“Nel corso di una vita”: il
perché delle scelte in un’intervista a Raniero La Valle su “Micromega”
Valerio Gigante*
Il 20
novembre scorso uno scompenso cardiaco
ha tenuto Raniero La Valle lontano dalle ultime due settimane della campagna referendaria
sulla riforma costituzionale, per la quale si era prodigato in ogni modo a
sostegno del No (e il malore che lo ha colto è dovuto proprio al suo impegno
senza sosta in giro per l’Italia ad animare incontri, dibattiti, occasioni di
riflessione e confronto con cittadini e credenti). Ha seguito quindi da un
letto d’ospedale la vittoria del No, la crisi del governo Renzi e la formazione
del “nuovo” esecutivo di Paolo Gentiloni. Lo incontriamo nella sua casa romana
al termine di una lunga convalescenza, per parlare del legame che unisce gli
avvenimenti di ieri a quelli di oggi. La Valle è infatti uno dei grandi
protagonisti dell’impegno dei cattolici conciliari e progressisti in politica. Dopo
aver diretto il quotidiano della Dc Il Popolo (quando il segretario del partito era Aldo Moro), dal 1961 al 1967 ha
guidato L’Avvenire
d’Italia, giornale che
divenne l'interprete dei fermenti innovatori del Vaticano II, dal quale a causa
delle spinte normalizzatrici del post Concilio
decise di dimettersi. Dopo un’esperienza in Rai dal 1976 al 1992 come
inviato, è stato senatore di Sinistra Indipendente. Dal 1978 ha anche diretto
la rivista Bozze, da lui stesso fondata,
testata che ha costituito un importante strumento di dibattito ecclesiale e
civile, e che ha chiuso nel 1994. Dopo l’esperienza parlamentare ha sempre continuato
l’azione politica e civile attraverso l’impegno in diversi campi, soprattuto
quelli della pace e del diritto, animando i Comitati Dossetti per la
Costituzione (nati in seguito alla vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni
del 1994), di cui è presidente, dirigendo Vasti, Scuola di ricerca e critica
delle antropologie, sostenendo le attività dei giuristi democratici e divenendo
punto di riferimento del vasto movimento che in questi anni ha difeso e
promosso i valori della Costituzione contro chi voleva aggredirne la lettera e
lo spirito.
È da sempre impegnato sui temi della pace, del diritto
internazionale (è stato giudice al Tribunale permanente dei Popoli, tribunale
d'opinione internazionale finalizzato alla promozione dei diritti umani,
fondato nel 1979 su iniziativa del senatore Lelio Basso), dell’economia
democratica e della giustizia sociale. Ha scritto moltissimi articoli, saggi e
libri. L’ultimo in ordine di tempo è Cronache Ottomane. Come l’Occidente ha
costruito il proprio nemico[1],
in
cui parla del padre, Renato La Valle, anch’egli giornalista, che era stato inviato
a Costantinopoli nel 1908, per raccontare ai lettori del Giornale d'Italia la rivolta dei Giovani Turchi e le
trasformazioni in atto nell'Impero Ottomano. Nel libro – attraverso le corrispondenze
originali del padre – La Valle ricostruisce le strategie politico-economiche
che fin dai tempi di Giolitti hanno contribuito alla costruzione di un
"nemico" dell'Occidente.
Raniero, impossibile non partire dall’esito del referendum e dalla
crisi politica che ne è scaturita. Impossibile perché tu sei stato tra gli
animatori della battaglia referendaria, in particolare attraverso la
ricostituzione, a 40 anni di distanza dal referendum sul divorzio, del cartello
dei “Cattolici del no”. Che valutazione dai di quello che sta accadendo?
Elezioni o meno, pensi che Renzi e il renzismo siano ancora forti?
Credo che il renzismo sia finito.
Soprattutto per i clamorosi errori di superficialità e arroganza che Renzi ha
commesso, supponendo che la riforma da lui voluta ricevesse il consenso di
elettori ingannati. Il risultato del 4 dicembre ha dimostrato l’esatto
contrario. Le analisi che sono state prodotte sinora sono a mio giudizio del
tutto insufficienti per spiegare quello che è successo, perché mettono
l’accento sull’opposizione a Renzi ed al suo governo, da parte dei giovani o
del Sud Italia o di determinati settori sociali. Ma io non credo affatto che
gli elettori abbiano detto No alla riforma per dire semplicemente no a Renzi ed
alle sue politiche. Ritengo invece che la consultazione abbia dimostrato che
c’è un elettorato molto più maturo e consapevole di quanto si creda e di quanto
viene solitamente raccontato, che – al di là delle strumentalizzazioni che il
presidente del Consiglio stesso ha promosso per personalizzare il voto e farne
una sorta di plebiscito sulla sua persona – ha voluto difendere la Costituzione
da quella che era una riforma che tendeva a stravolgerne il testo e i principi.
Non è la prima volta che si vota un referendum costituzionale, ma credo davvero
che il testo proposto agli elettori, se approvato, avrebbe modificato in
maniera radicale le nostre istituzioni e le regole del nostro vivere
democratico. Ritengo che questo gli elettori lo abbiano ben capito, e che
abbiano voluto difendere attraverso la Costituzione una cornice di regole,
diritti e tutele che altrimenti sarebbero stati seriamente compromessi.
Che prospettive vedi ora per quanto riguarda la nuova legge elettorale?
Credo che ci sia lo spazio per un
ritorno al sistema proporzionale, che ritengo l’unico fedele allo spirito della
Costituzione e al principio irrinunciabile della rappresentanza, semmai
temperato da una soglia di sbarramento che eviti l’eccessiva frammentazione che
caratterizza oggi il quadro politico. Credo che di ragioni per rilanciare il
sistema proporzionale - dal fallimento dell’ideologia del maggioritario, del
bipolarismo (quando non addirittura del bipartitismo), nonché della
“semplificazione” del quadro politico, fino al mito della “governabilità” - ve
ne siano davvero tante. Anche perché tutti i sistemi finora proposti sembrano
disegnati per fare prevalere una forza sull’altra, o impedire l’ascesa di
questo o quello schieramento. Penso invece che una legge elettorale debba
garantire tutti e avere una prospettiva più ampia delle contingenze politiche e
di partito.
La tua proposta di rilanciare i “Cattolici del No” ha suscitato
dissensi a volte anche aspri; stavolta anche all’interno del cattolicesimo
democratico e progressista. Ti hanno accusato di integrismo, di confessionalizzare
il voto, di riesumare un contenitore senza più alcun significato. Cosa c’entra
la fede con la Costituzione, sostenevano...
Io non penso che la laicità
significhi nascondere la fede. Riferirsi a modelli ideali, e anche alla fede,
non è integrismo, ma addirittura premessa della laicità, perché chi lo fa
mostra di non accettare che la realtà resti semplicemente com’è. La nostra
Costituzione è laica, ma ciò non toglie che sia impregnata di valori cristiani.
E i cattolici hanno tradizionalmente avvertito la Costituzione come un loro patrimonio;
e non solo perché a scriverla – assieme a comunisti, socialisti, liberali,
azionisti - è stata la parte migliore del cattolicesimo politico, da De Gasperi
a Moro, da Dossetti a La Pira, da
Lazzati a Angela Gotelli. ma anche perché l’avevano concepita come più avanzata
rispetto alla loro stessa tradizione; e hanno voluto impedire, come hanno
scritto nel loro appello, che venisse resa strumento di una democrazia
dimezzata. Tutto questo, secondo me, non ha assolutamente nulla a che fare con la
“sacralizzazione” del testo costituzionale. Che, semmai, è venuta dall’altra
parte, dal fronte del “Sì”, che presentava la necessità di cambiare la nostra
Carta come un dovere sacro, una questione di vita o di morte.
Ai referendum e all’impegno referendario è legata gran parte della tua
esperienza politica, che in fondo si può dire cominci con l’impegno per il
mantenimento della legge sul divorzio con il referendum del 1974, per poi
proseguire, solo per citarne alcuni, con quello sull’aborto, quello del 1993 –
perduto – sul maggioritario; poi quello del 2006 sulla riforma costituzionale
scritta dai “saggi di Lorenzago”; fino ad arrivare a quest’ultimo.
Vorrei però ricordare almeno un
altro referendum, che ha segnato una tappa importante nel mio impegno politico.
Un referendum che non si è potuto celebrare. Mi riferisco all’installazione dei
missili a Comiso, che suscitò un’enorme mobilitazione del movimento per la
pace. Un evento che incise profondamente nella sinistra, nella Chiesa, nella
vita civile. Nel 1982 con il gruppo di Sinistra indipendente lanciammo
l’iniziativa di un referendum popolare.
Tecnicamente si trattava di intervenire su trattati internazionali, in
parte anche secretati, sui quali non era possibile chiedere un referendum
popolare abrogativo. Pensammo allora di far abrogare una sola parola in una
legge esistente, una legge di approvvigionamento di armi per le forze armate,
che tra l’altro aveva dotato l’esercito di missili Milan, che erano missili di
terra, “di teatro”, non nucleari; proponendo
la cancellazione della parola “missili” da quella legge intendevamo conseguire
un risultato politico che esprimesse il ripudio degli armamenti nucleari da
parte del popolo italiano. Ma era una cosa troppo difficile perché le forze
politiche di allora lo capissero, a cominciare dal Partito comunista, che mi
disse che non avrebbe collaborato. Perciò alla fine il referendum che avevamo
in mente si trasformò in una
straordinaria raccolta di firme contro i missili, che raggiunse in Sicilia un
milione di sottoscrizioni, anche grazie all’impegno di Pio La Torre, che fu
ucciso anche per questo. Nel 1984 però Il governo ignorò le mobilitazioni,
l’orientamento dell’opinione pubblica, le petizioni, il milione di firme
siciliane, e annunciò l’operatività dei missili. In ogni caso, quello
straordinario movimento sedimentò una sensibilità nuova sui valori della pace e
della nonviolenza.
Il tuo percorso politico è però inscindibilmente legato al referendum
abrogativo della legge sul divorzio del 1974.
Nel 1974 col referendum sul
divorzio si ruppe l’unità politica dei cattolici; un fatto rilevantissimo per
la vita politica del paese, direi determinante, per gli sviluppi che l’evento
ebbe negli anni successivi. I “Cattolici del No” (che riunivano un arco ampio
di credenti, da intellettuali come Scoppola a sindacalisti come Carniti, fino
ad associazioni del laicato cattolico tradizionale come le Acli ed a movimenti
nati dalla temperie culturale e religiosa del Concilio e del Sessantotto, come
le Comunità Cristiane di Base) rifiutarono il diktat di Fanfani e Gabrio Lombardi,
così come le indicazioni – vincolanti – che provenivano dalle gerarchie
cattoliche. Così, a causa dell’esito di quel referendum, il sistema di potere
si incrinò; la Dc – o almeno la parte più matura di essa – cominciò a rendersi
conto che la vita democratica, che si basava ancora sull’esclusione dei
comunisti, rischiava l’involuzione. In questo contesto di timide aperture a
sinistra e di tentativi di aprire un dialogo con il Pci, nel 1976 molti di noi
cattolici di sinistra si ritrovarono, ospiti di padre Ernesto Balducci, alla badia
fiesolana, per decidere quale potesse essere il nostro contributo a questa fase
nuova che si stava aprendo. Il Pci ci aveva chiesto esplicitamente di entrare nelle sue liste come indipendenti. In
linea generale tutti si mostrarono d’accordo. Solo che alcuni preferivano proseguire
il dialogo tra cattolici e comunisti animandolo come intellettuali, senza un
coinvolgimento diretto nell’azione
politica; altri – tra questi io – ritenemmo invece necessario esporci in prima
persona. Non eravamo solo cattolici; tra noi c’erano anche personalità come il pastore
valdese Tullio Vinay. Così, dopo le elezioni, nacque la componente cristiana di
Sinistra Indipendente, che raggiunse in Parlamento il senatore Ossicini, l’ultimo
erede di quella Sinistra cristiana che con Franco Rodano era in gran parte
confluita nel Pci nel 1945.
A tuo giudizio cosa resta del lavoro fatto da Sinistra Indipendente dal
1976 al 1992, anno del suo scioglimento?
Certamente la prova che si poteva
fare politica, da cristiani, a sinistra e anche fuori dall’egida della
Democrazia Cristiana. Poi, più concretamente, il contributo determinante all’attività
parlamentare, soprattutto per alcune leggi cruciali, che altrimenti oggi non ci
sarebbero o sarebbero assai diverse, da quella sull’aborto a quella sulla
chiusura dei manicomi, dalla legge Gozzini sull’umanizzazione delle carceri,
all’obiezione di coscienza, fino al commercio delle armi, per non parlare delle
battaglie per un’altra linea nel sequestro Moro, per il disarmo nucleare, per
la pace, contro la guerra del Golfo, fino alla proposta (con la “lettera ai
comunisti” scritta insieme a Claudio Napoleoni[2]),
di un altro sbocco alla crisi del PCI, per “un’uscita dal sistema di dominio e
di guerra”.
Quali credi siano stati invece i limiti di quella esperienza?
Sinistra Indipendente non è
riuscita a realizzare un progetto politico a sinistra organizzato e
strutturato. Ma io non ho mai avuto quest’obiettivo. Ero eletto nelle liste del
Pci e per me, che provenivo dal mondo cattolico e da imprese giornalistiche
come la direzione del Popolo e dell’Avvenire d’Italia era un’esperienza traumatica. Ero estraneo a
quella realtà associativa, ai comizi, alla vita delle sezioni, all’iconografia,
al linguaggio ed alla cultura comunista. Per me si è trattato di una grande
scoperta, e la mia decisione fu di essere del tutto leale nei loro confronti. Ricordo
che nella prima campagna elettorale, nel 1976, girai molto per incontri e
comizi in piazza e nelle sezioni del partito. I miei discorsi suscitavano
curiosità e diffidenza nei militanti comunisti, ma anche grandi consensi. Una
volta sentii un militante dire a un compagno di partito: “Questi sono così
bravi che vedrai che alla fine ci fregano”. Ecco, in quel momento pensai che io
non li avrei mai “fregati”. Per questo non ho mai pensato a costruire o a
prendere parte ad una realtà politica che fosse in competizione con il Pci e
avesse l’intento di distruggerlo. Altri poi lo hanno fatto, ma quelli erano
comunisti.
Al “nostro Novecento” hai dedicato un libro. Sei stato tra i testimoni
e tra i protagonisti di un secolo particolarmente rilevante nella storia
italiana ed occidentale. In che senso ti senti “figlio” del Novecento?
Il Novecento è stato un secolo
affascinante, insieme grande e terribile, entusiasmante e
tremendo, sicuramente uno dei periodi più intensi e significativi della storia
dell’umanità, almeno in Occidente. È il secolo che ha prodotto i fascismi e il
nazismo, terribili genocidi e la Shoà, la bomba atomica e atroci guerre, ma ha
anche prodotto il costituzionalismo, il Sessantotto, il Concilio, grandi e
importanti riforme, esperienze culturali e politiche di enorme rilevanza e
portata storica: Il Novecento ha dato fondamenti alla pace attraverso il
diritto internazionale, ha elaborato la dottrina della nonviolenza, ha visto
popoli interi insorgere e liberarsi dall’oppressione che li attanagliava. Non è
stato affatto, secondo me, un «secolo breve»; io ho avuto la fortuna di
attraversarlo in gran parte e ne sono stato profondamente segnato. E penso che
sia stato proprio a causa degli orrori della guerra, degli esiti perversi cui
avevano condotto le dottrine politiche e antropologiche della modernità, a
porre l’esigenza incoercibile di pensare tutto di nuovo, l’uomo, lo Stato, la
guerra, la pace, il diritto, l’ordine delle nazioni. Anche per queste ragioni
il Novecento ha lasciato una grande eredità che a mio giudizio consiste in tre
grandi eventi anzitutto per l’Italia ma poi anche per il mondo: la
Costituzione, il Concilio, e il Sessantotto..
Hai spesso sostenuto che nella Chiesa il vero Sessantotto è stato il
Concilio. Come mai?
Intanto già a livello individuale
per me il vero Sessantotto è stato il Concilio. In parte perché il 1968 l’ho
vissuto lontano dall’Italia, negli Stati Uniti, percependo così di quello
straordinario movimento gli aspetti più legati alla lotta contro la guerra in Vietnam,
o a quella per i diritti civili; ma soprattutto perché il Concilio era per me
il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce
ne accorgemmo, perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, ma
avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della
pastorale. E invece il Concilio stava elaborando una nuova comprensione e un
nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, come papa
Giovanni aveva chiesto fin dal suo discorso di apertura. Per questo, grazie anche al contributo
determinante di uno studioso come Giuseppe Alberigo e della sua Scuola di
Bologna, alla fine è stato rovesciato il luogo comune che ha fuorviato la
comprensione del Vaticano II: esso è stato un grande Concilio teologico, e
proprio perciò “pastorale”.
Più in generale, credo davvero
che il Concilio sia stato il Sessantotto della Chiesa, oltre che l'innesco del Sessantotto
nel mondo. Almeno per i cristiani, i due eventi non dovrebbero essere disgiunti.
II Concilio ha costituito un elemento di contraddizione per la Chiesa, perché,
dopo aver tanto combattuto il mondo e averne esecrato la secolarizzazione e
averlo descritto come perverso e perduto, col Concilio la Chiesa si è
finalmente riconciliata con esso. Ma il Vaticano II ha avuto anche il merito di
anticipare e preparare il Sessantotto del mondo, dopo che nella Chiesa lo aveva
già portato: aveva aperto le cortine del tempio, aveva fatto correre il vento
dello Spirito nelle parrocchie, nei conventi e nei seminari; e la stessa Chiesa
romana, di cui si diceva che fuori di essa non vi fosse salvezza, era stata ripensata
come storica e relativa. E se il Sessantotto fu una grande rivendicazione di
libertà, fondata sulla priorità del soggetto sulla legge e sulla
riconciliazione di ciascun essere umano con se stesso, il Concilio prima del Sessantotto
aveva dato alla libertà un fondamento divino, perché l'aveva rintracciata nel
comportamento di Cristo e degli apostoli; inoltre aveva strappato il concetto
di libertà alla contrapposizione con la verità, radicando la libertà
nell’inviolabilità e nella “sacralità” della coscienza, i cui dettami ognuno è
tenuto a seguire, senza essere "né costretto né impedito". Inoltre, il
Concilio ha voluto abbattere il muro di inimicizia tra le diverse confessioni
cristiane, salutare i segni di grazia e le vie di salvezza presenti nelle altre
religioni, apprezzare quanto di buono e di giusto vi fosse in tutte le culture
e in tutti gli esseri umani. Il Sessantotto aveva detto fate l'amore e non la
guerra. Il Concilio la guerra l'aveva condannata, pur senza riuscire a condannare
la bomba atomica come tale; quanto all'amore, gli aveva tolto quel carattere
strumentale che secondo la Chiesa lo rendeva illegittimo se vissuto al di fuori
della procreazione, e lo aveva elevato alla dignità di fine, come miracolo di
unione tra le persone, pur senza rinunciare a riservarlo al matrimonio.
Proprio nel 1968 tu dopo aver lasciato la direzione dell’Avvenire
d’Italia passavi alla Rai di Bernabei. Che ricordo hai di lui?
Un bellissimo ricordo. Era un
uomo di grande intelligenza, che aveva un progetto per la televisione di ampio
respiro e larghe prospettive. Certo, ovviamente per lui la televisione era
soprattutto un “elettrodomestico” – come diceva - destinato ad orientare
l’opinione pubblica e credeva che ciò dovesse realizzarsi secondo la sua
visione ideologica, la sua prospettiva politica e religiosa. Aveva però anche
consapevolezza che la televisione dovesse essere uno strumento di
alfabetizzazione, di informazione, di cultura, che aiutasse a conseguire
consapevolezza e cittadinanza matura; e in fondo rispettava l’autonomia di chi
lavorava per l’azienda. Personalmente devo dire che negli anni in cui sono
stato in Rai non mi è mai capitato di subire censure di tipo politico o che un
servizio da me realizzato non venisse mandato in onda..
E più in generale che bilancio fai di quelle esperienze professionali?
Io ho accettato l’incarico all’Avvenire d’Italia anche se dal punto di
vista professionale per me – che venivo dalla direzione del Popolo – un giornale locale come l’Avvenire d’Italia non rappresentava
certamente un avanzamento. Ma non volevo fare carriera nei giornali di partito;
lavoravo sì per la DC, ho cominciato il mestiere nei suoi giornali, come era
normale allora per un cattolico come me, proveniente dalla FUCI (Federazione
Universitaria Cattolica Italiana), però non mi sono mai iscritto alla DC, e
questo non era affatto regolare. Ma a me non piaceva che le due cose fossero
confuse, per me la professione doveva essere “indipendente”. Perciò accettai
l’offerta che mi venne da Bologna di dirigere il giornale cattolico. Lo feci
con grande libertà: il cardinale Giacomo Lercaro garantiva per noi nei
confronti dei vescovi che criticavano e attaccavano la nostra linea, talvolta
perfino la pubblicità. Nel 1964 Paolo VI chiuse il Quotidiano di Gedda, che era il giornale cattolico di Roma, ma che
era nettamente caratterizzato per il suo taglio conservatore, assegnando all’Avvenire d’Italia la sua area di
diffusione a Roma e nel Sud. Si può quindi dire che divenimmo il quotidiano
nazionale dei cattolici. Poi quando, finito il Concilio, il clima mutò, il
controllo azionario del giornale passò nelle mani della Santa Sede che,
impegnata a “normalizzare” la Chiesa dopo il Concilio, decise di chiuderlo e di
dar vita a Milano all’Avvenire,
dandolo in proprietà ai vescovi. Così, dopo le mie dimissioni e un periodo di
disoccupazione, in Rai dovetti imparare un nuovo mestiere, perché il
giornalismo televisivo è totalmente diverso da quello della carta stampata. Grazie
all’esperienza in Rai ho potuto però viaggiare molto, e conoscere Paesi che
difficilmente avrei potuto osservare e tentare di capire così dall’interno,
come l’America del Sud, la Palestina e il Medio Oriente, il Vietnam e la
Cambogia. Non ho mai unito lavoro e turismo; cercavo di immergermi nella realtà
del posto dove mi trovavo, incontrare le gente e capire gli eventi Tutto il resto sarebbe stata una distrazione.
La legge sull’ aborto è forse una delle leggi che – a distanza di anni –
più ha mostrato la sua resistenza alle critiche. L’articolo 1 lo hai scritto tu, ma tutto
l’impianto di quel testo è il frutto del contributo tuo e dei senatori di
Sinistra Indipendente. Quale fu il senso del vostro contributo al dibattito
parlamentare sulla 194?
Penso che se la legge sull’aborto
è stata accettata dalla coscienza pubblica, anche cattolica, superando
referendum e giudizi di costituzionalità, è perché la legge uscita dalla prima
lettura della Camera, che aveva un impianto sostanzialmente legato alla visione
individualista e radicale, è stata poi completamente ripensata e riscritta dal
Senato. Per noi la questione non era pensare
il diritto all’aborto come un diritto di libertà, come una conquista civile, anche
se cercammo di capire senza astio questa posizione; piuttosto ci angustiava il
trattamento penale e il carcere per le donne e ci sembrava ormai
improcrastinabile (tanto da cominciare a dibatterne prima ancora di entrare in parlamento)
una regolamentazione condivisa dell’interruzione di gravidanza, sottraendola
alla clandestinità ed ai rischi per la salute delle donne. Al di là dei casi di
aborto strettamente terapeutico, la decisione su una eventuale interruzione di
gravidanza doveva ovviamente spettare alla madre, che però a nostro giudizio,
andava aiutata in questa scelta da un consultorio pubblico o convenzionato, e
alla quale si doveva lasciare un periodo di riflessione di dieci-dodici giorni prima
dell’intervento. Questo aspetto della legge è stato spesso trascurato, ma per
noi aveva una importanza fondamentale, perché in questo modo l’aborto non era
più un fatto esclusivamente individuale, ma veniva socializzato, in quanto
l’istituzione si poneva accanto alla madre e si faceva carico delle ragioni per
cui intendeva abortire. La socializzazione del problema, secondo la nostra idea,
avrebbe comunque promosso una crescita di solidarietà. Il consultorio avrebbe
dovuto garantire un’adeguata offerta di sostegno reale da parte delle
istituzioni. Si trattava di una costruzione estranea all’ideologia abortista
che aveva trovato espressione nelle proposte formulate dai movimenti radicali,
femministi e in parte dai socialisti; la legge non ammetteva che l’aborto fosse
usato ai fini della limitazione delle nascite, ma non si intrometteva nel
rapporto tra la donna e il concepito, riconoscendole il potere della decisione.
Alla fine anche il titolo della legge votata dalla Camera venne cambiato, e da
«Norme sull’interruzione della gravidanza», divenne «Norme per la tutela
sociale della maternità e sulla interruzione volontaria della gravidanza».
Tra le ragioni che ci spinsero a impegnarci per mettere mano ad una legge sull’aborto,
ci fu anche il fatto che eravamo estremamente allarmati per il tentativo di
giustificazione etica di una tale legislazione che era stato fatto, nel corso
di una analoga discussione in Francia, dalla prestigiosa rivista dei gesuiti Etudes. Essa, per legittimare in
determinati casi l'aborto, introduceva una distinzione tra “vita umana” e “vita
umanizzata”. Non basta, affermava Etudes,
nascere fisicamente per essere uomini; occorre che il bimbo venga riconosciuto
come essere umano e introdotto in un mondo di relazioni umane. Era un principio
molto pericoloso, perché il mondo è pieno di esseri umani non riconosciuti,
scartati, e trattati come “non umani”.
Nel 1978 avvenne anche il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro. Tu lo
conoscevi sin dai tempi della direzione del Popolo. Del suo assassinio ti sei occupato come membro della prima
commissione di inchiesta istituita sul caso Moro (presentando, da solo, una
delle relazioni di minoranza). Che idea ti sei fatto delle ragioni di
quell’assassinio?
Ho compreso ben presto che
quell’omicidio era un “delitto internazionale”, dettato dalla volontà di molti
soggetti di troncare l’azione politica di Moro, il quale stava cercando di
mettere al sicuro la democrazia italiana estendendo ai comunisti la
responsabilità di governo. Moro era l’unico che potesse realmente attuare quel
disegno politico. Perciò ne è stata
decretata la morte, di cui le Brigate Rosse sono state lo strumento, anche se
lo sono state rozzamente, forse addirittura senza rendersene conto.
Tu che hai attraversato così intensamente i decenni della vita politica
ed ecclesiale dal dopoguerra a oggi, quali pensi siano le prospettive future
della Chiesa e della società italiane?
Non sono un veggente. Posso solo
esprimere un auspicio, legato a ciò per cui mi sono impegnato tutta la vita e
che ancora non vedo realizzato ma di cui vedo tuttavia l’inizio. Penso che la
Costituzione, il Concilio e il Sessantotto debbano ancora dare il meglio di sé
e della loro eredità. Il Sessantotto ha rappresentato la rivoluzione della vita
quotidiana, l’esplosione dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno
della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi,
il nuovo diritto di famiglia. Era un segno dei tempi; ma né la Chiesa, né i
partiti e le istituzioni lo hanno voluto leggere in questo senso e quindi ne è
stata soffocata, ma certamente non spenta. l’energia. Il Concilio è stato
sterilizzato per cinquant’anni, ma ora papa Francesco ne ha fatto un nuovo
inizio per la Chiesa; il clericalismo è messo da lui stesso sotto scacco, la
Chiesa visibile che già aveva perduto il potere temporale è chiamata a lasciare
anche il potere spirituale (il potere, non lo Spirito!) rinunziando a
presentarsi come l’esclusiva dogana di Dio sulla terra; la stessa laicità, a
partire da una Chiesa presentata come ospedale da campo e come servizio, da un
Dio annunciato come nonviolento e da un’umanità considerata tutta intera come
“popolo di Dio”, dovrà essere compresa e declinata in un altro modo. E quanto
alla Costituzione l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre ha
mostrato un’intelligenza politica popolare tutt’altro che spenta, su cui si può
puntare per una ripresa non solo del costituzionalismo, interno e
internazionale, ma del cammino stesso della civiltà, che appare oggi
interrotto, o in ogni caso senza più un orientamento e una bussola.
Dal punto di vista personale, che senso dai alla tua vita, all’impegno
ecclesiale e politico che dura ormai da settant’anni?
Questa è una domanda troppo
grande, non ho disponibile la risposta, non sono mai stato propenso a
ricognizioni e anamnesi individuali…
Forse per un motivo legato al contesto storico, sociale ed ecclesiale
nel quale è cresciuta e vissuta la tua
generazione, perché oggi la maggior parte delle persone non credo
riuscirebbero a percepirsi se non in termini strettamente individuali.
È stato bello pensare agli altri,
era come stare fuori da se stessi, senza troppe introspezioni e senza retaggi
invadenti e trattenute nel passato. Può darsi che ciò dipenda dal fatto che a
otto anni ho dovuto smettere di pensare in termini individuali a me stesso,
perché morì mio padre, Renato La Valle, che era una firma importante del
giornalismo messa a tacere dal fascismo, e mia madre restò sola a portare
avanti una famiglia con tre bambini, io e le mie due sorelle Fausta e Fidelia.
Venne la guerra, c’erano le bombe e la fame, i miei primi guadagni sono stati
da lavoro infantile. Molto presto, non certo per merito mio, ho sentito cosa
fosse la responsabilità per gli altri e
con gli altri: all’inizio la famiglia paterna (lo chiamavamo “il carrozzone”, con quattro ruote e senza
timone), poi l’università, poi il consorzio coniugale, il giornale, la
politica, la Chiesa, il mondo… Anche in quest’ultima occasione, quando stavo in
ospedale per uno scherzo del cuore, ho detto ai medici dell’unità coronarica:
datemi due ore e fate entrare mia nipote per dettarle una lettera, altrimenti
perdiamo il referendum, poi fatemi tutte le cure che volete… Dopo ho aspettato
tranquillamente il 4 dicembre. Credo sia la prima volta che racconto tutte
queste cose.
*Da Micromega, n. 3/2017, “Nel corso di una vita”, una conversazione
con Valerio Gigante.
[1] R, La
Valle, Cronache ottomane di Renato La
Valle. Come l’Occidente ha costruito il proprio nemico, Bordeaux edizioni,
Roma 2016.
[2] Lettera
che, nel 1986, un gruppo di parlamentari e decine di firmatari avevano
indirizzato al XVII Congresso del Pci. “La Lettera ai comunisti italiani”, di
cui Napoleoni era primo firmatario insieme a Raniero La Valle, è pubblicata in
C. Napoleoni, Cercate ancora, a cura
di R. La Valle, Editori Riuniti, Roma 1991.
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