (cf. Mt 5, 32; 19, 2-9; Mc 10, 1-12; Lc
16,18) [3].
Un tale
peccato di adulterio, per quanto considerato gravissimo al punto di essere
parificato all’apostasia e all’omicidio, secondo la grande Chiesa (e cioè la
Chiesa ‘cattolica e apostolica’) poteva essere assolto, per cui coloro che dopo
un anno o più di esclusione dall’eucaristia e di sottomissione alla penitenza
venivano riconciliati, erano riammessi nella comunità e potevano accedere alla
comunione pur restando nel nuovo matrimonio. E bisogna notare che quando si
parla di matrimonio, si intende il matrimonio contratto secondo gli usi e le
leggi civili, dato che all’epoca non esisteva ancora un matrimonio amministrato
dalla Chiesa, che si affermerà gradualmente nei secoli successivi fino a quando
diverrà un vero e proprio sacramento col Concilio di Trento.
Per Nicea è eretico chi non accetta la
comunione con chi si è sposato la seconda volta
Le
testimonianze dei padri della Chiesa che possono essere portate a sostegno di
questa interpretazione della prassi dell’epoca sono innumerevoli, ma decisiva
per il suo valore magisteriale è l’affermazione contenuta nel canone 8 del
concilio di Nicea. Questo canone, nella sua prima parte che sola ci interessa,
suona così in una traduzione italiana:
VIII – Dei
cosiddetti càtari
A proposito di coloro che si autodefiniscono
i càtari (cioè i puri), ma che vogliono entrare nella comunione della Chiesa
cattolica e apostolica, è parso bene al santo e grande concilio che essi,
ricevuta l’imposizione delle mani, possano senz’altro restare nel clero.
Tuttavia, prima di tutto, è necessario che essi dichiarino apertamente, per
iscritto, di accettare gli insegnamenti (dogmasi)
della Chiesa cattolica e di farne la regola della loro condotta, cioè di avere
comunione (di essere in comunione, di ammettere alla comunione:
koinonein) e con chi si è sposato
per la seconda volta (digamois) e
con chi è venuto meno (ha rinunciato alla fede) durante la persecuzione, ai quali tuttavia il tempo (della
penitenza) è stato stabilito e il momento
(della riconciliazione) è arrivato.
Essi saranno dunque tenuti a seguire in ogni cosa gli insegnamenti della Chiesa
cattolica e apostolica...
Di questo
canone l’autenticità non viene oggi messa in dubbio, come conferma il fatto che
è contenuto in tutte le collezioni di canoni degli antichi concili. Esso è
stato emanato per regolare la condizione dei càtari, e cioè dei ‘puri’
(termine con il quale venivano indicati all’epoca i novaziani), e anzi più
specificatamente la condizione del clero novaziano che desiderava essere
(ri)ammesso nei ranghi del clero della grande Chiesa (dopo alcune disposizioni
restrittive nei confronti degli eretici emanate da Costantino), come appare dal
seguito del canone che parla di vescovi e preti. Essi possono essere accolti
nel clero della Chiesa cattolica, una volta imposte loro le mani, a condizione
che accettino per scritto di conformarsi teoricamente e praticamente ai suoi
insegnamenti. L’unico “dogma” che viene chiesto di sottoscrivere è quello che
veniva appunto contestato dai novaziani: essi devono accettare di fare ciò che
fa la Chiesa cattolica e cioè di avere comunione (o di ammettere alla propria
comunione, sia nella vita cristiana in generale, sia specificatamente
nell’Eucaristia) con due categorie di persone, una volta che per esse è
compiuto il tempo della penitenza pubblica e il momento della riconciliazione è
arrivato. Queste due categorie di persone sono coloro che vivono in seconde
nozze (digamoi) e coloro che sono
venuti meno nella persecuzione (i cosiddetti lapsi).
Non solo i vedovi risposati ma i risposati dopo un divorzio
Chi sono però
questi digamoi, queste persone che
sono entrate in un secondo matrimonio, che vivono in seconde nozze? Secondo
un’interpretazione che si è imposta nella Chiesa latina a partire dall’epoca
medievale, in conformità a un’epoca di cristianità nella quale l’unico
matrimonio esistente era quello celebrato in Chiesa e la legge non prevedeva né
divorzio né nuovo matrimonio, i digamoi sarebbero semplicemente i vedovi
risposati. Invece, secondo l’interpretazione che appare più conforme alla
situazione esistente nella Chiesa antica e che è stata poi sempre seguita nella
Chiesa ortodossa, sono tutti coloro che sono entrati in un secondo matrimonio
(tanto che siano vedovi quanto che siano divorziati, e forse soprattutto questi
ultimi, compresi coloro che hanno sposato una persona già unita con altri in
prime nozze).
Per quanto il
termine digami sia stato usato quasi
incidentalmente, in quanto l’interesse centrale di questo canone riguarda il
mantenimento o la riammissione nel ministero del clero novaziano che vuole
(ri)entrare a far parte del clero della Chiesa cattolica, esso ha una
straordinaria importanza: infatti il concilio dà qui per scontato che sia ben
conosciuto l’insegnamento della Chiesa cattolica che ammette i digami alla penitenza e quindi alla
comunione ed esige che esso sia
riconosciuto e accettato anche dai novaziani.
Seguendo le
regole classiche dell’interpretazione dei testi dottrinali del passato,
cerchiamo pertanto di capire che cosa viene indicato esattamente con il termine
digami.
Sul piano filologico, il termine greco digamoi indica tutti coloro che vivono
in seconde nozze (e quindi sia dopo morte del coniuge, sia dopo ripudio o
divorzio).
Sul piano storico, non si può non riconoscere
che l’errore dei novaziani era proprio quello di escludere dalla comunione gli
apostati e gli adulteri: e con quest’ultimo termine non troviamo mai indicati
nelle testimonianze dell’epoca i vedovi risposati, ma proprio coloro che si
erano risposati dopo un ripudio o un divorzio, secondo le espressioni
dell’evangelo sopra richiamate.
Agli occhi di un cattolico di oggi sembra tuttavia impensabile che la Chiesa
dell’epoca concedesse l’assoluzione agli “adulteri”, e cioè ai divorziati
risposati, senza chiedere loro previamente di tornare al primo matrimonio o
almeno di vivere nella seconda unione “come fratello e sorella”. Una tale
difficoltà può essere risolta soltanto comprendendo quanto sia diversa la
mentalità della nostra epoca e quella dei primi secoli. Per gli antichi, il
peccato di “adulterio” consisteva proprio nell’avere posto fine alla prima
unione in maniera irreversibile, e il problema era pertanto quello di vivere
bene e fedelmente nella seconda unione. E di fatto, nel corso di tutti questi
secoli, non troviamo mai una testimonianza che suoni come un invito a lasciare
il nuovo coniuge e a tornare al primo coniuge.
Le prassi diverse
delle Chiese d’Oriente, d’Occidente e della comunione anglicana
Le decisioni del concilio di Nicea non sono prive di valore per la Chiesa di
oggi. I sette concili ecumenici riconosciuti concordemente come tali dalle
Chiese di Oriente e di Occidente e le loro decisioni hanno un valore
particolare per il fatto di avere avuto luogo all’epoca della Chiesa indivisa e
ad essi ci si richiama spesso nelle due Chiese. Fra questi concili una
particolare rilevanza hanno i primi quattro, e fra tutti il concilio di Nicea
ha un’autorità del tutto particolare.
Per questo
motivo, sul piano dogmatico, si può
dire che l’insegnamento di questo canone di Nicea relativamente all’obbligo per
un cristiano di riconoscere che la Chiesa
ha il potere di rimettere qualsiasi peccato, una volta che il peccatore si
è dimostrato pentito ed ha fatto penitenza, e quindi anche il peccato di essere
venuto meno al proprio patto coniugale e di essere entrato in maniera umanamente
irreversibile in una seconda unione, sembra pienamente valido anche per la Chiesa
cattolica di oggi. Proprio di fronte all’errore dei novaziani che non volevano riconoscere
alla Chiesa il potere di assolvere tutti i peccati, compresi “quelli che
conducono alla morte”, la Chiesa cattolica ha preso più chiaramente coscienza
del fatto che Cristo le ha affidato il potere di esercitare la misericordia nei
confronti di qualsiasi peccatore, pentito e deciso a iniziare una nuova vita
secondo i dettami del Signore.
Nel corso dei
secoli successivi, mentre la Chiesa d’Oriente ha continuato a seguire (sia pure
con molte sbavature) la prassi testimoniata dal concilio di Nicea, la Chiesa
d’Occidente ha conosciuto lo tsunami di quelle che in Italia chiamano “le
invasioni barbariche” e in Germania “le trasmigrazioni dei popoli”, che hanno
reso più difficile conoscere e conservare alcune tradizioni della Chiesa
antica. Gradatamente si è diffusa in Occidente la penitenza privata, e con essa
i “libri penitenziali”, mentre più tardi si sono costituiti i tribunali
ecclesiastici, attraverso i quali la Chiesa d’Occidente ha inteso operare per
il bene del matrimonio e della famiglia e esercitare la misericordia nei
confronti dei matrimoni falliti.
Oggi nella Chiesa
cattolica si è diffusa la prassi di venire incontro in molteplici modi alle
necessità spirituali dei divorziati risposati, anche con l’assoluzione
sacramentale, ma solo l’interpretazione che è stata data del canone 8 di Nicea
consente di offrire un fondamento di fede a una prassi penitenziale che non
appare altrimenti sufficientemente fondata sul piano dottrinale.
Sul piano pastorale infine, si deve
concludere che la Chiesa è chiamata a compiere una duplice missione: da una parte
quella di proclamare il disegno di Dio sul matrimonio e sulla famiglia e di far
conoscere la bellezza di un matrimonio riuscito, segno dell’amore di Dio per il
suo popolo e dell’amore del popolo per il Signore; e dall’altra quella di annunciare
la misericordia di Dio per coloro che non sono riusciti (con colpa o senza
colpa) a mantenere fede alla parola data nella celebrazione del loro
matrimonio. Per far risaltare tutto lo splendore del matrimonio è necessario
non difendere accanitamente quelle unioni che in quanto si sono concluse con un
fallimento non sono probabilmente “ciò che Dio ha unito”. Tanto più che la
rigidità della Chiesa cattolica nei confronti dei matrimoni falliti ha potuto
fra l’altro indurre molti giovani a temere di prendere un impegno per la vita e
a non consacrare più la propria unione con una celebrazione ecclesiale.
Per salvaguardare
la continuità della prassi della Chiesa cattolica, i tribunali ecclesiastici
potrebbero continuare a esistere (nei Paesi in cui essi sono stati costituiti)
per i casi più evidenti di nullità. Tuttavia il passaggio graduale a un sistema
penitenziale, forse davanti al tribunale sacramentale del vescovo, o forse
anche con una forma di penitenza pubblica trattandosi di un peccato conosciuto
dalla comunità, potrebbe manifestare meglio la misericordia e la compassione di
Dio nei confronti di coloro che hanno fallito, li potrebbe impegnare in un
cammino di conversione personale (del tutto assente con l’attuale sistema dei
tribunali ecclesiastici), e soprattutto potrebbe manifestare pienamente il
potere che la Chiesa ha ricevuto dal Signore di assolvere tutti i peccati,
anche i più gravi, e di poter concedere a tutti una nuova ripartenza.
La portata
non solo pastorale (per la pace e la serenità che potrebbe restituire a milioni
di cattolici molto spesso tentati di lasciare la Chiesa cattolica o comunque
disamorati nei suoi confronti) ma anche ecumenica di una tale soluzione non ha
bisogno di essere ricordata, essendo questa la soluzione conservata dalla
Chiesa orientale e adottata oggi anche dalla comunione anglicana (come ha
dimostrato l’assoluzione concessa dall’arcivescovo di Canterbury agli
“adulteri” Carlo e Camilla prima di procedere alla celebrazione del loro
matrimonio). La Chiesa è chiamata ad annunziare la lieta novella dell’evangelo
anche in campo matrimoniale, ma non può non manifestare la misericordia di Dio
nei confronti di quanti non hanno saputo o potuto mantenere la parola data
nella celebrazione del matrimonio: il Signore ha donato alla Chiesa il potere
di rimettere tutti i peccati e “Cristo ci
ha chiamati alla pace!” (1 Cor 7,15).
La
misericordia di Dio, di nuovo con tanta forza annunciata oggi nel magistero di
papa Francesco, è il criterio ultimo in base a cui devono prendersi le
decisioni pastorali della Chiesa. È questa anche la ragione addotta da Epifanio
di Salamina, nel IV secolo, per motivare il comportamento della Chiesa
primitiva nei riguardi dei divorziati risposati: Dio “nella mano ha la vita, e
la salvezza e l’amore per gli uomini. E perché egli mai agisca così a lui solo
è noto”; mentre “i puri” che “si vantano di rifiutare coloro che vivono in
seconde nozze”, rendono “crudele e inumano Iddio”.
Relatore prof. don Giovanni
Cereti, teologo [4].
(Testo discusso e approvato il 28 dicembre 2013 nel
Seminario Straordinario di “Vasti, che cos’è umano?” - Scuola di ricerca e
critica delle antropologie - per essere trasmesso al Sinodo dei Vescovi. La
prima parte del Seminario, prima dell’esame del documento, è stata dedicata a
una riflessione di Innocenzo Gargano, camaldolese, sul valore del dialogo e del
“dare la parola”).
Roma, 29 dicembre 2013, festa della Santa Famiglia
[1] Raniero La
Valle è stato direttore de “L’Avvenire d’Italia” durante il Concilio Ecumenico
Vaticano II.
[2] Luigi
Ferrajoli insegna Filosofia del diritto e Teoria generale del diritto
all’Università Roma Tre. Tra i suoi libri, tutti tradotti in più lingue: “La
cultura giuridica nell’Italia del Novecento” (Roma-Bari 1999); La sovranità nel
mondo moderno” (2004); “Diritti fondamentali. Un dibattito teorico (a cura di
E: Vitale, 2008); “Poteri selvaggi, la crisi della democrazia italiana” (2011);
“Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale” (2011); “Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia” (3 voll.:
I. teoria del diritto; 2. Teoria della democrazia; 3. La sintassi del diritto,
2007-2012); “La democrazia attraverso i diritti” (2013).
[3] Cfr.
Giovanni Cereti, Divorzio, nuove nozze e
penitenza nella Chiesa primitiva, Terza edizione, Aracne, Roma, 2013.
[4] Dottore in
teologia dogmatica dal 1981, don Giovanni Cereti ha tenuto corsi di teologia
ecumenica in diverse facoltà ecclesiastiche, tra cui il Marianum di Roma,
l’Istituto di studi ecumenici di Venezia e la Pontificia facoltà teologica di
Sicilia. Tra le pubblicazioni: “Riforma della Chiesa e unità dei cristiani
nell’insegmaneto del Concilio Vaticano II” (Verona 1985, 2012), “Molte chiese
cristiane, un’unica chiesa di Cristo” (Brescia 1992), “Le chiese cristiane di
fronte al papato” (Bologna, 2006), “Pagare le tasse. Solidarietà e
condivisione” (Assisi, 2010).
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