giovedì 24 luglio 2025

ELEGGIAMO IL DOMICILIO A GAZA

<b>ELEGGIAMO IL DOMICILIO A GAZA Noi, Raniero La Valle e Tomaso Montanari, mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo Presidente di Pax Christi e p. Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia, Elena Basile e Ginevra Bompiani, e molti altri qui sottoscritti Nel senso in cui l’ordinamento prevede una distinzione tra la residenza e il domicilio, quale luogo speciale delle proprie cure, dichiariamo Gaza nostro domicilio elettivo, chi presso la parrocchia della Sacra Famiglia, presa a cannonate dall’esercito israeliano benché rifugio di centinaia di profughi, chi presso l’ospedale Nasser di Kan Younis e le sue incubatrici distrutte, chi presso la Moschea al-Faruk di Rafah, fatta tomba di tutte le fedi, chi presso la vitale Biblioteca di Samir Mansour, chi a Deir al Balah e ai valichi dove si viene uccisi nella ricerca di cibo, sia presso ogni altro aggregato, famiglia o indirizzo, e invitiamo a fare altrettanto tutti coloro che intendono agire perché il mondo resti umano, e tutti insieme provvediamo, come a nostro domicilio, alla ricostruzione di Gaza. A Gaza siamo a un limite estremo del versante crudele del potere, che mette a rischio non solo il popolo oggi votato alla fine, pur se attraverso effimere tregue, ma i popoli di ogni cultura e nazione. Tuttavia da Gaza può venire la salvezza per tutti se il suo martirio susciterà una reazione uguale e contraria a favore della vita, della dignità, della libertà e della riconciliazione della intera comunità umana. Al compito della politica si aggiunge la personale responsabilità di ciascuno. Perciò noi pensiamo che eleggere il domicilio a Gaza significa difendere la nostra casa comune, e idealmente far diventare i figli e abitanti di quella terra numerosi “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare (Gen. 22,17), così che diventi impossibile per chiunque pensare di sradicarli, di ucciderli, o di trasformarli in servitori di ricchi bagnanti. Il nostro slogan, il nostro motto identitario tra tanti altri da molti condivisi è “lunga vita a Gaza” a cominciare dalla sua ricostruzione, non per speculazione e per profitto, come fanno quanti guadagnano prima sulle armi e poi sugli scempi da queste compiuti, ma perché dovunque sia in atto la rovina, ogni valle di morte sia riempita e ogni monte di sopraffazione e di dominio sia abbassato (Is. 40,4). Se i nuovi domiciliati a Gaza saranno all’inizio centinaia, poi migliaia, poi innumerevoli in ciascuna delle nostre città e poi in tutto il mondo, essi diverranno quella pietra che rotolando dalla montagna sul campo dell’aggressore, ne rovesci le tende così che cadano a terra divelte, come nel sogno biblico narrato nel libro dei Giudici (7,13-14), e venga così annunziata la sconfitta di tutti i poteri indiscriminati e genocidi. Il nome di chi fa questa elezione di domicilio potrà essere comunicato all’indirizzo mail domiciliatiagaza@primaloro.com, e potrà essere liberamente citato da ciascuno col proprio indirizzo su carta da visita o e mail e in qualsiasi altro documento. Nel sito PRIMA LORO sarà pubblicato un elenco dei nuovi domiciliati, a cui tutti possano accedere. L’iniziativa potrà essere perseguita in molteplici forme, private e pubbliche, mediatiche e politiche, autogestite o organizzate in forme collettive, secondo opportunità e fantasia. Raniero La Valle e Tomaso Montanari, mons. Giovanni Ricchiuti, vescovo Presidente di Pax Christi e p. Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia, Elena Basile e Ginevra Bompiani, Domenico Gallo, Alex Zanotelli, Felice Scalia S.J., Claudio Grassi, Nandino Capovilla, Francesco Comina, Sergio Mercanzin, Vito Micunco, Paolo e Rosemarie Bertagnolli , Enrico Peyretti, Raul Mordenti, Agata Cancelliere, Stefania Tuzi,…….. P.S. I destinatari di questa newsletter che aderiscono alla proposta di eleggere domicilio a Gaza, sono pregati, ai fini di dare forza a questa iniziativa, di rilanciare ai propri corrispondenti tale proposta, perché scatenandosi il consenso a questa condivisione ideale delle sofferenze della popolazione palestinese soggetta ad Israele, ne scaturisca una pressione efficace sulla stessa politica del governo israeliano. Continua...

sabato 25 gennaio 2025

SESTO GIORNO

E fu sera e fu mattina: sesto giorno. E infine l’era Trump ha avuto la sua foto notizia, la sua icona: una lunga teoria di deportati avvinti a un’unica catena e avviati verso l’aereo militare per l’espatrio. E Dio vide quanto era stato fatto, ed ecco, era cosa molto cattiva. E in un attimo cadeva miseramente il mito del sogno americano, il mito dell’Occidente Terra di libertà e dei diritti umani. Terra di democrazia da esportazione contro le autocrazie del “resto del mondo” che non ha la grazia di essere Occidente. Lo sappiano gli alleati degli Stati Uniti che hanno nel loro DNA il sacramento della comunione atlantica. Lo sappia Israele che negli Stati Uniti mette la garanzia della propria sicurezza e la fonte della sua politica. Israele che conduce ancora le sue guerre appellandosi alle promesse bibliche, dovrebbe ricordare la deportazione delle sue tribù immigrate in Canaan, quando sui fiumi di Babilonia, il salmista nella trascrizione di Quasimodo, faceva dire agli esuli: “E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore. Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento”. Oggi non solo le cetre dei Migranti, non solo le nostre cetre, ma le cetre di tutto il mondo sono appese agli alberi delle nuove Babilonie della sconfitta umana. Continua...

venerdì 17 gennaio 2025

L'ORA DELLA VERITA'

I partiti religiosi in Israele stanno cercando di impedire la tregua voluta da Trump per fermare la "guerra", cioè gli eccidi, in Medio Oriente. Dunque questa non è l’ora del tripudio per la tregua di Gaza, ma del dolore perché, se essa finalmente arriva, giunge al prezzo di 47.000 uccisi, 110.000 feriti, due milioni di perone braccate ed in fuga, gelate ed affamate, 40 milioni di tonnellate di detriti, e quel pezzo di Paradiso in terra che è la “Striscia” di Gaza, dove doveva scorrere latte e miele, e ciascuno potesse vivere sotto la sua vite e sotto il suo fico senza che nessuno gli incutesse timore (Es. 3, 17; 1 Maccabei, 14, 12) è devastato e stuprato e le case, gli ospedali, le scuole le moschee le chiese e le incubatrici sono distrutte. Né questa è l’ora in cui si possa prevedere se ostaggi e incarcerati senza processo saranno davvero liberati, e se taceranno le armi, quando mezzo governo a Tel Aviv è contrario, e se dalla tregua si andrà al diritto e dal diritto alla pace. Però è l’ora della verità, che si sposa con la giustizia per gli Ebrei, (Prov. 12, 17), che fa liberi i cristiani (Giov. 8, 32), che è rivoluzionaria per i comunisti (Gramsci): è l’ora della verità perché la tregua annunciata, che irrompe insperata sulla scena, fa da mezzo di contrasto per giungere alla diagnosi del male, fa capire che cosa sta accadendo, chi vince e chi perde non solo in Israele ma nel mondo. Anzitutto in America, tornata al centro della scena, dove perde Biden. Ora si capisce perché Biden non è più il Presidente degli Stati Uniti; non perché cadeva sulla scaletta degli aerei, ma perché ha subito una crisi di rigetto dall’America, che con lui rischiava una catastrofe che poteva trascinare il mondo alla rovina. Trump sarà pure un visionario egocentrico, ma spesso l’ “Idiota” è più lucido dell’intelligente, mentre Biden era lui e il suo doppio, una specie di dott. Jekill e mr. Hide, la violenza nascosta, il lupo in veste d’agnello, falco e colomba insieme. È con Biden che l’America aveva detto che la Russia era finita, che doveva essere portata alla condizione di paria, che sarebbe crollata sotto le sanzioni, e che alla fine sarebbe stata assoggettata anche la Cina; è Biden che aveva mandato la NATO ad abbaiare sulla porta di Putin ed ha poi profuso milioni di dollari e inviato armi strategiche per abbatterlo, con la clausola però di non usarle, quando poi alla fine, uscendo dalla Casa Bianca, le ha liberalizzate perché colpissero in profondità il territorio e la patria russa; è Biden che ha telefonato più volte a Netanyahu per fare da paciere, e intanto non solo riforniva Israele, ma gli dava una copertura completa: e mentre Trump minacciava di “scatenare l’inferno” se non si fosse giunti a una tregua, sacrificando anche Netanyahu, Biden forniva al primo ministro israeliano una completa omertà; e mentre Trump, pur di togliersi di mezzo una guerra insieme ad Ursula in Europa è disposto a sacrificare Zelensky, Biden lo incoraggiava a gettare il mondo nella sua guerra, sìcche ora anche l’incubo ucraino potrebbe finire Ma non è Trump. È l’abituale ciclicità della politica americana, il suo doppio standard, colonizzazione e liberazione, messianismo e apocalisse, che non può sopravvivere nel mondo multipolare, dove ci sono la Cina, il Brasile e gli altri BRICS che agli Stati Uniti fanno la guardia, . Ma con la tregua le cose cambiano anche in Israele. Perde Netanyahu, perché aveva detto in tutti i modi di voler “finire il lavoro” a Gaza e in Cisgiordania e magari con l’Iran, e invece questo lavoro non lo può finire, perché un popolo non si finisce mai di distruggere, e il popolo ebraico lo sa meglio di chiunque altro, e lo sanno gli Armeni, i Curdi, i Palestinesi. E perdono anche i partiti religiosi perché, se insistono con Netanyahu a voler finire il lavoro, entrano in contraddizione con se stessi, dividono la società israeliana, già inferocita per la riforma giudiziaria, per le corresponsabilità del 7 ottobre, per la scelta della guerra invece che di salvare gli ostaggi, e si alienano il mondo, mentre condannano e insieme fomentano l’antisemitismo. E perde, purtroppo, il popolo della Diaspora che, almeno in Italia, manca l’occasione di distinguersi dalle politiche suicide dello Stato di Israele (“Il suicidio d’Israele”! di Anna Foa), manca al compito di tornare alle fonti autentiche della propria identità, di vivere in pace tra le Nazioni dopo l’insediamento violento nella terra di Canaan. Infine, con la tregua, se veramente arriva, si interrompe la continuità della deriva storica in atto a questo inizio d’epoca, e tutto torna in movimento, la novità è possibile, e si può dar mano, come dicono gli Ebrei del Gruppo di Studi ebraici di Torino, a “riparare il mondo”. Continua...

venerdì 3 gennaio 2025

GLI AUGURI E I FILTRI DEL COLLE

Dal momento che c’è questa bella tradizione repubblicana del discorso con cui a fine anno il presidente della Repubblica si rivolge a tutti gli Italiani, è bene che gli Italiani ne parlino e lo commentino, secondo le proprie concezioni e speranze per il futuro. Non si può lasciare questa incombenza solo ai partiti, che l’hanno giudicato un discorso meraviglioso, dicendosi tutti d’accordo, anche se ciascuno era d’accordo in realtà con una parte o qualche passaggio del discorso, tacendo sul resto, nel contempo restando in disaccordo tra di loro. Dunque l’unanimità dei partiti, di governo e di opposizione, non aiuta a capire il messaggio, non essendo secondo verità, ma frutto di opportunismo, perché tutti sanno che Mattarella è molto popolare e quini alzare un ciglio per qualche aspetto del suo discorso è cosa rischiosa che può far perdere voti. Per parte nostra crediamo che occorra raccogliere le varie sollecitazioni del presidente della Repubblica e mettere insieme i diversi materiali da lui proposti, mettendoli in relazione nello stesso modo in cui egli lo ha fatto, o anche in modo che può essere diverso, come per il rapporto tra guerra e Costituzione. Per esempio è chiaro che l’entusiasmo dimostrato dalla presidente del Consiglio per il richiamo presidenziale al patriottismo nascondeva l’entusiasmo ben maggiore per la legittimazione che il presidente della Repubblica ha fornito alla crescita della spesa per le armi fino a 2443 milioni di dollari che sarebbe stata causata dall’aggressione russa all’Ucraina, a cui anche noi come Italiani saremmo costretti “per provvedere alla nostra difesa” e per evitare che “vengano aggrediti altri Paesi d’Europa”. Se questa fosse la causa della smodata corsa agli armamenti potremmo quasi tirare un sospiro di sollievo. Non risulta infatti in nessun modo che la Russia voglia muovere guerra a tutta l’Europa, come dà per scontato la signora von der Leien con tutta la sua corte. Non vi è alcuna traccia di ciò nelle esternazioni di Putin, non lo renderebbe plausibile la sproporzione della spesa militare tra la Russia da un lato e gli Stati Uniti dall’altro (senza contare la NATO) che è da 1 a 10, lo dice l’evidente follia che sarebbe per la Russia dover governare tutto il continente europeo, fino al Portogallo, quando già dall’ultimo lembo dell’Europa deve gestire un immenso territorio fino all’oceano Pacifico, e lo dicono le dimensioni stesse rimaste circoscritte e con un impiego limitato di forze della guerra in Ucraina. È un peccato che i filtri del Quirinale non abbiano fatto giungere fino al presidente della Repubblica queste notizie, di cui come custode di una Costituzione che ripudia la guerra dovrebbe essere ben felice. Purtroppo però anche altri e ben più allarmanti e incontrollabili moventi spingono a un crescente riarmo: l’ideologia del profitto illimitato dei fabbricanti e trafficanti d’armi, il nuovo mercato spaziale su cui sta investendo Musk, la volontà di dominio americana che non vuole alcun altra potenza, politica o militare, non solo superiore a sé, ma neanche eguale a sé, il fabbisogno militare di Israele nel momento in cui persegue la soluzione definitiva della questione palestinese, l’ideale “mosaico” del grande Israele ed eventualmente la guerra con l’Iran. Egualmente i filtri del Quirinale avrebbero forse potuto far accrescere l’impatto del messaggio presidenziale ispirando un maggior senso delle proporzioni tra la citazione della foto della bambina morta di freddo a Gaza, riassuntiva di tutto quello sterminio, e il compianto per gli ucraini che i bombardamenti delle centrali elettriche condannano al buio e al gelo. Certo non sarebbe meglio per le disgraziate popolazioni ucraine essere trucidate direttamente piuttosto che attraverso i black out dell’energia; almeno così resta la chance che luce e gas ritornino se Zelensky, così esperto nell’intercettar il gas russo destinato all’Europa, smettesse di costringere il suo popolo al macello e si disponesse a un realistico negoziato di pace, già così compromesso da tutti i suoi spettacolari errori. E su quel tavolo sarà meglio non inorgoglirsi dei propri valori, che come surrogato delle mancate vittorie militari sul campo, dovrebbero procacciare condizioni di privilegio. Appellarsi ai propri valori vuol dire ignorare e screditare i valori degli altri, e dunque negare le ragioni stesse di un negoziato responsabile. Una semplice verità, ignota all’Occidente, ma ben presente nella Costituzione della Repubblica Italiana. Continua...

domenica 10 novembre 2024

LA CRUDELTA' E I VOLTI

lLa vittoria di Trump ha sdoganato una crudeltà che prima era nascosta. L’abbiamo vista con sgomento nei volti di alcuni partecipanti a uno dei consueti talk show televisivi, un professore, un imprenditore, una parlamentare di governo, sia che si parlasse di Gaza sia che si discutesse della “deterrenza” con cui il governo vuol dissuadere i migranti dal venire in Italia suscitando in loro il terrore di finire in Albania e di qui essere rispediti là da dove, per tremende ragioni, sono fuggiti. Sui volti di questi interlocutori televisivi abbiamo visto i tratti di una singolare durezza nell’imperativo della “difesa dei confini”, e più ancora abbiamo visto addirittura un sorriso beffardo di fronte alle immagini degli uccisi, degli scacciati, degli affamati e dei disperati di Gaza con l’alibi di dire che nulla vi fosse di vero. Ci siamo ricordati allora della invocazione di Italo Mancini il cui auspicio, per uscire dai tormenti di questa nostra modernità, era che “tornino i volti”, cioè che si torni a rapportarsi con l’infinito valore e l’unicità di ogni persona, i volti, “questi inauditi centri di alterità che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare”: ma oggi sono i volti di Gaza, i volti nascosti dalla fitta selva di mani alzate per cercare di strappare un frammento di cibo o una ciotola di minestra sfuggiti al blocco degli aiuti impediti dall’assedio per fame. E abbiamo pensato a quello che oggi l’Occidente non vuole vedere dei tormenti che esso stesso ha inflitto e infligge a popoli interi, a milioni di volti, per quella falsa coscienza che esalta la violenza travestita da democrazia e da Stato di diritto come difesa della nostra identità e dei “nostri” valori. È quello che dice Roberta De Monticelli denunciando la “catastrofe intellettuale e morale” in cui si è trasformato il dibattito pubblico sull’eccidio di Gaza, su questa “umanità violata”, come recita il titolo del suo libro dedicato alla “Palestina e l’inferno della ragione”. È il libro che mancava sulla guerra in corso nel Vicino Oriente, della quale sono piene le cronache, mentre non viene scandagliata la sua ragione profonda, la filosofia che la interpreta, la fenomenologia che la spiega: la Palestina come un “nodo del pensiero”. Un libro che perciò non si può fare a meno di leggere perché, se nulla possiamo fare per lenire la sofferenza anche di un solo volto a Gaza o a Nablus, almeno abbiamo il dovere di capire e sapere, per immaginare, sperare e promuovere un altro futuro per Israele, i palestinesi, e anche per noi. Quel futuro che oggi, come spiega la De Monticelli, è oggetto di rimozione, perché come riconosceva un autorevole articolo a più voci pubblicato su Foreign Affairs, c’è un “innegabile” che è anche “indicibile”: l’innegabile è che “una soluzione a uno Stato non è una futura possibilità, esiste già un unico Stato tra il Mediterraneo e il Giordano”, ciò che per Israele è irreversibile benché l’annessione non sia stata dichiarata, e si risolve in un regime di apartheid; ma questo innegabile è “indicibile” perché fingendo che sia ancora in corso il processo per la soluzione a due Stati si può ancora mascherare la contraddizione tra l’ebraicità e la democraticità dello Stato di Israele, come è stato finora concepito. La soluzione è perciò che la realtà innegabile e indicibile sia resa visibile, presa in carico e trasformata attraverso un processo di riconciliazione fino a fare di Israele uno Stato binazionale, con due tradizioni, due culture, due popoli con pieni e identici diritti. Solo allora la crudeltà sarà sconfitta, e torneranno i volti da amare. Continua...

sabato 12 ottobre 2024

L'IPOTESI ESCLUSA

Non hanno conosciuto pausa finora né il genocidio a Gaza, né la guerra in Ucraina, e ciò che è ancora più grave è che non se ne vede la fine, perché sia nell’uno che nell’altro conflitto una delle parti esclude di porvi termine fino a quando non abbia raggiunto il suo obiettivo o, come dice uno di loro, “finché non abbia finito il lavoro”. E l’obiettivo, o il lavoro da finire, è irraggiungibile sia per l’uno che per l’altro: per lo Stato di Israele si tratterebbe di chiudere definitivamente la questione palestinese, estirpando il popolo palestinese da tutta la terra, dal mare al Giordano, che esso considera sua, e lo sta facendo con la devastazione di Gaza programmata con gli algoritmi e guidata dall’Intelligenza Artificiale; l’Ucraina, a sua volta, insieme all’Europa e agli Stati Uniti che ne sono i mandanti, perseguono l’obiettivo della sconfitta o in ogni caso dell’annichilimento della Russia. Dunque dalla crisi innescata da queste due guerre, che danzano sul ciglio di una possibile guerra nucleare e mondiale, non sembra possibile un’uscita attraverso le vie della politica e della razionalità umana. E il discorso di Netanyahu all’ONU del 27 settembre scorso ha dato il colpo di grazia non solo all’idea che possa aver termine la spietata mattanza di Gaza, ma anche che possa esserci un mondo decente nel nostro prossimo futuro. Attribuendone il movente direttamente a Mosè, e quindi a un comando divino, il primo ministro israeliano ha infatti difeso i crimini del suo governo come protesi alla “vittoria totale”. Questa consisterebbe nel dar luogo a un mondo raffigurato in due mappe che egli ha esibito all’attonita assemblea dell’ONU (dimezzata per l’assenza polemica di un gran numero di Stati non gravanti nell’orbita occidentale). Nella sua descrizione queste due mappe sono l’una di benedizione e l’altra di maledizione, la prima è quella di una metà del mondo sotto lo scettro di Israele, dall’Arabia Saudita all’Oceano Indiano, e l’altra siamo noi. Israele ha peraltro cominciato ad attuare questo disegno con l’invasione del Libano, l’assalto alle forze di interposizione dell’ONU, tra cui gli Italiani, e perciò la rottura anche militare con la comunità delle Nazioni, l’attacco all’Iran. Netanyahu non è il primo a fare il mondo a pezzi. L’altro è il Corriere della Sera che ama celebrare le glorie dell’Occidente come quelle che lo dividono dal “resto del mondo”, “democrazie” contro “autocrazie”. Ma c’è anche il mondo teatro della “competizione strategica” indetta dagli Stati Uniti, dove la sfida sta nel mettere al tappeto la Russia e la Cina, c’è l’Europa che manda l’Ucraina a morire e ghettizza i mondi che una volta andava a scoprire, e c’è il vecchio fantasma della cortina di ferro che torna a dividere l’Est e l’Ovest. In un mondo così frantumato sarebbe molto strano che non ci fossero guerre su guerre, infinite, pervasive e non convenzionali. Siamo ancora in grado di uscirne? Se “la casa brucia”, come ha gridato un convegno fiorentino a ciò dedicato, e la politica non è in grado di dare risposte, non se ne deve chiedere conto non solo a questo o a quel governo, a questa o a quella cultura, ma alla stessa modernità fondata sul vecchio presupposto, ben noto a Mosè, di mettere un idolo manufatto al posto di Dio? L’idolo è oggi la tecnologia grazie alla quale, come denunciò papa Giovanni nella “Pacem in terris”, siamo entrati nell’età che si gloria della potenza atomica, e che ora, con l’Intelligenza Artificiale, dà ragione a Heidegger per il quale la tecnica non ha più nulla a che fare con gli strumenti, ma “nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sè non è in grado di dominare”. Messo di fronte a questo abisso, lo stesso Heidegger in una estrema riflessione consegnata alla rivista tedesca “Der Spiegel”, apriva un vertiginoso spazio alla domanda se “solo un Dio ci può salvare”. Era un’ipotesi temeraria, non “politicamente corretta”, in quanto proferita nel cuore di una modernità fondata sull’ipotesi opposta, che “Dio non ci sia e non si occupi dell’umanità”, che provocatoriamente era stata avanzata dal cristiano Ugo Grozio nell’Olanda riformata del XVII secolo per aprire la stagione dell’età adulta dell’uomo. Senonché di questa ipotesi la modernità ha fatto un assoluto e su questo presupposto ha fondato tutta la sua identità, la sua feconda laicità e il dogma del secolarismo, escludendo come dismessa e infantile l’ipotesi opposta. Ma oggi, di fronte alla guerra perpetua e alla minaccia della fine non è forse venuto il momento di rimettere in questione questo assunto, e chiederci se l’ipotesi esclusa della presenza amorevole di Dio nella storia non debba avere la stessa legittimità di quella assunta per vera? Ciò non vuol dire invocare un miracolo, un intervento straordinario da parte di Dio, abbandonarsi a una trascendenza che non possiamo controllare, ma vuol dire sapere come in rapporto con questo Dio gli uomini possano cambiare, possano convertirsi, possano abbandonare i loro propositi di guerra di sterminio e di odio; e questo è possibile perfino se non credono in Dio e se non sanno nulla della grazia, perché come dice papa Francesco con un neologismo spagnolo, Dio “primerea”, cioè arriva col suo amore prima ancora dell’invocazione o del peccato dell’uomo. È questo il messianismo cristiano, fondato sull’incarnazione, sullo “scambiarsi” degli uomini con Dio, sulla vocazione a farsi come lui, di cui parla san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Se rimettiamo in gioco l’ipotesi esclusa, forse possiamo chiedere a noi stessi e agli altri che sono con noi in questa vita, di rimettere in discussione le loro scelte, di rimettere in discussione le loro guerre, di rimettere in discussione la loro idea del Nemico, e dar mano a costruire una società diversa, un mondo diverso, un mondo che non finisca. Continua...

sabato 27 luglio 2024

O i giochi o la guerra

Lo scandalo non è che il Presidente di Israele, Herzog, mentre è in corso il lungo terrorismo di Stato a Gaza, che ai sensi della Convenzione dell’ONU sarebbe già genocidio, sia venuto a Roma e sia stato ricevuto da Mattarella, né che, come di rito, sia stata invocata la soluzione “due popoli due Stati” e la necessità di evitare il rischio dell’allargamento del conflitto. Né sorprende che Herzog sia stato tanto edificato dall’incontro col Capo dello Stato da ringraziarlo “per la sua chiarezza morale e per il suo essere al nostro fianco”. Lo scandalo non è nemmeno che poi, di cortesia in cortesia come si usa tra i governi, egli sia passato da palazzo Chigi, dove la Presidente del consiglio lo ha accolto reiterando “la necessità” dei due popoli e due Stati in Palestina, pur sapendo che questo è ormai uno stereotipo cerimoniale, perché per fare uno Stato palestinese in Cisgiordania e a Gerusalemme Est occorrerebbe che Israele facesse ciò che solo pochi giorni fa, il 20 luglio, ha stabilito la Corte Internazionale dell’Aja, in un parere fornito all’Assemblea Generale dell’ONU. Secondo la Corte la continua presenza di Israele nei Territori palestinesi occupati è illegale ed è un’annessione di fatto a cui Israele deve porre fine, cessando immediatamente ogni attività di insediamento, evacuando tutti i coloni, risarcendo i danni arrecati e restituendo le terre e i beni sequestrati dall’inizio della sua occupazione nel 1967. Richiesta a cui Netanyahu ha risposto che non se ne parla nemmeno perché il popolo ebreo non è conquistatore nella propria terra, né a Gerusalemme né in Giudea e Samaria. Lo scandalo sta nel fatto che passando da Roma Herzog stava andando a Parigi per i giochi olimpici. È nota la tradizione delle Olimpiadi, come alternativa alla guerra o perlomeno come un tempo di pausa della guerra, e tanto più di uno sterminio. Lo scandalo, non certo per il popolo ebreo che è del tutto innocente, ma per lo Stato che se ne arroga la rappresentanza, è di uccidere andando ai giochi, e di partecipare ai giochi uccidendo. È come per la tragedia del Titanic, l’orchestra suonava mentre la nave affondava. È questo il grande pericolo per lo Stato di Israele: ad affondare non è il popolo palestinese, che è abbastanza giovane, resistente e prolifico, ad affondare può essere lo Stato di Israele perché perde il grandissimo ascendente che ha su tutta la comunità internazionale e quando si sarà attenuato il tragico ricordo della Shoà e l’America sarà giunta al declino, rischia di venir meno o di dover usare la bomba. Israele credeva che il pericolo fosse nel dover stare insieme a un altro popolo nella stessa terra, e invece la sua pace e la sua sicurezza starebbe nel vivere in quella terra riconciliato col popolo a cui ha preso le case. Certo si parla di prospettive lontane, e intanto ci si può illudere di garantirsi la sicurezza con “la migliore difesa” che, secondo le nuove strategie atlantiche, “è una buona offesa”. Sono tempi lunghi ma il popolo ebreo è abituato a pensare in termini di millenni: la promessa della terra fatta da Dio ad Abramo e reiterata a Mosè è di tremila anni fa, ed è stata per lungo tempo inadempiuta. Continua...

domenica 7 luglio 2024

VACILLA L'EUROPA DI ARMI E DI GUERRA

Noi amiamo l’Ungheria, non perché l’ama la signora Meloni e nemmeno perché Salvini è entusiasta di raggiungere Orban nel nuovo gruppo di destra, "I Patrioti” del Parlamento europeo. Amiamo invece l’Ungheria perché era quello l’obiettivo da distruggere assegnato all’Italia, per mezzo dei missili nucleari installati a Comiso, nella distribuzione internazionale del lavoro tra i Paesi dell’area atlantica, nel caso fosse scoppiata la guerra atomica. Chissà perché proprio l’Ungheria! Fatto sta che, pur non sapendo che l’obiettivo fosse l’Ungheria, un imponente movimento popolare insorse in Italia contro i missili di Comiso. Solo in Sicilia, per sloggiare i Cruise, furono raccolte un milione di firme. Infine quei missili non furono sparati, l’Ungheria fu salva e anche noi. Fu quella l’ultima volta in cui l’Europa e il mondo rischiarono una guerra mondiale e un’ecatombe nucleare. E ora ci siamo un’altra volta, a causa della insensata decisione europea di tornare a ballare col Nemico e di non voler fare finire la guerra tra la Russia e l’Ucraina, forse per sdebitarsi con gli Stati Uniti che le danno la copertura militare della NATO e che hanno tutto l’interesse, almeno a stare ai documenti della Casa Bianca e del Pentagono, che la guerra continui. Senonché l’Europa sbadatamente ha stabilito che di sei mesi in sei mesi cambi lo Stato che ha la presidenza dell’Unione, e ora questo Stato è l’Ungheria, e l’Ungheria si è permessa di rompere l’unanimità violenta dei Paesi europei, annunziando che tutto il suo semestre sarà dedicato al tentativo di riportare la pace in Europa, ponendo termine, mediante un negoziato, alla guerra tra la Russia e l’Ucraina. Per questo il premier ungherese Orban, come primo atto della sua presidenza, si è recato a Kiev e Mosca, per tentare di propiziare un dialogo tra le due capitali per mettere fine alla guerra. Nessun leader europeo l’aveva fatto prima di lui. Non l'inglese Johnson, che fu il primo a precipitarsi a Kiev per dire a Zelensky che doveva stracciare l’accordo appena fatto con Putin nel negoziato di Ankara, quindici giorni dopo l’inizio della guerra, non il francese Macron che voleva mandare i soldati europei a dar man forte sul terreno all’esercito ucraino in via di estinzione, non il tedesco Scholz che aveva subito seguito Macron nel consentire alla pretesa di Stoltenberg di togliere i vincoli all’uso delle armi della NATO per colpire in profondità il territorio russo. Ma nemmeno l’aveva fatto il presidente Mattarella, che gode della maggior fiducia tra i politici italiani, avendola avuta due volte dal Parlamento per i suoi due mandati e giungendo nei sondaggi al 73 per cento dei consensi; eppure sulla guerra è andato più avanti di tutti dando credito alle più fosche illazioni col dire che la pace deve essere come l’Ucraina la vuole e che se essa fosse sconfitta ci sarebbe una deriva di aggressioni ad altri Paesi ai confini con la Russia e di lì si giungerebbe a “un conflitto generale e devastante” come quello provocato dalla Germania tra il 1938 e il ’39. L’ha fatto invece ora l’Ungheria, suscitando l’ira funesta delle burocrazie europee (ma non della NATO), da Charles Michel, alla von der Leyen, a Borrel, come alla Polonia e alla Lituania; secondo questa, per amor di pace, a Mosca si dovrebbero portare le manette, non le strette di mano. C’è una verità però in tutto questo: l’Europa delle armi e della guerra vacilla, e va in crisi come tutti i giganti armati che hanno i piedi d’argilla; lo sanno bene gli Stati Uniti dal Vietnam all’Afghanistan, lo sa Netanyahu a cui viene meno sul più bello del "suo lavoro” il sostegno dell’esercito, ed ora lo sa l’Europa che per un sassolino lanciato dalla piccola Ungheria entra nel panico, non sa più che fare, e sconfessa la presidenza stessa dell’Unione. > > Continua...