lunedì 14 settembre 2009

COME SE DIO NON CI FOSSE

DI RANIERO LA VALLE

A Mantova al Festival della Letteratura 10 settembre 2009, in Piazza Sordello


Come è noto, la formula del “politicamente corretto”, nel nostro Occidente, è fare “come se Dio non ci fosse”.“Come se Dio non ci fosse” è la formula di un Dio facoltativo. Se ti serve lo prendi, se ti incomoda, lo lasci. Dio come optional. Alla base non c’è l’idea biblica di servire Dio, ma l’idea “politica” di servirsi di Dio. Lo licenzio e lo richiamo in servizio, lo ignoro e lo uso. Un Dio utensile, un Dio tappabuchi, come lo chiamava Bonhoeffer.

È un Dio con cui si può fare quello che si vuole. Per esempio lo si rifiuta per sé, ma lo si mette sulle spalle degli altri. Io faccio quello che voglio, ma siccome Dio c’è, la proprietà è sacra. Io uccido, ma chi mi uccide è maledetto da Dio. Io rubo, ma se lo Stato mi mette le mani in tasca col fisco, mi appello al comandamento divino che dice “non rubare”. Io mi professo ateo, però voglio che il Papa difenda la società cristiana. Io sono pieno di amanti e prostitute, ma se arriva un musulmano con tre mogli, è un affronto alla nostra cultura. Io faccio come se Dio non ci fosse, però mi fa comodo che la Chiesa ci sia, perché insegna le buone maniere e assicura l’ordine sociale, e così si risparmia con la polizia. Io sono un mafioso, ma voglio la mia messa privata nel covo; sono un libertino, ma devoto. Questa si potrebbe chiamare la religione della convenzione: si conviene che… Non si tratta di decidere se Dio c’è o non c’è, si tratta di mettersi d’accordo su che cosa fare di lui. La società laica moderna si basa sull’accordo di fare a meno di Dio, anzi di non parlarne nemmeno. Ufficialmente non dice che Dio non c’è, e lascia la cosa al disbrigo privato. Se dicesse che Dio non c’è, sarebbe atea; ma tra società laica e società atea non corre buon sangue, e anzi nel Novecento esse si sono aspramente combattute, democrazie teiste contro comunismo ateo. La religione del come se, contro la religione del non c’è. La religione della convenzione, che lascia Dio come ipotesi, contrasta con la religione della rivelazione, che dà Dio per certo in quanto si è rivelato. La religione della convenzione pertanto è relativista, perché il “come se” non descrive una realtà, ma la finge. La religione della rivelazione è invece assoluta, perché dice che Dio è, e perciò non finge una realtà, ma la afferma. È abbastanza paradossale che la religione della rivelazione chieda soccorso alla religione della convenzione. È quello che fa la Chiesa quando chiede che gli uomini facciano per finzione ciò che non credono per fede. Lo ha fatto il cardinale Ratzinger nel discorso di Subiaco, poco prima di essere eletto papa: egli ha cercato di rovesciare il “come se” a favore della sua causa, e agli uomini moderni ha detto: se non credete in Dio, fate almeno come se Dio ci fosse. La sua idea era che ciò per gli uomini fosse comunque un guadagno; però in tal modo faceva suo il relativismo criticato negli altri, e riportava la Chiesa a ragionare, come ai tempi ottocenteschi, in termini di “tesi” e “ipotesi”. Questa idea, tutta moderna, di non credere ma fingere che Dio ci sia, non è affatto una rarità: sono in molti a praticarla, soprattutto tra i membri delle classi dirigenti, che siano esponenti dell’esecutivo o ex presidenti del Senato, e sono tutti quelli che vorrebbero una religione civile: radici cristiane, legge e ordine.Ora a me pare – e per questo ho scritto il libro “Se questo è un Dio”– che siamo giunti a un punto critico, per il quale è necessario abbandonare ogni religione del come se: sia quella del come se Dio non ci fosse, sia quella del come se Dio ci fosse; e una buona ragione è che queste non sono fedi, ma sono ideologie (non che le ideologie siano un male, ma lo sono se si pretendono religioni), e l’una è l’eguale e il rovescio dell’altra.Se si crede che Dio non c’è, e che la società non debba impicciarsi di lui, è molto meglio fare l’opzione atea; è una opzione perfettamente legittima che ha piena dignità intellettuale e non sminuisce in alcun modo la stima dovuta a chi la fa; nei Salmi si dice che “è stolto chi dice che Dio non c’è”; invece il papa Giovanni XXIII, nell’enciclica “Pacem in terris”, diceva che nel non credente è presente la luce della ragione e l’onestà naturale, e l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per quanto mi riguarda, attraversando la seconda metà del Novecento, spesso ho trovato più fede e più amore negli atei, o che si definivano tali, che negli osservanti. Se invece si pensa che Dio c’è, non lo si può introdurre di contrabbando, per esempio facendo appello a una legge naturale che sarebbe obbligatoria per tutti e dovrebbe essere imposta a tutti attraverso le vie del potere che non sono le vie di Dio. Ogni doppiezza nei riguardi di Dio deve essere esclusa. Dio è una cosa semplice, non è una cosa complicata o contorta; il linguaggio che lo riguarda è quello del sì sì, no no; ciò che resta oscuro di Lui è un problema di fede, non una questione enigmistica. Soprattutto i giovani hanno bisogno di chiarezza nei discorsi che riguardano Dio. Già troppo li abbiamo gettati in un mondo di incertezza, di precarietà, di false rappresentazioni, di ipocrisie; un mondo in cui la reality è in verità una fiction, il virtuale si mangia il reale, l’immagine travisa la visione, la visione sostituisce l’esperienza. Li abbiamo messi in una rete di comunicazioni, di messaggi, di codici cifrati, si può in tempo reale raggiungere chiunque e comunicare qualsiasi cosa. Ma dov’è la cosa da comunicare? Quali sono i loro maestri? Siamo stati capaci di dar loro libri da comodino, che non si lasciano, libri da leggere perfino in bagno, come noi facevamo? Perché li costringiamo a cercare guru esotici, ad andare in India, a uscire fuori di sé per trovare qualcosa di sé?I giovani salgono sull’onda, sono nel turbine, si piegano al vento, ma hanno bisogno di qualche sponda, di qualche affidamento, di qualche punto fermo. Se hanno un amico devono poter contare su di lui, se hanno un amore, che almeno non troppo presto finisca. Se hanno un lavoro, che non lo perdano domani. Non possono mettere anche Dio nella loro instabilità, nel vuoto delle risposte che non vengono date. Non possiamo parlare loro di un Dio che c’è ma facciamo finta che non ci sia, che non c’è ma facciamo finta che ci sia. Il vero problema non è il “se”, ma il “come” di Dio. Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio? Quale è il racconto che lo narra? Quale è il Dio di cui vale la pena che i giovani decidano se prenderlo o lasciarlo? Anche il papa dice che non ogni Dio è degno di fede. Ebbene, quale è il Dio di cui si possa dire: “Questo è un Dio”?Non si tratta di una domanda nuova. Sono almeno quattro secoli che questa domanda preme sulle frontiere della cristianità, è la domanda che non ha avuto soddisfacente risposta, e su questa domanda inevasa si è costruita la modernità. Perché la modernità ha detto alle Chiese e ai principi cristiani che si facevano le guerre religiose in Europa: se questo è il vostro Dio, allora facciamo come se Dio non ci fosse. Se Dio presidia i troni, se invade l’Impero per stabilirvi il potere temporale dei Papi, se istituisce censure e inquisizioni e nega libertà alle coscienze, allora facciamo come se Dio non ci fosse. E oggi si potrebbe dire alla Chiesa: se “chi è l’uomo?” lo chiedi alla biologia invece che al Vangelo, se cadi nel feticismo dell’embrione, se chiami il feto persona e gli sacrifichi la madre, se Dio sta nelle staminali e non nelle speranze di vita dei malati, se Dio preferisce una vita fisica inerte e incosciente attaccata alle macchine invece della “vita vera” nella casa del Padre, allora facciamo come se Dio non ci fosse.E d’altra parte, nella ricerca di ciò che Dio potrebbe essere per l’uomo, la società del XVI e XVII secolo ha detto alle Chiese: se Dio non si compiace della umana ricerca del vero, se non ci incoraggia nella nostra impresa di costruire l’età moderna e il futuro, se non ci stimola alle scoperte della scienza, se non presidia la nostra libertà quando rovesciamo i potenti dai troni e mettiamo le fondamenta al diritto, se non ci conferma quando alla giustizia offriamo gli strumenti della certezza giuridica e del diritto positivo, allora facciamo come se Dio non ci fosse.È da quattro secoli che la modernità sta su questo fronte, e per quattro secoli la cristianità non ha dato risposte, non ha aperto varchi alla critica; ancora nell’8oo la Chiesa cattolica lanciava col Sillabo l’anatema contro gli “errori” moderni, a cominciare dalla libertà; e solo nel Novecento, col Concilio, la Chiesa ha smesso di pronunciare condanne e ha cominciato a dare una risposta nuova a quella domanda. Dunque quella ipotesi, quella finzione, “facciamo come se Dio non ci fosse”, “etsi daremus non esse Deum”, si è rivelata una potente molla del progresso storico, ma anche una potente spinta alla conversione della Chiesa, e ad una qualificazione e purificazione del discorso su Dio.È interessante notare che questa formula potente che ha dato avvio alla modernità e ha sottoposto la Chiesa al pungolo della profezia, viene dalla letteratura, viene da un libro, e si potrebbe quindi assumere non solo come simbolo di un passaggio epocale, ma anche come simbolo della potenza della letteratura.L’espressione “anche nella blasfema ipotesi che Dio non esista o che Egli non si occupi dell’umanità”, figurava infatti nella Introduzione di un libro del 1625, in cui per la prima volta si cercava di stabilire un diritto della guerra e della pace. Ne era autore un cristianissimo giusnaturalista olandese, Ugo Grozio, che per costruire il suo edificio giuridico, autonomo e capace di funzionare da sé, sentì il bisogno di mettere Dio tra parentesi. Questa formula letteraria, come abbiamo visto, ha avuto una grandissima fortuna; e oggi ci permette di dire che la laicità moderna, che appunto fa come se Dio non ci fosse, ha avuto il suo rivestimento linguistico, all’inizio, non da un illuminista ateo, ma da un giusnaturalista cristiano.È inutile discutere adesso se era proprio necessario, allora, per entrare nella modernità, mettere Dio alla porta e fare come se Dio non ci fosse. Se è andata così, vuol dire che storicamente non hanno potuto affermarsi altre alternative. Ma se oggi ne parliamo è perché, a mio giudizio, la questione, bloccata da quattro secoli, si è in qualche modo riaperta; e a riaprirla non è stata la cultura laica, che su questa materia non ha prodotto un nuovo pensiero, ma è stata proprio la Chiesa; e ciò ha fatto col Concilio Vaticano II.Il Concilio ha rimesso in discussione la finzione pubblica “facciamo come se Dio non ci fosse”, e non lo ha fatto mettendosi ancora una volta su un piano controversistico ed apologetico, ma riaprendo il discorso su Dio. Finalmente, col Concilio, la Chiesa ha sentito il bisogno di rispondere alla domanda moderna su Dio, e per farlo ha dovuto prima rimettere in discussione se stessa, poi riprendere la strada degli antichi Padri della Chiesa, greci e latini, che per costruire la fede non enunciavano dei dogmi, ma raccontavano una storia, che chiamavano storia della salvezza, “historia salutis”.Ebbene il Concilio è tornato a narrare la storia della salvezza, dal disegno del Padre alla comparsa di Adamo all’incarnazione del Figlio e fino a noi; e a leggerla questa storia della salvezza raccontata dal Concilio appare abbastanza diversa, anzi molto diversa, dal modo in cui noi l’avevamo ascoltata e capita fino a ieri.Perciò oggi il Concilio è tanto contestato, perché riprendendo in mano la storia antica, apre a una storia nuova. Si può dire che non legga più la storia della salvezza come “storia sacra”, ma come storia umana, come storia laica e profana amata e sorretta da Dio. Perciò molti libri di cui sono pieni gli scaffali dei seminari e delle università cattoliche dovrebbero essere riscritti. Leggere la fede cristiana attraverso la historia salutis del Concilio è un esercizio fecondo, pieno di sorprese. E da lì si capisce la gioia, la forza liberatrice, l’immagine dolce e misericordiosa di Chiesa che dal Concilio voluto da papa Giovanni è stata trasmessa. Perché dal piano di Dio nella storia della salvezza che il Concilio ha ricostruito nell’alveo della grande Tradizione, emerge non un Dio bifronte, quale spesso si trovava nei vecchi catechismi, terribilis et fascinans, per usare il binomio di un famoso libro di Rudolf Otto, ma un Dio solamente buono, una sola faccia, nella sua indivisa bontà e nella gratuità del suo dono. Emerge un Dio che non si pente dell’uomo, che non lo scaccia dal giardino dell’Eden dandogli per punizione la morte, il sudore della fronte per il lavoro e i dolori del parto. Queste non sono pene del peccato, come diceva un’antropologia pessimistica, ma sono la condizione creaturale dell’uomo, la sua gloria; né la natura dell’uomo è decaduta, sfregiata dal peccato originale, perché mai, neanche dopo la caduta, dice il Concilio, Dio ha cessato di amarlo e di offrirgli i mezzi della salvezza. Il Dio raccontato dal Concilio perciò, non deve ottenere “soddisfazione” per l’offesa ricevuta, è un Dio che non deve essere “placato” da nessun sangue, non quello del Figlio, tanto meno quello delle innumerevoli vittime; la via sacrificale, nella religione come nella storia, nelle prigioni come nella guerra, è preclusa. È questo un Dio che non è un padrone sacro, ché anzi è più laico di noi, un Dio “relativista”, perché ama santi e peccatori ed è amico di tutte le culture, senza badare alle loro radici; un Dio che non difende i diritti di Dio, perché anzi se ne è svuotato entrando come carne nella nostra umanità; un Dio non classista, perché è entrato nel mondo non dalla parte dei signori, ma scegliendo la condizione del servo, e anzi dello schiavo, che era il “non uomo”, il migrante naufrago di allora; un Dio legislatore, ma nello stesso tempo obiettore, perché è il primo a essere felice se la legge è trasgredita per amore, come la trasgredirono Giuseppe e Maria, senza di che il figlio di Dio neanche sarebbe nato, e come la trasgredì Gesù che violò il sabato e mandò libera l’adultera; un Dio sofferente e addolorato, perché la sua creazione è ferita, e perché l’umanità è divisa, gravata dal peccato, preda del dominio e vittima della guerra; un Dio che non si sostituisce magicamente a ciò che gli uomini possono fare da soli, ma li rifornisce di amore perché possano farlo; un Dio dunque del quale non c’è bisogno di fare come “se non ci fosse”.

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