Nel tentativo di
denigrare papa Francesco, il solo leader mondiale che si frappone alla guerra,
il partito antipapista che lo vorrebbe deporre pubblica, sul solito blog di
Espresso-Repubblica, un atto di accusa che è il più grande riconoscimento, da
parte laica, della straordinaria portata del pontificato bergogliano: “una
risposta estrema alla crisi dei rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno”,
come dice l’articolo di cui parliamo, in un quadro concettuale però in cui il
cattolicesimo romano è visto come ridotto alla ingloriosa misura di “struttura
portante del mondo occidentale”.
Si tratta dell’analisi di uno storico dell’università di Bergamo, Roberto Pertici, che interpreta la fase che va dal Concilio Vaticano II a papa Francesco come il susseguirsi di contrastanti risposte alla crisi, nel tentativo di difendere ciò che egli giustamente non chiama cristianesimo ma “cattolicesimo romano”, che a suo parere oggi rischia la fine: non certo fine della Chiesa cattolica, precisa, ma del “modo in cui si è storicamente strutturata e autorappresentata negli ultimi secoli”, sulla base del “primato dei successori di Pietro” e a partire dal “Dictatus papae” di Gregorio VII (1075). A partire cioè, vogliamo qui ricordare, da quella sostituzione di Dio con la Chiesa e della Chiesa con il papato in cui è andato a concludere l’Impero cristiano medievale, per cui il secondo millennio si è costruito in Occidente sulla rivendicazione di un papa che avesse un potere supremo su tutto il mondo, che fosse santo d’ufficio “per i meriti del beato Pietro”, che fosse l’unico a poter usare le insegne imperiali, il solo a cui fosse permesso deporre gli imperatori e il solo a cui “tutti i Principi” dovessero “baciare i piedi”; un papa a cui infine, come pretenderà due secoli più tardi Bonifacio VIII dopo lo sprazzo di luce di Celestino V, dovesse essere “sottomessa ogni umana creatura” (dal “Dictatus papae” all’ “Unam Sanctam”).
Si tratta dell’analisi di uno storico dell’università di Bergamo, Roberto Pertici, che interpreta la fase che va dal Concilio Vaticano II a papa Francesco come il susseguirsi di contrastanti risposte alla crisi, nel tentativo di difendere ciò che egli giustamente non chiama cristianesimo ma “cattolicesimo romano”, che a suo parere oggi rischia la fine: non certo fine della Chiesa cattolica, precisa, ma del “modo in cui si è storicamente strutturata e autorappresentata negli ultimi secoli”, sulla base del “primato dei successori di Pietro” e a partire dal “Dictatus papae” di Gregorio VII (1075). A partire cioè, vogliamo qui ricordare, da quella sostituzione di Dio con la Chiesa e della Chiesa con il papato in cui è andato a concludere l’Impero cristiano medievale, per cui il secondo millennio si è costruito in Occidente sulla rivendicazione di un papa che avesse un potere supremo su tutto il mondo, che fosse santo d’ufficio “per i meriti del beato Pietro”, che fosse l’unico a poter usare le insegne imperiali, il solo a cui fosse permesso deporre gli imperatori e il solo a cui “tutti i Principi” dovessero “baciare i piedi”; un papa a cui infine, come pretenderà due secoli più tardi Bonifacio VIII dopo lo sprazzo di luce di Celestino V, dovesse essere “sottomessa ogni umana creatura” (dal “Dictatus papae” all’ “Unam Sanctam”).
Un cattolicesimo
romano, aggiunge Pertici, che fu poi strutturato dal Concilio di Trento nella
“centralità della mediazione ecclesiastica” in contrasto con il sacerdozio
universale dei fedeli, caro a Lutero, e fissato nel “carattere gerarchico,
unito e accentrato della Chiesa”, nel “suo diritto di controllare e, se
occorre, condannare” le posizioni contrastanti con l’ortodossia e nel suo ruolo
di “amministrazione dei sacramenti”, fino al “suggello” dell’infallibilità
pontificia del Concilio Vaticano I. A ciò avrebbe corrisposto, secondo lo
storico bergamasco, un “sentire cattolico” in cui si intrecciavano, con quello
religioso, altri “tre aspetti: l’estetico, il giuridico, il politico”.
La descrizione di questo “cattolicesimo romano” che è entrato in crisi di identità e non ha retto al confronto con la modernità, corrisponde precisamente a quel “regime di cristianità” da cui, a partire dal Vaticano II, la Chiesa sta cercando di uscire (pur attraverso i singulti dei drammatici pontificati di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) e oltre il quale papa Francesco sta portando non solo il cattolicesimo come confessione conflittuale e competitiva, ma l’idea stessa di religione, nella rinnovata rivelazione della misericordia di Dio. Il regime di cristianità è un sistema in cui si è voluto stabilire un legame organico tra cultura, politica, economia, istituzioni e Chiesa; è un processo che secondo lo storico austriaco Friedrich Heer non è estraneo alla formazione degli Stati totalitari europei; è “un sogno” che, diceva don Giuseppe Dossetti nel 1994 al clero di Pordenone, “è finito, irrimediabilmente finito, finito dappertutto”, né dovremmo in alcun modo “darci da fare per salvarne qualche rottame”.
La descrizione di questo “cattolicesimo romano” che è entrato in crisi di identità e non ha retto al confronto con la modernità, corrisponde precisamente a quel “regime di cristianità” da cui, a partire dal Vaticano II, la Chiesa sta cercando di uscire (pur attraverso i singulti dei drammatici pontificati di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI) e oltre il quale papa Francesco sta portando non solo il cattolicesimo come confessione conflittuale e competitiva, ma l’idea stessa di religione, nella rinnovata rivelazione della misericordia di Dio. Il regime di cristianità è un sistema in cui si è voluto stabilire un legame organico tra cultura, politica, economia, istituzioni e Chiesa; è un processo che secondo lo storico austriaco Friedrich Heer non è estraneo alla formazione degli Stati totalitari europei; è “un sogno” che, diceva don Giuseppe Dossetti nel 1994 al clero di Pordenone, “è finito, irrimediabilmente finito, finito dappertutto”, né dovremmo in alcun modo “darci da fare per salvarne qualche rottame”.
È da questo regime che
papa Francesco sta guidando l’esodo. Quindi al di là dell’uso polemico contro
Francesco, il riconoscimento della svolta epocale in atto corrisponde al vero;
è una svolta nel rapporto tra l’umanità e Dio, tra storia mondana e storia
della salvezza, tra le diverse confessioni e tradizioni religiose, un uscire
dalla cristianità per far vivere il cristianesimo.
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