martedì 27 luglio 2010

Alla fine di un regno

di Raniero La Valle


Fini dice che vuole vivere in un Paese dove i giornali possano scrivere quello che vogliono, Berlusconi vuole un Paese dove i crimini, le corruzioni e le concussioni si possano organizzare tranquillamente per telefono, dove giudici carabinieri e guardie di finanze non debbano avere né occhi né orecchi, e l’azione penale sia decisa dall’esecutivo attraverso il filtro di pubblici ministeri separati dalle carriere giudicanti e obbedienti alle logge e ai palazzi del governo.

Nello scontro sulla legge bavaglio ha vinto Fini, il che non significa che la libertà di stampa, il controllo di legalità e lo Stato di diritto siano stati salvati; affinché a vincere sia la democrazia, occorrerebbe che la legge sulle impunità di Stato (ovvero sulle intercettazioni)
 cadesse del tutto, e che le associazioni a delinquere oggi al potere fossero cacciate dal governo. A perdere però è stato sicuramente il presidente del Consiglio, che dopo essere tornato dal suo ultimo viaggio dicendo: “ci penso io”, è finito davanti ai giocatori del Milan a dire che la legge bavaglio, se cade il bavaglio, tanto vale non farla; che il governo non può governare; che un disegno di legge che entra in Parlamento come un cavallo, esce come un cammello; che le leggi approvate dalla sua maggioranza vengono poi vanificate da giudici di sinistra e abrogate dalla Corte di sinistra; che l’ “architettura costituzionale della nostra democrazia” è costruita in modo tale che non si può fare nulla di buono.

Queste cose, dette da uno qualunque in un bar dove si discute di calcio, sarebbero solo un tributo recato dall’ignoranza al qualunquismo, ma dette dal capo del governo indicano solo due possibilità: o questo governante deluso se ne va prendendo atto del fallimento, oppure traduce la sua frustrazione in un progetto golpista.

Siamo pertanto alla fine di un regno, col rischio che il regno si trasformi in regime. Purtroppo la nostra democrazia è stata privata delle uscite di emergenza, e inutilmente precipita la fiducia nei sondaggi se non si può votare una sfiducia in Parlamento. Ma quello che in ogni caso oggi finisce è il mito mediatico di un arcitaliano che può tutto grazie alla ricchezza e al potere, si propone come modello da imitare, promette brioches a tutti e se le case crollano non importa perché ci sono gli alberghi.

Nessuno, però, ha preparato un’alternativa. L’unica cosa che si sta preparando in Italia è una metamorfosi della destra, che la renda magari più presentabile, ma non più capace di offrire soluzioni alla crisi. La sinistra è fuori gioco perché da molti anni si sta lavorando per rendere impensabile un’alternativa reale. Esclusa ormai la pianificazione economica di stampo marxista, rimasta nell’impolitico l’alternativa radicale di matrice cristiana, utopica o terzomondista, l’unica alternativa oggi conosciuta alla globalizzazione selvaggia e al sistema di profitto e di guerra sarebbe quella di una forte ripresa dell’iniziativa e della regolazione pubblica, per indirizzare l’economia a fini sociali e riportare dalle banche alla politica la responsabilità del bene comune. La sola restaurazione democratica, per quanto indispensabile, non basta, e anche elettoralmente sarebbe inadeguata a mobilitare il consenso. Tuttavia questa possibile risposta viene oggi demonizzata e screditata, come espressione di una vecchia cultura, novecentesca e statalista, fonte di corruzione e buona sola a foraggiare “la casta”. Non importa che questa sia stata la cultura dei costituenti, e abbia innervato la concezione dello Stato democratico da Dossetti a La Pira a Moro, alla sinistra riformista comunista o lombardiana, alle encicliche sociali da Giovanni XXIII a papa Wojtyla. Essa viene bollata come “socialdemocratica”; e da quando a sinistra si è fatta la sciagurata scelta del bipolarismo si è considerata non più praticabile perché non in grado di prevalere sulla egemonia del mercato liberista, sul vangelo della competitività e sulla demagogia dello Stato leggero e senza tasse.

Nel Partito Democratico il gioco al massacro delle vecchie culture, in nome della fusione tra tradizione ex comunista ed ex cattolico-democratica, ha lasciato il partito del tutto senza cultura, e priva di ogni plausibile ragione la sua pretesa “vocazione maggioritaria”; il generoso tentativo di Bersani è contrastato dal nucleo ideologico veltroniano che milita per un neocapitalismo immune da politiche “intrusive”, e che considera “ambigua” la stessa “categoria di democrazia”, come scrive Stefano Ceccanti sul Riformista, a causa dell’eredità dossettiana; occorrerebbe invece passare a un regime di “Poliarchia”, vindice dell’egemonia del politico e “vero antidoto al virus statalista”. E tanto perché sia chiaro di che si tratta è stato costituito un comitato formato anche da dirigenti democratici intenzionato a battersi contro i referendum sull’acqua per non regalare, dicono, “l’acqua alla casta”.

Senza poter proporre un’alternativa, minato dall’interno dalle culture del nemico, con una leadership insidiata dal ricatto delle primarie, con una legge elettorale truffaldina, difficilmente il PD, a meno di un colpo di reni, potrà impedire la successione della destra alla destra.

Raniero La Valle

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