giovedì 3 febbraio 2022

 


IL SEGRETO



La rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica, che ha suscitato un generale consenso, può tuttavia prestarsi a manovre di sovvertimento costituzionale che è necessario fronteggiare. La prima consiste nella delegittimazione dell’attuale sistema per l’elezione del capo dello Stato che invece si è dimostrato validissimo. Esso è giunto al risultato in soli cinque giorni, fortemente rallentati peraltro dalla pandemia che ha costretto alla rarefazione del voto. Ha anche efficacemente fermato la corsa di candidature del tutto inappropriate: prima di tutto l’autocandidatura di Berlusconi che la procedura di tipo parlamentare rendeva irrealistica ma che una procedura plebiscitaria attraverso un voto popolare avrebbe invece reso possibile; allo stesso modo un’elezione popolare avrebbe reso plausibile il falsissimo argomento di una dovuta alternanza tra “presidente di sinistra” e “presidente di destra”, aprendo la strada ai Trump e ai Goldwater di turno. Si è pure confermata la validità del sistema parlamentare integrato dalle rappresentanze regionali che prevede come salutare il formarsi di maggioranze diverse per le elezioni al Parlamento e quella al Quirinale mediante la intenzionale esclusione della sincronia tra esse, con evidente vantaggio per la divisione e il reciproco controllo dei poteri. Il risvolto negativo è semmai che il raddoppio di un lungo settennato possa portare con sé un’errata percezione di un rapporto di necessità tra il destino di una persona e il destino del Paese, con l’idea sullo sfondo dell’Uomo della Provvidenza o dell’uomo solo (e non certo della donna!) al comando.
Né vale l’argomento che i social e le maratone televisive  polarizzino oggi l’attenzione dell’opinione pubblica sui palazzi del potere, come settanta anni fa, quando questo processo elettorale fu concepito, non era prevedibile, perché anzi questo argomento lo avvalora per il più largo coinvolgimento che comporta; d’altra parte anche in questo caso una ragionevole durata dello spettacolo elettorale mentre è servita a dare il pane  ai giornalisti (anche se sempre gli stessi con inevitabile usura dei rispettivi volti) non ha bloccato per troppo tempo i lavori in corso nel Paese.
Il vero rischio è oggi quello di una deriva verso il presidenzialismo, non solo per la suggestione esercitata dal rinnovo del mandato a Mattarella, ma anche per la esplicita diffamazione dei partiti e delle loro leadership che è stata perpetrata durante tutta la vicenda, mentre proprio le leadership (e non i “peones” come con altrettanto disprezzo sono stati celebrati come protagonisti i semplici parlamentari) hanno condotto il gioco  compreso il suo esito, deciso nel vertice finale mentre centinaia di grandi elettori erano tenuti in surplace con l’astensione.
Il vero regista dell’operazione è stato del resto il segretario del partito più sperimentato, Enrico Letta, che col realismo di una lunga esperienza parlamentare ha sempre saputo di non avere in mano le carte se non per la conferma di Mattarella. Ciò lo ha condotto a non fare mai alcun nome, tanto meno dell’unico veramente desiderato, cosa resa più agevole dal grande successo mediatico del trasloco degli scatoloni presidenziali e ha permesso ai suoi luogotenenti di “farlo crescere” nelle urne, come è stato apertamente ammesso, nella ben assecondata disattenzione generale.
Il rischio di una caduta in un presidenzialismo monocratico mediante un’elezione popolare diretta è ora aumentato per il fatto che l’ha esaltato, come il proprio “sogno”, l’attore politico che, conformemente al ruolo di guastatore abituale che si è ritagliato nell’attuale congiuntura, ha sbarrato la strada all’unica candidata apprezzata da tutti e giunta fino a un passo dall’elezione.  L’attore politico è stato Renzi, e la candidata era Elisabetta Belloni, che è entrata in scena come  parte di una rosa proposta  da Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, con la partecipazione straordinaria di Letta, in grado dunque di coagulare una maggioranza schiacciante dell’Assemblea elettorale, È stato questo fausto evento, a un passo dal realizzarsi, che ha miracolosamente prodotto la repentina conclusione della vicenda, l’inopinato ritorno in campo del presidente Mattarella, la rinuncia definitiva di Draghi, la reprimenda del ministro degli Esteri Di Maio al suo capopartito Conte, e il tripudio finale. 
Le circostanze e le concomitanze sono tali che incuriosisce la domanda sul perché la candidatura Belloni sia stata così facilmente sventata. Non potendo ammettersi che la causa ne sia stata una parossistica misoginia di tutto il sistema, occorre accogliere la motivazione addotta e presa per buona che non si potesse portare alla presidenza della Repubblica la responsabile (da sette mesi) dei Servizi di Sicurezza. Ma  allora resta da chiedersi il perché. Non si trattava infatti di fare presidente della Repubblica il capo della Stasi, del KGB, della CIA, del Mossad o magari della Spectre, a volerci  mettere dentro anche una tipologia di jamesbondiana memoria; si trattava invece della direttrice generale dei Servizi “segreti” italiani, a capo dei quali c’è il presidente del Consiglio. Per quanto essi in passato siano stati deviati,  si dovrebbe spiegare perché oggi sia infamante o inabilitante dirigerli; o chiedersi  se vi sia qualche norma di purità rituale o pericolo  per qualcuno a far sì che una persona con più di cinquant’anni investita di tale incarico sia la sola in Italia a non godere del diritto civile e politico di fare il presidente della Repubblica; questa sì che sarebbe una “sgrammaticatura” costituzionale, come è stato ammesso dallo stesso segretario Letta, mentre non è credibile che a preoccuparsi della grammatica costituzionale sia chi a suo tempo ne voleva sovvertire la sintassi dimezzando la rappresentanza e abolendo il Senato. A meno che a non volerlo fosse qualche Servizio, per nulla segreto,  straniero, dal momento che sarebbe un “delirio”, come ha sostenuto platealmente Cacciari sull'Espresso, eleggere qualcuno che non goda “della fiducia delle grandi potenze economico-finanziarie da cui dipendono i nostri destini”, o magari fosse l’Arabia Saudita.  Così il segreto rimane: ma “per favore” la prossima volta ditelo sui tetti..

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mercoledì 15 dicembre 2021

L’ATTESA E IL POTERE

Se c’è un periodo dell’anno, almeno fino a quando resti una sopravvivenza di memorie cristiane, contrassegnato da un senso di attesa, questo è il tempo di Avvento  che stiamo vivendo: un tempo liturgico tradizionalmente esteso alla stagione civile, in cui si parla della venuta di qualcuno, dell’accadere di qualcosa, da cui il futuro sarà modificato. Si tratta del Natale, di cui qualcuno dice  che non si dovrebbe neanche parlare, per alludere invece a più generiche “feste”.

L’attesa che quest’anno attraversa tutto il mondo è per la fine della pandemia, ma essa per un verso è legata a fattori imprevedibili, per un altro verso è legata alla sola cosa che sarebbe risolutiva e che non vogliamo fare, cioè la soppressione dei brevetti sui vaccini e i farmaci salvavita , la vaccinazione universale e drastiche riforme per rendere salubre l’aria che respiriamo come abbiamo reso potabile nei tubi l’acqua che beviamo.

L’altra attesa che domina oggi in Italia i discorsi della politica è quella dell’elezione del presidente della Repubblica, a cui sembra che tutto drammaticamente sia sospeso, compresa la durata della legislatura, mentre dovrebbe essere un evento ordinario della vita democratica. Draghi ne approfitta per ignorare i sindacati, la destra la enfatizza come il passaggio cruciale della sua acquisizione definitiva del potere: Renzi, che non ne possiede affatto le chiavi, ha già regalato la presidenza alla destra come se le toccasse per diritto di successione, la Meloni la rivendica come sua, ne fa l’architrave della “casa dei conservatori”, la ordina al presidenzialismo  e la riserva a un “patriota” che nella sua semantica sembra parola molto affine a “fascista” e lo fa come se non fosse per Costituzione dovere non solo di un presidente ma di ogni titolare di funzioni pubbliche adempierle con disciplina ed onore, cioè per la “patria”.

Quello che si dimentica, e proprio nel momento in cui si fa appello a una millantata identità liberale e cristiana, è che se il potere è mitigato dalla tradizione liberale  esso è addirittura rovesciato nel suo contrario dalla tradizione cristiana; c’è scritto nel Vangelo che Pilato non avrebbe nessun potere se non gli fosse dato dall’alto, che essere re vuol dire stare nel mondo per dare testimonianza alla verità, sta scritto nelle lettere di san Paolo che il Verbo di Dio svuotò se stesso e che la forma di Dio ha preso la forma del servo; mentre a conclusione del suo “Funzioni e ordinamento dello Stato moderno” Giuseppe Dossetti sottolineò che secondo il greco della “Lettera ai Romani” coloro che esigono i tributi devono essere considerati come “liturghi di Dio”. Il rovesciamento del potere in diaconia, in  testimonianza, in martirio e dono di sé è l’apice del paradosso cristiano, mentre l’ideologia machiavelliana che fa del potere un idolo ne è la massima contraddizione; all’opposto i controlli, i limiti e le garanzie nei confronti del potere sono il massimo inveramento che le Costituzioni moderne e soprattutto il costituzionalismo postbellico, che ora vogliamo proiettare verso una Costituzione mondiale  realizzano di una rivoluzione non più solo religiosa e politica, ma antropologica.

Contro questa conversione del potere assistiamo alle sfide più dure. Su tutti i fronti la destra è all’attacco per dare perennità ai poteri esistenti,  potere del denaro sulla politica, potere dei padroni sui servi, potere delle cose sull’uomo, potere dei cittadini sugli stranieri. Secondo il quotidiano britannico “Guardian” il 6 gennaio scorso ci sarebbe stato un piano  che avrebbe dovuto consentire a Trump di perpetuare il suo potere invalidando l’elezione di Biden, quando esplose l’attacco dei “patrioti” al Campidoglio; sui collegi elettorali americani il sistema sta lavorando per configurarli in modo che ne sia scontata l’assegnazione alla destra; in Inghilterra un tribunale decide l’estradizione di Assange per esecrare lo svelamento dei crimini del potere, mentre come ha denunciato il papa all’Angelus le statistiche dicono che quest’anno si sono fatte più armi dell’anno scorso, ultima istanza di un potere incondizionato.

È contro questo dilagare inarginato del potere che le risorse dell’etica, della politica, del costituzionalismo e del diritto devono essere mobilitate perché la democrazia resti nell’attesa dei futuro.

Raniero La Valle

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mercoledì 20 ottobre 2021

 DEMOCRAZIA FUTURA

Il problema della “Prima Repubblica”, che poi precipitò nella strategia della tensione, il terrorismo e l'uccisione di Moro, fu la democrazia incompiuta per la quale un terzo dell'elettorato era escluso dalla decisione politica perché votava per il partito comunista, e pertanto reso ininfluente dall'anticomunismo ideologico di tutto il sistema. Il problema di oggi, giunto alle prime avvisaglie di piazze eversive, è la democrazia regressiva, per la quale più della metà dell'elettorato (è accaduto domenica scorsa) si astiene dal voto, perché le sue opzioni politiche non trovano alcun posto in un sistema bipolare di due aggregazioni elettoralmente forzate, una delle quali inquinata da una destra estremista e grottesca, l'altra da un servilismo alla falsa neutralità della competenza nel mercato capitalistico globale,
La risposta di Letta che persegue larghe alleanze mediante la fusione degli elettorati non è la soluzione ma il problema: le alleanze democratiche, e non le ammucchiate, si fanno tra le rappresentanze politiche portatrici di credibili e specifiche istanze, capaci di portare alla dignità della decisione comune in Parlamento le differenze felicemente presenti nel vissuto e nelle culture del popolo sovrano.
L'adeguata risposta è pertanto una democrazia pluralista realizzata mediante una legge elettorale proporzionale, in grado di riconoscere le vere priorità per l'Italia. Queste sono oggi quelle di una riforma mondiale che includa la libertà di migrazione (e quindi per noi la rapida introduzione dello “ius soli”) il disarmo nucleare (e quindi per noi l'immediata adesione al trattato per la proibizione delle armi nucleari e il loro allontanamento dalle nostre basi) e un ordinamento universale di doveri e diritti garantiti da un costituzionalismo mondiale.
È venuta a proposito domenica scorsa la trasmissione “Atlantide” della 7 che ha documentato come, dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki del 6 e 9 agosto 1945 e la capitolazione del Giappone, due team americani andarono a verificare sul posto gli effetti delle bombe. I membri della missione furono inorriditi di quello che trovarono, e constatarono che gli scienziati che avevano costruito le atomiche (alcuni dei quali partecipi della verifica) non avevano minimamente previsto quello che sarebbe avvenuto. Le foto e i documenti che ne ricavarono furono classificati come segreti e sparirono negli archivi per la condanna che la loro pubblicazione avrebbe fatto ricadere sui costruttori della bomba e sugli Stati Uniti che l'avevano sperimentata sulle carni vive delle città giapponesi votate allo sterminio; come ha testimoniato Furio Colombo che come giornalista negli anni immediatamente successivi ne prese diretta conoscenza in America, la rievocazione di quell'evento suscitava negli Stati Uniti un enorme imbarazzo, nessuno ne voleva parlare e quando si entrava in argomento esso era subito chiuso. Dunque l' "età atomica" è cominciata senza che coloro che le hanno dato inizio immaginassero che cosa effettivamente stavano facendo, e in modo tale che lo sgomento per quanto era stato compiuto impediva perfino di parlarne.
Ma oggi sappiamo tutto, non solo quello che è accaduto allora, ma tutto quello che ne è seguito nei decenni successivi per gli effetti a lungo termine delle radiazioni, sappiamo delle vittime, dei loro inenarrabili dolori, e tutto ciò dobbiamo moltiplicare per migliaia di volte quanto si sono moltiplicati il ​​numero e la crudeltà devastante delle armi nucleari nel frattempo costruite, potenziate, arricchite, ammassate negli arsenali, disseminate e pronte all'uso in tutto il mondo e contro tutto il mondo. Allora gli Stati Uniti non sapevano e non immaginavano; molte persone, anche scienziati e protagonisti dell'impresa a cose fatte si posero problemi morali, l'improbabile segreto provò a coprire imbarazzo, vergogna e forse pentimento. Allora si poteva ignorare che le armi nucleari mettevano nelle mani dell'uomo la decisione sulla fine del mondo. Ora gli Stati Uniti lo sanno, ma è come se non lo sapessero, e invano lo sanno gli Stati che tali armi hanno costruito e accumulato dopo di loro, lo sanno la Russia, la Gran Bretagna, la Francia, la Cina, l’India, il Pakistan, Israele, la Corea del Nord e invano lo sa l’Italia che le armi nucleari ospita nelle sue basi e si dota degli aerei per usarle, e così tutti gli altri Paesi che sono della partita.
Il mondo ci ha provato a fermarsi, il papa che nel 2019 è andato apposta ad Hiroshima e Nagasaki non fa che chiederlo con tutte le religioni; dalla “Pacem in terris” in poi sulla questione della guerra è cambiata l'immagine di Dio; il 22 gennaio con la ratifica di 51 Stati è entrato in vigore il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, firmato da 86 Paesi; un Trattato che l'Italia non ha firmato e come lei nessun Paese della NATO.
Fino a quando le potenze nucleari non entreranno nella logica del disarmo e non accetteranno di aderire al Trattato la visione di un mondo libero dalle armi nucleari e non violento che pure fu avanzata dall'Unione Sovietica di Gorbaciov e dall'India di Raijv Gandhi nella Dichiarazione di Nuova Delhi del 1986 sarà frustrata, e non si può nemmeno immaginare che la comunità umana sia salvaguardata nella sua pace e nei diritti di tutti i suoi membri da un ordinamento e una Costituzione a dimensioni mondiali, che è l'oggetto della nostra speranza.
Pasquale Iannamorelli, Giuseppe Staccia e altri 27
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martedì 12 ottobre 2021

INVECE DEL MURO

 L’assalto vandalico alla sede della CGIL e la sfida della piazza fin sulla soglia dei palazzi del potere sono un campanello d’allarme e dicono che una società non può a lungo essere esposta all’eclissi della politica, all’irruenza di forze politiche sovraniste, a superficiali unanimismi di governo senza cadere nell’anarchismo e rischiare il fascismo. La politica non è pura tecnica, il cui unico requisito sia la competenza, come presume Calenda lamentandosi per la sua sconfitta romana, ma anche sentimento e visione come gli hanno giustamente spiegato le sardine. Se si fosse riconosciuta questa qualità più alta della politica, il governo non avrebbe ignorato che la vaccinazione universale obbligatoria non è un problema di efficienza ma un problema di solidarietà e di consenso e la polizia si sarebbe accorta che una folla arrabbiata di manifestanti non si muove da una piazza del Popolo gremita verso Porta Pinciana per una passeggiata a Villa Borghese ma per portare la protesta fino al santuario del mitico sindacato della sinistra.

Mentre accadevano tali cose altri eventi cruciali ci mettevano di fronte due proposte alternative per il futuro del mondo. La prima, formulata dalla Grecia e altri undici Paesi schierati sul confine orientale dell’Europa, è quella di chiuderne le frontiere, alzarvi muri e fili spinati e farne un’aggregazione di Stati confliggenti tra loro e con gli altri, l’altra è quella avanzata davanti al Colosseo il 7 ottobre nell’incontro tra le diverse fedi religiose e poi nel Sinodo cattolico inauguratosi sabato ed è quella di “religioni sorelle e popoli fratelli” per fare un mondo unito e prendersene cura: un mondo, non lo dimentichiamo, condannato a una prematura apocalisse se la crisi ecologica non sarà rovesciata e devastato ora da un virus che solo in poche aree più ricche è arginato dai vaccini.
Atene e Roma è il vecchio binomio che eravamo abituati a identificare con le radici dell’Europa e a considerare come grembo di culture universali. Quella universalità non ha retto alla prova della storia, i simboli si sono rovesciati. A Roma il Colosseo (citazione di papa Francesco) fu “luogo di brutali divertimenti di massa, messa in scena di uno spettacolo fratricida, di un gioco mortale fatto con la vita di molti”, cosa che continua ancor oggi nella successione di guerre e violenze; il “Dio ignoto” predicato sull’acropoli di Atene per unificare le genti ha dato luogo invece a una Chiesa che ha interpretato la missione come proselitismo e si è concepita come unica via di salvezza; e l’universalità del nomos dell’Occidente è stata pensata e gestita come superiorità su tutte le culture e come dominio sugli altri popoli.
L’Europa, che pur ha molto da farsi perdonare dalla Grecia, a cui non molti anni fa ha imposto in nome del danaro pesi inammissibili, giustamente ha ora rifiutato la sua proposta protezionista volta a respingere i migranti e a isolarla dal mondo; ma ciò vuol dire che bisogna inventarsi una politica alternativa, ridefinire in termini positivi la proposta dell’unità e dell’universalismo. La formula dell’Imam Ali ibn Abi Talib, genero di Maometto, rilanciata dal papa a Roma: “Le persone sono di due tipi: o tuoi fratelli nella fede o tuoi simili nell’umanità” è adeguata. Ciò vuol dire unità nel pluralismo, riconoscendosi fratelli “ciascuno con la propria identità religiosa”, come ha ribadito il papa nell’incontro al Colosseo; ma vuol dire anche non fare di questa identità un’esclusiva, e fare i conti con l’idea teologica di “elezione”, un solo Dio, un solo popolo, una sola terra, una sola legge, una sola fede. Una lettura fondamentalista di questa idea è stata la malattia infantile del monoteismo, un’infanzia peraltro durata fino ad ora, che per la Chiesa ha preso le forme della cristianità, che voleva dire incorporarsi il mondo, e che secondo lo storico Heer si è risolta nel tentativo di Carlo Magno di organizzare l’Occidente come uno Stato totalitario. Come ha ricordato il papa al popolo della sua diocesi romana, sono stati i profeti stessi di Israele che hanno corretto il concetto di elezione, che non discrimina in nome di Dio, che non può essere imprigionato nell’idea di una esclusività, di un privilegio, ma deve essere un dono che qualcuno riceve per tutti, un dono per cui la salvezza di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità. Novità di interpretazione che nel cristianesimo è stata promossa da Paolo, ciò di cui gli ebrei si risentono, come ha mostrato la recente polemica dei rabbini, ma che l’ebreo Jacob Taubes gli ha riconosciuto come merito: Paolo è infatti l’antitesi dell’idea di selezione che riserva a pochi la realizzazione dell’umano e che nella modernità sarà teorizzata da Nieztsche; per Paolo, dice Taubes, il non-uomo diventa uomo, il non-popolo diventa popolo, la debolezza diventa forza. Ed è su questa linea che papa Francesco vuole mettere la Chiesa, non per fare un’altra Chiesa, come diceva Congar, ma “una Chiesa diversa”, non più la Chiesa dei grandi numeri (la Sala Nervi, detta aula Paolo VI, fu costruita perché san Pietro sembrava troppo piccola), non la missione come proselitismo e nemmeno la conventicola del 3, 4 o 5 per cento che frequenta e la pensa allo stesso modo, ma una Chiesa aperta che serve tutti, cammina insieme a tutti, “coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà”: e qui il vero sinodo, che significa appunto camminare insieme, sembra andare oltre l’ambito religioso, e proporsi piuttosto come quello dei popoli verso il diritto la giustizia e la pace.
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sabato 31 luglio 2021

 

COME IL PADRE AMATE I NEMICI

Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. ... Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste». (Mt. 5, 44-48)

Nell’aspro dibattito innescato  in Italia dalla contestata riforma della ministra Cartabia, si discute di procedure e tempi del processo penale, mentre non si ricorda la natura drammatica della giustizia penale. Il potere giudiziario è “un potere terribile”, diceva Montesquieu: l’ha ricordato  Luigi Ferrajoli nel recente congresso di Magistratura Democratica proponendo un ripensamento profondo della giurisdizione penale: perché sia conforme ai due principi imprescindibili dell’indipendenza e dell’imparzialità, ci sono due riforme da fare. La prima è quella di sottrarla al condizionamento della carriera, che secondo la proposta radicale di Ferrajoli va addirittura soppressa, rendendo tutti i giudici eguali nella diversità delle funzioni, come vuole la Costituzione. La seconda è di liberarla dall’idea del Nemico.
Oggi prevale la concezione della giustizia penale come lotta contro il crimine, e di fatto contro i loro autori. Al contrario, ha detto Ferrajoli, la giurisdizione non conosce – non deve conoscere - nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti, ma solo cittadini. Per andare alle fonti della nostra cultura penalistica, si può citare Cesare Beccaria che chiamò “processo of­fensivo” quello nel quale “il giudi­ce diviene ne­mico del reo” e “non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto, e lo insi­dia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quel­l’in­fal­libilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose”. Secondo Beccaria, il processo deve consistere invece nell’“indifferente ricerca del vero”. Perciò si deve escludere ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. E’ chiaro che questa concezione del processo esclude anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde. Il  Pubblico Ministero non è un avvocato, e il processo non è una partita nella quale l’inquirente perde se non riesce a far prevalere le proprie tesi.
Qui siamo oltre il tema dell’efficienza. Rifiutare l’idea del Nemico significa infatti anche escludere il carattere vendicativo della giustizia penale, che intende la pena come un risarcimento del male compiuto mediante l’inflizione di una sofferenza al colpevole. In effetti nella percezione comune giustizia non è fatta se il reo non soffre; nel patimento la società troverebbe il suo compenso e l’offeso si appaga: la sofferenza diventa in tal modo un fine dell’ordinamento. Male per male: è una morale da divina commedia, anche se Dio non è così, la Commedia non doveva chiamarsi divina e la Costituzione ha tutt’altra idea della pena come rieducazione del condannato, anche se si tratta di un fine che spesso non si realizza
Ma ciò riguarda solo la giustizia penale? Ben oltre questa, l’abbandono della logica del Nemico avrebbe una portata epocale, Fin dal principio la società si è conformata a una lotta degli uni contro gli altri; un antico frammento di Eraclito faceva della guerra l’origine di tutte le cose, di tutti re, e nella modernità è stato Carl Schmitt a sostenere che il confronto amico-nemico è il criterio e la sostanza stessa del politico. La  competizione selvaggia dell’età della globalizzazione e il precipizio della politica nelle spire del bipolarismo, del maggioritario, della lotta al proporzionale, del populismo carismatico e dell’esclusione dei perdenti ne sono il prezzo. Gli sconfitti sono scartati, papa Francesco la chiama società dello scarto, perché i soccombenti, i poveri,  non solo vi sono sfruttati ma sono esclusi, non possono lottare, di fatto non ci sono: ai naufraghi e ai migranti sono negati i porti e la terra della loro salvezza, sono restituiti al mare o alle torture dei lager libici.
Il problema è però che l’ideologia del Nemico non è più compatibile con la conservazione della società umana. Nella condizione della lotta degli uni contro gli altri né la pandemia può essere fermata nelle sue infinite varianti, né il clima può essere governato in modo da preservare la vita sulla terra, né la guerra può essere ripudiata nella sua inesauribile proliferazione; e a questo punto l’uscita dalla sindrome del Nemico non è solo una questione di etica pubblica, è una questione di sopravvivenza e ci sfida a passare a un’altra antropologia. Mai nella storia si era dato quest’obbligo. Ma questo è il tempo che ci è toccato in sorte. Sta a noi prenderne atto.
Una tale conversione chiama in causa la Chiesa italiana e il suo prossimo Sinodo, di cui finalmente si è avviato il cammino. Il suo Manifesto recita: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”. Secondo  “Koinonia”, la rivista di padre Alberto Simoni, ciò vuol dire offrire il Vangelo come vino nuovo in otri nuovi. E la vera novità starebbe proprio nell’annuncio dell’amore dei nemici. Il Vangelo è l’unico codice che lo prescrive. Gesù Cristo che di certo era un “teista” e secondo l’evangelista Giovanni come Figlio unigenito è il vero rivelatore del Padre, indicava l’amore dei nemici come via per l’imitazione di Dio. Certo se si nega la fede in Dio, si perde anche questo: molte cose sono in gioco nella “delenda Cartago” oggi di scena anche tra i cristiani, della polemica antiteista. Ma nel Dio unico, Padre e custode di tutti gli uomini e le donne, non c’è nemico, e perciò non deve esserci nemico nemmeno per noi sue creature   Non potrebbe esserci oggi, per la vita delle persone e per la società tutta, un carisma più grande di questo. Se questa rivoluzione avvenisse, sarebbe stabilita la condizione dell’unità umana per salvare la terra, i populismi cadrebbero, nessuno sarebbe scartato. Sarebbe il dono fatto al mondo dalla Chiesa di papa Francesco, che dall’inizio del suo pontificato non fa che mostrare al mondo la vera identità di Dio.

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 RITORNO AL PASSATO?

Il mio ultimo post, “Il Dio che perdiamo”, ha suscitato riflessioni profonde e un illuminato dibattito. Esso è stato anche ragione di consolazione per molti, per i quali “perdere Dio” significherebbe perdere tutto; più che posteri di Dio se ne sentirebbero orfani, vittime di una promessa non mantenuta (“non vi lascerò orfani”).
Non è mia intenzione né sarei in grado di rispondere a tutte le questioni; è fuori discussione che la critica al post-teismo non ignora che si parla di un mistero, che l’unico linguaggio appropriato sarebbe quello apofatico, che la mistica è il vero luogo del rapporto umano con Dio; dunque tutte le repliche che insistono su questo hanno ragione. Tuttavia ben più di questo dicono molti che sostengono la posizione post-teista che come svolta epocale sancisce la chiusura dei conti con Dio, visto nelle forme forse un po’ stereotipe in cui lo ha tramandato il teismo (onnipotente, onnisciente, dispotico, ecc.).
Perciò è utile interrogarsi ancora sui termini del confronto, per cercare di fare chiarezza. E intanto bisogna dire che ciò che ci viene proposto non è l’ateismo, perché per l’ateismo nessun Dio c’è mai stato, neppure questo oggi dismesso; non è per il mutare dei tempi che egli viene ora negato, altra è la privazione di Dio che alla sua lunga e nobile tradizione va ascritta. Il post-teismo ragiona invece di un Dio che c’era, o che almeno è stato creduto (e tanto e da tanti che intorno a questa nozione di Dio si è caratterizzata un’intera epoca storica), e che ora in un mondo fattosi adulto non c’è più, non ha ragione di essere creduto e a cui è facile addossare improbabili connotati oggi confutati fino all’irrisione.
Però il Dio che così viene ora licenziato non è tanto quello del teismo, quanto in realtà è il Dio del monoteismo, che distaccandosi dal magma delle religioni primitive e dei culti panteisti che divinizzavano le forze della natura come il cielo la terra il sole la luna, a un certo punto ha fatto irruzione nella storia di questa parte del mondo nell’area mediterranea. Secondo la Bibbia questo evento risale all’età dei patriarchi, al patto con Abramo, secondo Freud (“L’uomo Mosè e la religione monoteistica”, che è il suo ultimo libro) è, nel XIV secolo a. C., un frutto della gloriosa quattordicesima dinastia dell’Egitto divenuto impero, che aveva bisogno di una religione più diffusiva; e questa religione fu trasmessa da Mosè, che sarebbe stato non ebreo ma un egizio, al popolo di Israele nell’atto di mettersene a capo, di portarlo fuori dall’Egitto e di farsene legislatore e guida.
In ogni caso quale che sia la genesi del monoteismo è come se due strade si fossero aperte al tempo delle origini: da un lato nel popolo greco secondo Freud ci fu “un allentamento del politeismo” e l’inizio del pensiero filosofico, dall’altro in Egitto e nel popolo ebreo si ebbe l’abbandono dei culti idolatrici e la costruzione dell’unico Dio dominante su tutto e capace di amare in modo personalissimo il suo popolo: e fu questo il grande dono fatto da Israele all’umanità intera. Poi, nel tempo stabilito questo Dio, immedesimato in Gesù di Nazaret e da lui reinterpretato fino al rovesciamento dell’umiliazione e della croce, è entrato nella storia e attraverso la sua Chiesa con tutto il suo carico di paradossi, mito o mistero che siano considerati, ha piantato la sua alternativa nel mondo.
Sbarrare ora questa strada e risospingere questo Dio nel nostro passato, come fa il post-teismo, che piuttosto dovrebbe dirsi un post-monoteismo, non significa perciò proiettarsi nel futuro come vorrebbe il progressismo, ma tornare a quel bivio della storia umana quando il Dio unico si separò dagli idoli, desacralizzò la natura e demitizzò le astrazioni spiritualistiche per le quali tutte le cose sono considerate divine e le stesse facoltà umane sono esaltate come brandelli dell’assoluto.
Occorre pertanto vigilare perché questo “post” del teismo non sia piuttosto una ricaduta nel passato e perché questo ritorno all’areopago di Atene che dovrebbe affrancarci dal “Dio ignoto”, giustamente inaccessibile alla scienza, non ci consegni piuttosto agli idoli che sempre più stanno prendendo il controllo della nostra vita. Se noi abbiamo infatti più sicurezze e meno antidoti, gli idoli crescono di numero e potenza, che si tratti del pallone glorioso, dei mercati sovrani, dei brevetti irrinunciabili sui vaccini o della libertà di inquinare.
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venerdì 9 luglio 2021

IL DIO CHE PERDIAMO 

Il Dio che perdiamo
Grazie al “dossier sul post-teismo” curato da Enrico Peyretti, pubblicato nella sezione “Dicono i discepoli” del sito “Chiesadituttichiesadeipoveri” porto qui alla luce un tema finora passato sotto silenzio, che da tempo sta turbando gruppi cristiani anche a noi più vicini. Si tratta della questione che fa di Dio una nozione del passato, non più utilizzabile oggi: “Oltre Dio” è l’ultimo documento in cui è espressa questa posizione, è il terzo libro di una serie edita con dichiarata neutralità dall’editore Gabrielli, dedicata appunto al tempo che viviamo come successivo alla religione e perciò detto “post-religionale”, dove però è la neutralità stessa che fa problema: ne va infatti non solo dell’identità, ma del fondamento stesso dell’essere, non di Dio, ma della nostra relazione con lui.
L’oggetto stesso del dibattito è difficile ad essere definito, non c’è un limite, una soglia su cui alfine ci si possa attestare. Nel mio libro “No, non è la fine” (Edizioni Dehoniane), in cui il tema è stato affrontato, la questione è stata posta così: “Certo Dio è licenziato e accompagnato attrezzi da riporre, la strada è stata aperta per procedere allo smaltimento dei “miti”, che sono poi la creazione, il peccato, il messia, la redenzione: un accanimento da cui viene fuori un messaggio globalmente antibiblico. E se c’è stato qualche teologo volenteroso che nella ricerca di nuovi modelli cristiani ancora ha cercato di inalveare questo sommovimento nei parametri del Concilio Vaticano II e nella nuova prospettiva aperta dalla predicazione di papa Francesco (Victor Codina, Cristiani in Europa, in Adista-documenti, 11 luglio 2020), altri hanno rivendicato la radicalità del superamento necessario: il Concilio, papa Francesco sarebbero a loro parere ancora dei cambiamenti interni al vecchio computer; bisogna invece cambiare il computer stesso, il suo hard disk “che gira a vuoto, è pieno di virus e non consente nuove applicazioni” (Santiago Villamajor, Riscattare il cristianesimo, in Adista-documenti, 11 luglio 2020). Solo che l’hard disk da buttare via è il Vangelo stesso, nel suo contenuto inaudito, il pezzo da rimuovere è lo stesso mistero pasquale; e dunque a cadere sono la croce e la resurrezione, lo scambio trinitario, il dono dello Spirito, il discepolo che rimane, e l’anno liturgico che tutto ciò rivive e ripropone nel tempo. Cioè è il cristianesimo, comunque lo si dica riformato. Ebbene, il prezzo è troppo alto…”
La questione è aperta. Forse si potrebbe dire qui come alla base ci sia un equivoco di fondo sul contenuto stesso della disputa: per i neo-noncredenti collocare nel passato la questione di Dio vuol dire rifiutarne l’oggettivazione che l’ha resa tributaria del mito, della fantasia, dell’invenzione antropomorfa, l’ “Oggetto Immenso” fatto preda della ragione; e ne hanno i motivi. Ma col Dio pensato così i conti sono stati fatti da tempo, alla domanda sull’identità di Dio la risposta è quella di Gesù alla Samaritana, Dio non va cercato su questo monte o su quell’altro, ma in Spirito e verità; la questione invece è quella del rapporto umano con lui, è la fede che lo coinvolge nella storia, è della fede che si può identificare un prima e un dopo (“il Figlio dell’uomo quando verrà troverà la fede sulla Terra?”); la domanda è sul senso e le implicazioni della fede di quanti credono in lui, è questo che appicca il fuoco alla storia.
E qui, su questo rapporto vitale con un “Tu” che ci ama, vale la notazione con cui Enrico Peyretti ha accompagnato il suo dossier per rivendicare il rapporto con Dio come “persona” : «Se ciò che abbiamo chiamato Dio non fosse comunicante, appellante, ispirante, in qualche modo parlante, trasmittente una comunicazione significativa per lo spirito umano (cioè se non fosse persona), avremmo “deus sive natura” (infatti è una ipotesi): la bellezza, armonia, sensatezza, e anche cecità e violenza della natura. Ci sono, infatti, religioni della natura…Se non fosse persona, non avrebbe alcun senso l’atteggiamento umano di fede, affidamento, fiducia interiore e resistente ai colpi del caso, e della malvagità umana. Una fede che genera speranza, al di là di tutte le vicende storiche e biografiche… Se non fosse persona, non ci sarebbe la preghiera umana, che è anche il semplice sospiro, più grande di tutte la parole, davanti all’alba, al tramonto, al morire, al nascere, all’incontrare altri simili a noi, e accompagnarci nell’impresa della vita».
Se perdessimo questo Dio, possiamo aggiungere, perderemmo anche il Dio nonviolento che è il grande dono fatto all’umanità dalla Chiesa del Concilio, da Giovanni XXIII a papa Francesco ad Abu Dhabi alla preghiera nella piana di Ninive, e la violenza, a cominciare da quella religiosa, resterebbe inarginata.
Raniero La Valle
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mercoledì 17 febbraio 2021

 



UNA PAROLA GLORIOSA

 
Con la soluzione della crisi di governo, l’emergenza in Italia e nel contempo in Europa e nel mondo, ha raggiunto la massima portata. Non c’è dubbio che secondo le categorie tradizionali si tratta di una soluzione di destra o, se si vuole, di un’uscita da destra dalla crisi, tanto più se il suo movente è stato, come si si sta delineando, il “business as usual”, gli affari come sempre nonostante la pandemia. Ma appunto a giudicare secondo le categorie del passato, mentre quello che oggi preme è il presente e il futuro. Non è di destra la scelta del presidente della Repubblica, che ha anzi scongiurato il rotolamento elettorale verso il fascismo; non è di destra che Salvini sia stato personalmente costretto ad abbandonare il sovranismo orbanista o lepenista (la Lega e la borghesia produttiva e egotista del Nord non l’avevano sposato neanche prima); non è di destra che l’on. Meloni si trovi collocata fuori dal gioco; non è di destra che il politico  più autorevole o internazionalmente noto come Mario Draghi si sia esposto e  prenda decisioni come autore finale. Ma sarebbe di destra il lamento senza vera politica.
Invece nella politica sta oggi tutta la strada. E la politica oggi, non solo per noi, ma per Draghi (Draghi contro Draghi!), per la cultura, per le fedi, per l’economia e per lo stesso capitale, vuol dire una parola che viene proprio dal passato e che abbiamo fatto male a dimenticare. Dal passato infatti non viene solo il male onde noi oggi giudichiamo il presente: economicismo, monetarismo, diseguaglianza, bellicismo, austerità, neoliberismo, indifferentismo, Maastricht (tutte ideologie!), ma vengono anche delle grandissime cose, la Costituzione, il diritto, l’Europa, la tradizione pacifista, per non parlare del cristianesimo. A questo passato va oggi non contrapposta né dialettizzata secondo la cattiva filosofia delle opposizioni, ma va integrata e immedesimata una parola gloriosa che viene fino a noi tra le maggiori eredità del comunismo ma ancora prima dall’umanesimo, e questa parola è l’internazionalismo.
La sovranità non basta e fallisce, l’Europa non basta e da sola fallisce, il Regno Unito esce dall’Unione e si perde, la cosiddetta “America first”, proprio l’America della Normandia, stava rischiando come tale di precipitare nel fascismo e la pandemia irrompente in tanti filoni indipendenti e mutanti e non affrontata insieme rischia di vincere la partita e di sconfiggere anche noi. Nonostante tutte le buone intenzioni e perfino le giuste scelte che potranno fare il governo Draghi, la Commissione Ursula e quanti altri, senza l’internazionalismo, cioè senza soluzioni che oltrepassino il quadro dato, ossia le regioni, le nazioni, l’Europa i singoli ordinamenti e le consuete aggregazioni politiche e geografiche, non potranno trovare risposta né la transizione ecologica, né la transizione sanitaria, né la transizione digitale. Senza la non brevettabilità universale e distribuzione incondizionata dei vaccini, bene comune, senza la messa al bando universale delle armi, senza la decisione unanime sul clima, tutto ciò che di negativo è temuto e previsto, nonostante ogni parziale beneficio in contrario, avverrà.
Come deve essere evidente l’internazionalismo comincia dal condominio. Ma guai al provincialismo o al moralismo o al fai da te di chi dice: “ci basti intanto partire da noi”. La raccolta differenziata non significa niente (è uno sberleffo, un fastidio!) se dietro l’angolo il camion è lo stesso. L’internazionalismo è una politica. È un fare. Atto dopo atto, decisione dopo decisione, fatti dopo scelte, “recuperi” confronti e processi avviati. Di tale internazionalismo noi conosciamo il nome. Si chiama costituzionalismo internazionale, si chiama, quale obiettivo storico e politico, Costituzione della Terra. Esso infatti non vuol dire un potere universale, ma una molteplicità di poteri armonizzati e reciprocamente garantiti sul piano mondiale. Dalle istituzioni sanitarie a quelle giurisdizionali, dall’Organizzazione del Lavoro all’Alta Autorità per il diritto, la libertà e il finanziamento solidaristico delle Migrazioni.
Però questo – “costituzionalismo” - è un nome colto, almeno per ora, non è ancora pronto a entrare come un vento impetuoso nel linguaggio politico, nel discorso popolare, nell’ottusità dei mass media e perfino nei gabinetti raffinati delle stanze dei bottoni. Non è ancora pronto a farsi partito, a essere adottato come programma di partiti. Perciò il suo nome di battaglia, la sua gestione in forma popolare deve avvenire nel nome e nei nomi dell’internazionalismo. È una parola già fondata sul sangue di infiniti martiri, di cui vogliamo ricordare qui un solo nome per tutti, Marianella Garcia Villas, uccisa in quanto internazionalista dagli stessi assassini dell’eroico vescovo di san Salvadore Oscar Arnulfo Romero. Dunque davvero un nome che rinvia alla testimonianza, alla responsabilità, alla lucidità politica e all’impegno civile di donne e uomini, di laici e religiosi, atei e credenti, deboli e forti, poveri e ricchi.
E dunque internazionale dovrebbe essere l’ambito e l’orizzonte nel quale deve operare la nostra iniziativa.

In ogni caso “No, non è la fine”, come dice il mio libro appena uscito in edizione Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna.



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