martedì 12 maggio 2015

GIOIA E SPERANZA, MISERICORDIA E LOTTA


A CINQUANTA ANNI DALLA GAUDIUM ET SPES

Relazione di Raniero La Valle all’Assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”

Roma, 9 maggio 2015

 Cari Amici,
quando tre anni fa abbiamo cominciato i nostri incontri per celebrare i 50 anni dal Concilio, e abbiamo previsto di giungere a parlare della Gaudium et Spes, abbiamo corso un grosso rischio. Perché se nel frattempo non fosse successo niente, se non fosse arrivato papa Francesco, oggi avremmo rischiato di fare dell’archeologia.
Avremmo parlato di un documento ormai vecchio, obsoleto, che non era piaciuto neanche allora ai migliori protagonisti del Concilio, per una sua certa dipendenza mondana, per un suo ottimismo della volontà che sembrava non fondato ed ingenuo, per un suo evangelismo debole e per la mancanza di un’intelligenza messianica; un documento che aveva condannato la guerra totale ma non aveva messo al bando l’atomica, che aveva accondisceso alla deterrenza e relegato in una nota a piè di pagina la Pacem in terris, che si era accorto dell’amore umano tra i coniugi ma poi aveva lasciato al papa di decidere come dovessero farlo; e mentre il nostro movimento aveva preso il nome della Chiesa dei poveri, i poveri nella Chiesa oggi starebbero ancora nelle catacombe, come dalle catacombe era uscito il “patto” dei vescovi più conciliari sulla povertà della Chiesa; i poveri sarebbero nelle catacombe e non si riunirebbero invece in Vaticano nell’aula del “vecchio Sinodo”, non si farebbero il bagno e la barba sotto il colonnato di san Pietro, non andrebbero al concerto ai primi posti nell’aula Paolo VI e non sarebbero invitati a visitare la cappella Sistina, dato che anch’essi hanno diritto non solo al pane ma anche alla bellezza.

Il rischio dell’archiviazione del Concilio

E se ancora fossimo nel deserto in cui eravamo tre anni fa, il Concilio stesso sarebbe oggi dilaniato tra le diverse ermeneutiche, sarebbe rimosso come un “non-evento”, sarebbe esorcizzato perché, come aveva detto Paolo VI, attraverso le sue fessure il fumo di Satana era penetrato nel tempio di Dio, e infine sarebbe sostituito dal Catechismo della Chiesa cattolica del 1992, che secondo il cardinale Levada e  Benedetto XVI doveva essere assunto come la vera ricezione del Concilio nell’anno della fede 2012; e talmente il Vaticano II avrebbe dovuto essere considerato ormai chiuso e archiviato che alcuni tra noi avevano pensato che ci volesse un Vaticano III.

Tutto questo abbiamo rischiato di vivere oggi; abbiamo rischiato di riunirci come carbonari di una Chiesa che non c’è, di ricordare un Concilio ormai “digerito”, per usare un’espressione di Benedetto XVI, avremmo rischiato di rievocare una Chiesa che aveva parlato di gioia e speranza, senza avere però oggi né gioia né speranza.
Ed ecco invece che quello che poteva essere un sopraluogo archeologico diventa un affacciarsi sul futuro, e noi oggi non siamo un’assemblea di nostalgici, ma siamo dei viandanti che con maggiore lena possono riprendere il cammino.
E questo si verifica perché mentre la Gaudium et Spes, come ha scritto Giuseppe Ruggieri nell’articolo che sta sul nostro sito e che avete nella cartella, non era riuscita a definire i “segni dei tempi” e a farne la teologia, ecco che il segno dei tempi è accaduto, infischiandosene delle nostre ecclesiologie.
È un segno dei tempi che mostra che c’è una dinamica divina nella storia, e che l’ “oggi” di Dio non è mai come l’ieri di Dio, e nemmeno come l’ieri dei suoi figli, e per questo i profeti di sventura hanno torto, e tutto può sempre accadere.

Concilio e papa Francesco, un unico evento

Il segno dei tempi ha preso la figura di papa Francesco e questo ormai lo sappiamo, e ne avevamo preso atto già l’anno scorso.
Ciò che di più ora sappiamo, è che il pontificato di Francesco non è un fungo spuntato nella Chiesa, ma non è altro che il Concilio che riprende e continua. Concilio e papa Francesco non sono più due eventi a distanza di 50 anni l’uno dall’altro, ma sono ormai un unico evento..
Questo pontificato si rivela oggi come parte di un processo che è cominciato l’11 settembre 1962 con il discorso giovanneo sulla Chiesa di tutti e specialmente dei poveri, è continuato con la Gaudet Mater Ecclesia dell’11 ottobre e col Concilio, è giunto con la Gaudium et Spes alla tappa della chiusura del Concilio l’8 dicembre 1965 e poi, dopo una traversata nel deserto durata dieci anni di più dei quaranta regolamentari, attraverso la Evangelii Gaudium giungerà ora all’appuntamento dell’8 dicembre 2015, quando si apriranno le porte sante del Giubileo.
E allora qui veramente continua il Concilio, qui la Chiesa veramente riparte esattamente dal punto in cui il Concilio si era interrotto. Il Concilio infatti si era occupato della Chiesa, per rispondere alla domanda che le aveva posto il cardinale Montini: “Chiesa di Cristo che cosa dici di te stessa?”, ma il suo vero fine pastorale, che gli aveva dato papa Giovanni, era quello di ripresentare al mondo il volto di Dio (il “tesoro” della fede), in quel modo per cui la nostra età potesse comprenderlo: ea ratione quam tempora postulant nostra; ed ecco che ora Francesco gioca tutto il suo pontificato, il suo programma, la sua Chiesa nel far noto al mondo il volto di Dio. Un volto che è il volto della misericordia, misericordiae vultus, e per questo indice il Giubileo.
Ma lo programma in modo tale che non si apriranno solo le porte delle quattro basiliche romane, ma di tutte le cattedrali e le concattedrali e i santuari e le “chiese significative” del mondo: perché questa volta non si tratta di far entrare dei pellegrini a lucrare indulgenze, questa volta si tratta di far entrare la misericordia. E dovrebbero allora aprirsi non solo le porte delle chiese, ma anche delle case, e anche dei cuori, al di là ormai della divisione del mondo tra sacro e secolare, tra religioso e laico, che non è cosa cristiana; tutte le porte dovrebbero dilatarsi e divenire Porte di Misericordia, obbedendo al Salmo 24:
                                                   Alzate o porte la vostra fronte
                                                   Alzatevi soglie antiche
                                                   Ed entri il re della gloria.
A questo serviva il Concilio, a questo è proteso il pontificato di Francesco, a riaprire le porte perché possa entrare il re della gloria, e in tal modo sia riaperta nella modernità la questione di Dio.

La gioia

Così ristabilito il nesso tra il Concilio e la Chiesa di oggi, veniamo alla Gaudium et Spes, vediamo che cosa essa può dire oggi per noi.
Di questo parleremo tutto il giorno. Io vorrei ora fermarmi solo alle quattro parole che danno il via al documento e che ne esprimono il senso: Gaudium e spes, luctus e angor, gioia e speranza, lutto ed angoscia.
Prima di tutto dalla Gaudium et Spes arriva la parola della gioia. È una parola che attraversa il tempo, quasi a indicare qualcosa che dura sempre, mentre il resto finisce. Gaudet Mater Ecclesia, gioisce la madre Chiesa, diceva Giovanni XXIII della Chiesa riunita a Concilio, Gaudium et Spes dice la Costituzione pastorale, Evangelii Gaudium, dice il documento programmatico del papa argentino, che è la nuova Regola francescana – nel senso di tutti e due i Francesco -  per la vita della Chiesa di oggi. Perciò si va di gioia in gioia. Non solo “da fede a fede” (Rom. 1, 17), ma da gioia a gioia.
Però c’è una differenza: la gioia della Gaudium et Spes era la gioia che la Chiesa rinveniva nel mondo e che dichiarava di voler condividere con gli uomini del nostro tempo e soprattutto con i poveri.
La gioia della Evangelii Gaudium è invece la gioia che la Chiesa vuole dare agli uomini del nostro tempo e soprattutto ai poveri, ed è la gioia del Vangelo.
Qui la gioia è vista come bene da procurare, da acquistare; in questo senso la gioia, la felicità, non è una cosa che capita, che può arrivare, ma è un progetto, è uno scopo, è l’oggetto della ricerca umana.
La gioia così intesa non è pertanto un fatto solo personale e privato, secondo i canoni dell’ideologia liberale, ma è un bene pubblicamente riconosciuto, che sta a cuore alla società, tanto è vero che il diritto al perseguimento della felicità è sancito dalle Costituzioni, a cominciare dalla Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776; tanto è vero che il crearne le condizioni è il compito alto della politica in quanto essa sia ordinata al bene comune (il “bonum humanum simpliciter”, come diceva il padre costituente Giuseppe Dossetti); tanto è vero che il rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto la impediscono è la ragion d’essere della democrazia sostanziale, come sta scritto nell’art. 3 della Costituzione italiana.
La felicità è anche la promessa e il fine stesso delle religioni, o almeno del cristianesimo e del Dio cristiano, e non è solo una felicità per l’altra vita, perché anzi il Dio di cui parla Francesco non vuole che si rinunci nemmeno a un giorno di felicità sulla terra, come dice proprio all’inizio la Evangelii Gaudium citando il Siracide: “Figlio, per quanto ti è possibile, tràttati bene… Non privarti di un giorno felice” (Sir. 14, 11-14), cioè - vuol dire - amatevi, non solo amate gli altri, amatevi con la stessa tenerezza con cui ama voi il Dio che vi è padre.
Ora, qual è la gioia che secondo il progetto del pontificato di Francesco la Chiesa dovrebbe arrecare, come suo specifico dono, all’umanità del nostro tempo?
Io credo che sia la gioia di poter tornare a credere.

Una gioia che si era perduta nei secoli

Nel Novecento sembrò che questa gioia ci fosse preclusa. Quindici anni dopo la conclusione del Concilio, in un libro del 1980 Italo Mancini, un grande filosofo e amico nostro che certamente oggi sarebbe con noi se non fosse venuto a mancare, poneva la domanda cruciale: “Come continuare a credere?”[1].
Si era in piena secolarizzazione e la diagnosi che egli faceva era che data la cultura e la situazione del tempo era quasi impossibile credere.
Che cosa era successo? Era successo che era venuta a concludersi un’epoca storica nella quale le Chiese avevano cercato di mettere il mondo sotto il sequestro del sacro, e il mondo aveva reagito mettendo Dio tra parentesi e facendo a meno di lui.
È stato questo lo scontro della Chiesa con la modernità, cominciato, come ha ricordato Benedetto XVI, col processo a Galilei. Facendo un bilancio del Concilio, il 22 dicembre 2005, papa Ratzinger aveva detto che il rapporto della Chiesa con la modernità si era rotto su tre fronti: quello tra la Chiesa e le scienze moderne, non solo le scienze naturali ma anche la scienza storica, quello tra la Chiesa e lo Stato moderno, cioè il diritto, quello tra la fede cristiana e la pluralità delle religioni del mondo, e dunque tra verità e libertà religiosa, tra obbedienza e libertà.
Era dunque accaduto che mentre l’umanità era entrata in un’ “epoca nuova”, come la definisce Bertolt Brecht nella sua “Vita di Galileo”, la Chiesa e il Dio nel cui nome essa parlava si erano messi di traverso, come se il Vangelo, la fede, Dio fossero un impedimento, un’interdizione, un intralcio per gli sforzi dell’uomo che costruiva un mondo più consapevole, più avanzato, più umano. Né il Dio della cristianità arrecava la pace, e anzi non impediva la guerra tra gli stessi principi cristiani.
Ma la modernità non accettò di essere fermata. Non si poteva arrestare lo sviluppo storico. Scienza, politica, diritto, pluralismo e libertà umana dovevano andare avanti. E se c’era un Dio che lo impediva, quello doveva essere un Dio frainteso, un Dio sbagliato.
Così furono uomini cristianissimi, educati dalle Chiese, imbevuti del Vangelo, spesso addirittura preti e pastori, a cominciare dal calvinista olandese Ugo Grozio, che trovarono la soluzione; e questa fu la scelta di andare avanti a costruire la storia “come se Dio non ci fosse”: anche nella blasfema ipotesi - come scrisse Grozio nel suo “De iure belli ac pacis” nel 1625 – “che Dio non ci fosse o non si occupasse dell’umanità”. E questa fu la formula della laicità che dura tuttora, e che governa la nostra cultura: un’ipotesi, data come una finzione e considerata infondata da coloro stessi che l’avevano proposta.
Così Dio fu esiliato, anche se il Dio esiliato era in realtà un Dio artefatto, non credibile, e travisato per come veniva presentato dalle Chiese; un Dio che peraltro si faceva esiliare, perché è un Dio discreto, un Dio che si offre ma non si impone, non è invadente; è sul suo esempio che papa Francesco dice che “l’ingerenza spirituale nella  vita personale non è possibile”. E durante il lungo rifiuto cattolico della modernità, dal processo a Galileo al Sillabo, al non expedit, alla Humanae vitae, prima se ne andarono gli scienziati, poi se ne andarono i giuristi, poi se ne andarono gli operai (e il cardinale Suhard scriveva a Parigi: “Agonia della Chiesa?”), poi se ne andarono le donne e infine se ne sono andati i giovani, che non si sposano più, non battezzano i figli, non leggono la Bibbia, non hanno la fede tra i loro problemi e molti non sospettano più nemmeno l’esistenza di culture religiose, Insomma, come scriveva Mancini citando Nietzsche da “La gaia scienza”, abbiamo vuotato il mare, oscurato il cielo, strusciato via l’orizzonte, gridato con il folle “Dio è morto”[2].
Ma questa divaricazione tra il mondo e Dio non è stata priva di conseguenze: perché senza dubbio questa età moderna che ha fatto a meno dell’ ”ipotesi Dio”, ha fatto straordinarie conquiste, ma è anche finita nei totalitarismi, nelle guerre e nei genocidi del Novecento.
La Gaudium et Spes, giunta alla fine del Concilio, doveva essere l’atto solenne con cui la Chiesa, anche al prezzo di una discontinuità nel suo magistero – soprattutto rispetto al magistero pontificio dell’Ottocento – si riconciliava con la modernità e dava inizio a un’epoca nuova.
Ma secondo Benedetto XVI la Gaudium et Spes non era riuscita a far questo. In un articolo inedito pubblicato sull’Osservatore Romano dell’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, Benedetto XVI aveva sostenuto  che esso non era riuscito a cogliere il dato essenziale dell’età moderna: «La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo – scriveva -  a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale».
Dunque secondo Benedetto XVI la Gaudium et Spes aveva fallito proprio nella questione cruciale del Concilio, il rapporto della Chiesa col mondo moderno, il mondo huius temporis.
Se ciò è vero, questo è dunque un compito che spetta alla Chiesa di oggi, alla Chiesa di papa Francesco; è con lui che veramente deve portarsi a compimento la riconciliazione della Chiesa con il mondo di questo tempo, e nello stesso tempo il giudizio su di esso.
È con lui che può aprirsi un’epoca nuova, successiva all’età moderna. Quest’epoca dovrebbe essere quella nella quale venga meno la finzione del “come se Dio non ci fosse”, l’epoca in cui Dio venga liberato dalle maschere e dai travisamenti in cui era stato sfigurato, e venga annunciato il Dio della misericordia e nonviolento, libero e liberante, e al mondo venga così restituita la gioia di poter ricominciare a credere:

La speranza

La seconda parola che viene dalla Gaudium et Spes è la speranza. Quello che fa la Gaudium et Spes riguardo alla speranza non è soltanto di riconoscere quel tanto di speranza che è già presente negli uomini e di condividerlo con loro, ma di offrire motivi di attendibilità alla speranza; ed è in forza di questa speranza più credibile che oggi la Chiesa di Francesco può dare nuove ragioni di speranza in un tempo di disperazione.
Ci sono due modi o statuti della speranza, prima e dopo il Concilio. Per comprendere questo cambiamento avvenuto col Vaticano II occorre guardare a quella che è stata l’antropologia del Concilio.
Nell’articolo molto bello del teologo Giuseppe Ruggieri, che già abbiamo citato[3], egli lamenta la debolezza ermeneutica della Gaudium et Spes. Essa non avrebbe saputo tematizzare i segni dei tempi né avventurarsi in una rifondazione messianica e cristologica del rapporto tra fede e storia, rifugiandosi piuttosto sul terreno più familiare dell’antropologia; e in questa riduzione antropologica avrebbe cercato le risposte che avrebbero meritato un ben più profondo scrutinio teologico. È possibile che sia andata così. C’è da dire però che proprio nella nuova comprensione antropologica della Gaudium et Spes e di tutto il Concilio c’è a mio parere la rivoluzione copernicana nel rapporto tra la fede e la storia e si rende ragione di una speranza che altrimenti non sarebbe storicamente plausibile.
L’antropologia giunta fino al Concilio – ma rimasta anche dopo a sinistrare i catechismi vigenti – era un’antropologia pessimistica, tributaria della dottrina agostiniana del peccato originale, che aveva suggerito a Nietzsche l’accusa al cristianesimo di essere la religione  della décadence e della debolezza.
Secondo questa antropologia l’uomo sarebbe stato sfigurato e rovinato nella sua stessa natura a causa del primo peccato; in conseguenza di ciò l’uomo correrebbe tutta la sua avventura storica non nella forma in cui era uscito dalle mani di Dio, ma in una forma decaduta, contraffatta, contaminata, per cui in realtà non sarebbe in grado, con le sue forze, di adempiere al comando di Dio di custodire la terra e di gestire la storia.
Questa antropologia pessimista ha avuto enormi ripercussioni sulla vita dell’uomo sulla terra; le stesse istituzioni politiche - lo Stato - sono state fondate sull’idea di coazione, di repressione, perché si trattava di porre rimedio alla congenita cattiveria umana che, lasciata a se stessa, porterebbe alla legge della giungla, alla uccidibilità generalizzata, alla lotta di tutti contro tutti, all’ “homo homini lupus”; per questo è stato inventato l’antidoto, il Leviatano, che offre sicurezza e toglie libertà. Questo è lo Stato, così come sarebbe nato, secondo Hobbes, un pharmakon che è nel contempo medicina e veleno; questa è la politica come guerra, e questo è ciò che nel Novecento ha portato un filosofo come Heidegger a dire che l’uomo non ce l’avrebbe fatta a tenere in piedi la storia e a chiedersi se “solo un Dio” ci poteva salvare, cioè solo un miracolo. E se poi invece, facendo appello a tutte le sue risorse, l’uomo avesse voluto veramente padroneggiare la storia, farsi artefice del suo destino, in base a questa antropologia veniva accusato di mettersi al posto di Dio, di presumere di fare a meno della grazia, era ricattato con l’accusa di cadere nell’eresia pelagiana, di credere all’autosufficienza umana.
Questa intimazione all’uomo di restare nei ranghi, di non osare la libertà, non è stata solo della Chiesa cattolica: ancora nella prima assemblea ecumenica di Basilea del 1989 sulla pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, le Chiese europee denunciavano la crisi dell’Europa, le minacce che erano rivolte alla giustizia, alla pace, all’ambiente, ma la colpa di tutto ciò sarebbe stata in una autoesaltazione dell’uomo, in una cieca fiducia nel successo umano, in una eccessiva espansione dell’azione umana, espressione di un uomo messosi al di sopra di tutto e pronto a sfruttare il mondo creato anziché averne cura e coltivarlo, anche se poi dissero dell’uomo, citando San Gregorio Nazianzeno, che “Dio lo ha posto sulla terra come un nuovo angelo”, quindi tanto perverso non doveva essere.
L’antropologia del Concilio supera questo stereotipo dell’uomo prometeico, e lo ritiene  invece capace di essere responsabile della sua storia, di costruire strade di giustizia e di pace sulla terra,  di aprire varchi attraverso cui, per dirla con Walter Benjamin, possa entrare il messia. Senza cadere nell’accusa di pelagianesimo, senza cedere al pessimismo antropologico della “massa dannata”, la Gaudium et Spes fa sua “la convinzione che l'umanità non solo può e deve sempre più rafforzare il suo dominio sul creato, ma che le compete inoltre instaurare un ordine politico, sociale ed economico che sempre più e meglio serva l'uomo e aiuti i singoli e i gruppi ad affermare e sviluppare la propria dignità” (Gaudium et Spes, n. 9); inoltre la Costituzione pastorale dice con tranquilla coscienza che “quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cercano di migliorare le proprie condizioni di vita, corrisponde alle intenzioni di Dio” (n. 34).
Dunque non c’è nessun prometeismo condannato dal Concilio. Al contrario l’uomo, non sovvertito nella sua natura, non abbandonato da Dio nemmeno dopo il peccato, non è una canna sbattuta dal vento, non è incapace di perseguire il bene e di governare i processi. Perciò l’uomo può farcela a istituire ordinamenti di giustizia, a promulgare Costituzioni, ad attuare il diritto e costruire la pace. Come dice la Gaudium et Spes citando il Siracide, Dio “ha messo l’uomo in mano al suo consiglio” e nella misura in cui “vengano suscitati uomini più saggi” è possibile far fronte a una situazione in cui “è in pericolo il futuro del mondo” (Gaudium et Spes n. 15).
E qui è quasi plateale il passaggio dalla vecchia alla nuova antropologia. Perché quello stesso versetto del Siracide che la Gaudium et Spes traduce: “Dio ha messo l’uomo in mano al suo consiglio”, le vecchie versioni della Bibbia, compresa quella ancora in uso della CEI, lo traducono come se si trattasse di una punizione: “Dio lasciò l’uomo in balia del suo proprio volere”, che è come dire abbandonato a se stesso e stregato dal potere. Al contrario il messaggio della Gaudium et Spes è che Dio si fida dell’uomo e l’uomo può farcela a combattere contro l’ingiustizia e a costruire la pace.  Un ottimismo che non ha la sua origine in un’analisi sociologica, ma in un’antropologia cristologica, che culmina nell’affermazione della Gaudium et Spes secondo la quale “con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”. Dove “ogni uomo” vuol dire non solamente i cristiani, ma “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (G.S. n. 22). In questa visione l’umanità si realizza tutta insieme nel suo divenire e la perfezione non è immaginata come qualcosa che stava all’inizio, e che è stata perduta, ma come una pienezza che sta nel futuro, verso il quale la Chiesa ormai, come dice la Costituzione pastorale, guarda in una prospettiva non statica, ma evolutiva (G. S. n. 5).
In questo processo l’opera di Dio e l’operazione umana sono congiunte. E questo è anche il messaggio di papa Francesco, questa è la ragione che egli dà alla speranza, che non è solo l’attesa che qualcosa accada, ma è anche la lotta per farla accadere.  
Per questo egli ha potuto dare speranza ai movimenti popolari ricevuti in Vaticano il 28 ottobre 2014; e la speranza dipende dal fatto che i poveri non sono solo quelli che subiscono l’ingiustizia, ma sono quelli che lottano contro l’ingiustizia:Non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. Non stanno neppure aspettando a braccia conserte l’aiuto di ONG, piani assistenziali o soluzioni che non arrivano mai, o che, se arrivano, lo fanno in modo tale da andare nella direzione o di anestetizzare o di addomesticare, questo è piuttosto pericoloso. Voi sentite che i poveri non aspettano più e vogliono essere protagonisti; si organizzano, studiano, lavorano, esigono e soprattutto praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri”. Ed è perciò che il papa mentre li guarda con misericordia, “misericordiando” come dice lui con uno dei suoi neologismi, li incita a continuare la lotta: “sigan con su lucha”; una lotta che non si arrende a un’economia che uccide, al denaro che governa e alla società dell’esclusione e degli scarti, e che deve continuare finché tutti abbiano un lavoro, la terra, la. casa.

Il lutto e l’angoscia: non basta prenderne atto

E qui siamo oltre la Gaudium et Spes, qui non ci si ferma alla presa d’atto del luctus e dell’angor, del lutto e dell’angoscia che devastano la terra, né solo si esorta a una inerte speranza, qui si apre il cantiere della gioia e si approda alle visioni messianiche della giustizia e della pace sulla terra.
Ed è molto significativo che sia un papa gesuita a vedere nell’azione umana e nella lotta dei poveri le vie della realizzazione delle promesse messianiche.
In tal modo infatti Papa Francesco rovescia l’accusa di pelagianesimo che Pascal aveva fatto ai gesuiti. Pascal, con la sua vicinanza ai giansenisti e la sua contrapposizione ai gesuiti è quel pensatore pessimista secondo il quale l’uomo corrotto, che porta in sé le conseguenze del peccato originale, non può costruire una società cristiana. Postulando il contrario, la dottrina dei gesuiti avrebbe portato secondo lui all’eresia pelagiana. Di conseguenza “il monopolio della violenza da parte del sovrano o della repubblica è visto da Pascal come l’unico strumento capace di impedire, con la repressione, le azioni malvagie dell’uomo decaduto. Il potere è sempre corrotto e lo Stato non può identificarsi con la giustizia, ma il monopolio della forza è necessario per frenare la tendenza alla violenza dell’uomo decaduto”[4].
Se fosse così non sarebbe possibile né gaudiumspes, e resterebbero solo luctus e angor.
Ma papa Francesco vede in tutt’altro modo il rischio pelagiano, che non sta nel voler costruire una società buona, ma sta nell’autocompiacimento egocentrico. E dice che c’è un solo modo per evitare il rischio pelagiano, ed è quello di seguire la strada indicata da Gesù per incontrarlo, che è quella di trovare le sue piaghe. E le piaghe di Gesù le trovi nei poveri, le piaghe di Gesù, dice Francesco, le trovi facendo opere di misericordia.
E così dalla Chiesa dei poveri, alla Gaudium et Spes, al  giubileo della misericordia la linea è tracciata e il cerchio si chiude.

                                                      Raniero la Valle




[1] Italo Mancini, Come continuare a credere, Rusconi, Milano, 1980.
[2] Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125.
[3] Giuseppe Ruggieri, Per una rilettura della Gaudium et Spes, in “Preti operai” n. 105-106, ottobre 2014 e sul sito chiesadituttichiesadei poveri.it

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