L’IRRESISTIBILE ATTRAZIONE DEL VECCHIO
Quale
Senato a palazzo Madama
di Raniero La Valle
Nella nuova
modalità della politica fatta a passo di corsa, e forse proprio perché non ci
si può stare troppo a pensare, c’è il rischio di trasformare la discussione sui
fatti in una discussione sulle parole. Per esempio le parole “svolta
autoritaria”, usate dai critici delle riforme, possono essere ammesse per
descrivere il fatto che mezzo Parlamento è abolito, e l’altro mezzo è eletto a
suffragio ristretto, sicché quasi mezzo Paese, per trucchi, premi e
sbarramenti, non può avervi rappresentanza? No, sostiene il giovane governo,
non sono cose da dirsi, e le respinge al mittente con l’argomento di non aver
giurato sulla Costituzione dei professoroni, anche se ha giurato sulla
Costituzione fatta dai professorini.
Lasciamo stare
dunque le parole, e stiamo ai fatti. I fatti sono le innovazioni istituzionali,
intraprese con vitale ardore. Si direbbe: per andare avanti. E tutti plaudono
per questo. Ma è con grande stupore che
si vede come queste riforme giovanili sono tutte vecchie, si gloriano di essere
quelle stesse riforme già proposte trent’anni fa e finora abortite, e quando
non hanno precedenti così prossimi affondano le loro radici ancora più lontano
nel tempo.
Si prenda ad
esempio la proposta di rafforzare i poteri del primo ministro, di rendere la
Camera più servizievole rispetto alle esigenze operative del governo. Ma questa
è una cosa che si sta facendo da Craxi in poi, che ha perseguito per vent’anni
Berlusconi, che si è attuata attraverso drastiche forzature dei regolamenti
parlamentari, fino ai tempi contingentati, ai dibattiti con ghigliottina, ai
calendari parlamentari che sembrano un orario ferroviario, con la data e l’ora
precisa fissata per l’entrata e l’uscita delle leggi. Il problema sarebbe
invece quello di inventare nuove procedure non autoritarie di cooperazione tra
Camera e governo, in cui la fiducia non sia posta per stroncare il Parlamento, ma
per renderne più rigoroso e sobrio l’apporto a vantaggio della legislazione e
dell’esecutivo.
La legge elettorale è vecchia di novant’anni
Si prenda la
legge elettorale. Qui il ritorno è al 1924, alla legge Acerbo che dava i due
terzi dei seggi (furono 355) al listone fascista vincente.
Però quella legge
non sbarrava la porta alle altre forze politiche della tradizione italiana e
furono dodici i partiti non fascisti che giunsero in Parlamento. C’erano anche
Gramsci, Matteotti, De Gasperi. Per questo il fascismo, avendone i numeri, dovette
fare il regime. Il problema oggi sarebbe non di peggiorare
Si prenda il
decreto sul lavoro. Qui il ritorno è al 1891, alla situazione descritta dalla “Rerum Novarum” di Leone XIII, quando si
diceva che “la quantità del salario la determina il libero consenso delle
parti: sicché il padrone – si scandalizzava il papa – pagata la mercede, ha
fatto la sua parte, né sembra debitore d’altro”; e quando - soggiungeva
l’enciclica – accadeva che gli operai, privi di ogni tutela associativa,
“rimanessero soli e indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una
sfrenata concorrenza”. Oggi almeno per trentasei mesi i lavoratori assunti con contratti a termine senza altri
obblighi da parte dei padroni sono appunto in questa condizione, e questa
sarebbe la riforma, quando invece la novità sarebbe stata di avviare un
processo per cui il lavoro, come vorrebbe il costituzionalismo e come chiede la
Chiesa, non fosse abbandonato come una merce al libero gioco della domanda e
dell’offerta, ma gli fosse data effettività come diritto.
Si prenda
infine la questione del Senato. Qui il tripudio è maggiore perché sembra che da
alcuni decenni gli italiani non anelassero ad altro che alla sua soppressione.
Tuttavia con la proposta del Senato delle Autonomie l’irresistibile attrazione
del passato sembra spingere ancora più indietro, fino alla situazione descritta
nel “Gattopardo” quando nel 1860 il nobile cavaliere piemontese Aimone
Chevalley di Monterzuolo scese fino a Donnafugata per chiedere al principe di
Salina di andare a sedere nel Senato come notabile siciliano “prescelto dalla
saggezza del Sovrano”, per rappresentare il vecchio regno nel nuovo, in modo che
tutto cambiando, tutto restasse immutato.
Si dovrebbe
invece rovesciare lo sguardo. Se il vero Senato deve essere sacrificato, allora
invece di un Senato di ex province, di campanili, di regioni e di notabili di
nomina quirinalizia, una grande riforma sarebbe quella che desse vita a un
Senato dei popoli, che proiettasse l’Italia oltre la dimensione nazionale ed
europea, e la facesse promotrice di una Costituzione mondiale tesa a realizzare
“un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. Questo è
un obbligo costituzionale derivante alla Repubblica dall’art. 11 della Carta; e
quest’obbligo, benché abbia ispirato e suscitato straordinarie iniziative ed
esperienze dal basso, sia di movimenti popolari che di Enti locali, non ha
ancora trovato un organo istituzionale che lo assuma e lo onori.
Mentre c’è una
globalizzazione che attende la sua idea fondatrice, una comunità umana che deve
assumere la responsabilità della conservazione e della sostenibile evoluzione
del mondo, un’organizzazione delle Nazioni Unite che deve ritrovare il suo
spirito e la sua spinta propulsiva originaria, a Roma potrebbe insediarsi un
Senato dei popoli per redigere e
proporre una Carta dell’epoca nuova. Esso potrebbe essere formato da due
rappresentanti, una donna e un uomo, di ciascuno dei 193 Stati membri dell’ONU,
dei due Stati non membri, Santa Sede e Palestina, e da alcuni rappresentanti
della Conferenza delle Nazioni senza Stato d’Europa (CONSEU) e
dell’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO). Almeno
all’inizio, molti di questi rappresentanti potrebbero essere gli stessi
diplomatici di questi Paesi e popoli già accreditati a Roma. L’Italia, oltre ai
suoi due rappresentanti, potrebbe fornire al Senato dei popoli un collegio di
giuristi e altre persone di esperienza per un supporto culturale politico e di
ricerca ai lavori dell’assemblea.
Se veramente
si vuole il nuovo, se non si vuole essere “vecchi, vecchissimi”, come diceva di
sé e dei suoi siciliani il principe di Salina all’inviato piemontese, non si
deve riciclare il vecchio ma rispondere con nuove istituzioni e idee a esigenze
e a speranze nuove.
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