La cosa più brutta è stato il decreto con cui
si sono rifinanziate tutte le missioni militari italiane di "difesa
avanzata" e si è dato il viatico all'esercito che torna in Africa in
assetto di guerra, da colono. Poiché la bugia fa coppia fissa non con la politica,
ma con la governabilità, cioè con la pretesa del potere di governare senza
regole e senza Costituzione, il capo del governo ha detto che è una missione
"no combat", non per combattere; sarebbe con le buone che si
respingerebbero le carovane dei profughi nel deserto verso i loro inferni, per
non far loro passare i confini d'Europa, avanzati anche quelli fino al Sahel.
Ma appunto è un bugia; ha avuto la lucidità di darne notizia la Repubblica, nonostante essa sia
oggi accusata di essere in stato confusionale dal suo capitalista fondatore,
l'ing. De Benedetti (quello che "indovina chi viene a cena" ed
è sempre un Grande della terra). Ha scritto la
Repubblica che nei colloqui con il governo Gentiloni i
francesi non hanno usato mezzi termini: "nel Sahara siete i benvenuti, ma
ricordatevi: noi lì facciamo la guerra". Questo significa essere coloni
seri: lo faccio e lo dico. Dal 1967 Israele mette colonie in terre non sue, e
se ne fa un vanto; il Congo fu addirittura chiamato Congo Belga, e l'Algeria,
senza pudore, francese. Noi invece mandiamo l'esercito ma non lo diciamo a
nessuno di troppo, lo facciamo con un mormorio. Quando, la prima volta, nel
settembre 1911, l'Italia dichiarò guerra alla Turchia ottomana e andò a
prendersi Tripoli, il re era in vacanza a San Rossore, il Presidente Giolitti,
come se niente fosse, se ne stava a Dronero, e il Parlamento era chiuso per
ferie; e nemmeno i giornalisti italiani che erano a Costantinopoli, in casa del
Nemico, ne sapevano niente, tanto che non ne parlarono nei loro dispacci, come
si può leggere oggi nelle corrispondenze di uno di loro, pubblicate da Bordeaux
nel libro "Cronache Ottomane di Renato La Valle", utili per capire
qualcosa di quello che succede anche oggi.
Dicono oggi che non andiamo nel Niger a combattere;
chissà perché allora ci andiamo ben armati; ci fu una missione militare
italiana veramente umanitaria, nel 1991-92, quando si trattava di risollevare
l'Albania dal baratro, dopo la fine del suo comunismo alla cinese; ma lì
l'esercito italiano ci andò senza portare armi, e non a caso l'operazione si
chiamò "Pellicano". Si portarono invece i camion, e ogni mattina i
soldati partivano dalla base e andavano in montagna a portare cibo alle
popolazioni stremate, e talvolta a spartire anche la loro colazione. La destra
(allora c'era il Movimento Sociale Italiano) era furibonda, perché non si era
mai visto un esercito senz'armi, indifeso. E il generale che comandava quei
mille militari del contingente spiegò che la loro sicurezza stava proprio nel
non avere armi, e perciò non essere percepiti come occupanti e nemici. Nel
Niger saranno percepiti invece, insieme ai francesi, come le guardie armate
dell' "apartheid europeo", che tornano nei vecchi domini per filtrare
uomini donne e bambini e far passare solo le ricchezze, uranio o petrolio che
siano. Inutilmente un missionario italiano in Niger, Mauro Armanino, ha scritto
da laggiù che saremmo andati ad alimentare il terrorismo di Stato in un Paese
di sabbia e di vento, uno dei più poveri del pianeta; il Parlamento, umiliato,
ha vissuto il suo "mercoledì delle ceneri", perché, già sciolto,
è stato riconvocato apposta non per approvare fuori tempo massimo la legge che
dà i diritti dello "ius soli", ma per approvare fuori tempo massimo
il decreto che intercetta il diritto di asilo e sparpaglia pezzi di forze
armate italiane in trentacinque missioni su tre continenti.
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